controlacrisi
Che
il fonte del Sì non stiamo passando giorni splendidi lo sanno anche i
bambini. E che tutti, perfino il presidente della Repubblica Mattarella,
preferiscano parlare del "dopo voto", è un'altro elemento che si sta
sempre più affermando. Quello che accade nelle retrovie ha
dell'incredibile però. Personaggi dubbiosi o, al contrario, fino a ieri
molto propensi per la riforma della Costituzione, come l'onorevole
Andrea Giorgis, alla fine rompono gli indugi e scelgono il No.
All'inverso, è stato il caso di certi cosiddetti rappresentanti della
sinistra, come Fabrizio Barca, per esempio, che si son fatti convincere
dalla bandiera del cambiamento, senza indagare per bene le conseguenze
reali. Cosa che sembra voler fare Giorgis. Il referendum del 4 dicembre
si conferma come una sventura, prima ancora che per il Paese, per il Pd,
che in questo momento ne incarna uno dei suoi fondamenti politici.
Pubblichiamo il post Facebook di Giorgis più che come documento politico
come documento "tecnico" in cui vengono affrontati i nodi più
importanti della cosiddetta riforma. Giorgis, va detto, è un
costituzionalista allievo di Zagrelbesky. Non a caso al centro del suo
ragionamento c'è il combinato disposto tra riforma costituzionale ed
Italicum. Buona lettura.
"Il prossimo 4 dicembre verremo chiamati a pronunciarci sulla riforma costituzionale, approvata dalle Camere lo scorso aprile.
Si
tratta di una riforma controversa, che ha diviso i parlamentari e che
sta dividendo il Paese e anche il nostro partito. Nel merito – come
abbiamo già osservato - presenta luci e ombre: accanto all’introduzione
di alcune apprezzabili misure di garanzia (come l’innalzamento del
quorum per eleggere il Presidente della Repubblica o il sindacato
preventivo sulle leggi elettorali) e all’altrettanto apprezzabile
superamento del bicameralismo paritario, contiene diverse
sgrammaticature (specie nel riparto delle competenze tra Stato e Regioni
e tra Regioni ordinarie e Regioni a statuto speciale, che potrebbero
dar luogo a incertezze e conflitti) e soprattutto la trasformazione del
Senato in una seconda Camera dalla incerta natura e dalla probabile
fragilità (pur essendo chiamata a partecipare, e in maniera
significativa, al procedimento legislativo).
La domanda che sorge
spontanea è allora se, nel complesso, mettendo a confronto i pregi con i
difetti, essa costituisca comunque un passo in avanti che può
contribuire a migliorare la qualità della nostra democrazia
rappresentativa e della forma di stato, oppure rappresenti un
arretramento che può condurre a un ulteriore indebolimento della sfera
politico-democratica.
La risposta non è semplice, perché dipende da molti fattori, di merito e di contesto politico, giuridico e sociale.
La
stessa disposizione giuridica, com’è noto, può produrre effetti anche
opposti a seconda del contesto in cui è fatta vivere, e per quanto
riguarda la forma di governo e l’assetto democratico rappresentativo
molto dipende dalle caratteristiche della legge elettorale, dalla
conformazione del sistema dei partiti e dalla c.d. legislazione
elettorale di contorno.
Una buona riforma costituzionale, inoltre,
deve saper unire il Paese e non dividerlo: la sua efficacia e la sua
durata nel tempo dipendono infatti dal grado di consenso che ottiene e
dal suo essere percepita e vissuta come un nuovo insieme di regole
condivise.
Quanto ciò oggi sia problematico è sotto gli occhi di
tutti noi. La personalizzazione del voto referendario e la sua
trasformazione in un giudizio sul Governo e sulla figura del Presidente
del Consiglio e segretario del Pd, e prima ancora l’introduzione di una
legge elettorale che riduce gli spazi di partecipazione e determina di
fatto l’elezione diretta del governo (in contrasto con la forma di
governo parlamentare) non hanno certo contribuito a mitigare il peso dei
limiti e delle contraddizioni che la riforma costituzionale presenta.
Gli argomenti che sono stati utilizzati per illustrarne gli “obiettivi” e
la legge elettorale hanno anzi contribuito ad alimentare l’idea che la
consultazione popolare concerna – non solo la riforma del Titolo V e il
superamento del bicameralismo paritario – ma soprattutto l’introduzione
di un modello di democrazia rappresentativa, caratterizzato dalla
progressiva marginalizzazione dei corpi intermedi e dalla
verticalizzazione dei processi partecipativi e decisionali, oltre che
dall’irrigidimento delle dinamiche parlamentari confinate a una sorta di
attività “esecutiva”. L’ipotesi del resto trova autorevole conferma
nelle parole di Roberto D’Alimonte, ad avviso del quale l’Italicum e la
riforma costituzionale “sono strettamente connesse. Tanto connesse che
vivranno o cadranno insieme”. Perché – prosegue D’Alimonte - “E’ la
combinazione di Italicum e riforma costituzionale … a creare le
condizioni di un diverso modello di democrazia” nel quale, “attraverso
il ballottaggio, … i cittadini scelgono direttamente i governi, così
come scelgono i sindaci e i governatori” (così su il Sole 24ore del
2.10.2016, e in senso analogo La Stampa del 3.10.2016 e da ultimo il
Corriere del 10.11.2016).
Con generosità Gianni Cuperlo si è
adoperato per correggere una simile torsione e restringere la portata
del quesito, arrivando a strappare un impegno del Vicesegretario, del
Presidente del Pd e dei Capigruppo a riconsiderare alcuni aspetti
dell’Italicum. E’ un risultato politico, senza dubbio importante, che
necessitava però di essere precisato e tradotto in atti concreti (o
almeno simbolici) che ne chiarissero il contenuto e ne confermassero
l’effettiva realizzazione: per depositare un disegno di legge - a prima
firma del Presidente del Consiglio e del Ministro delle riforme (così
come a loro prima firma furono presentati l’Italicum e la riforma
costituzionale) - che elimini il ballottaggio di lista (sostituendolo
con un ragionevole premio di governabilità) e riconduca la legge
elettorale nell’alveo della forma di governo parlamentare occorrono
pochi giorni, e pochi giorni occorrono anche per incardinarlo in
commissione.
Sono trascorse ormai più di due settimane dall’accordo,
ma, purtroppo, nulla è avvenuto (né è stata convocata una Direzione del
partito, né un’assemblea dei gruppi parlamentari, come pure era stato
annunciato).
E ciò che conta, al di là della buona o cattiva fede, è
offrire agli elettori elementi di chiarezza sul reale oggetto politico
sostanziale del referendum.
Nel corso dei lavori parlamentari -
occorre peraltro riconoscere - si sono consumati diversi errori e
forzature che anche noi, pur registrandoli e denunciandoli, abbiamo
sottovalutato, a partire dal procedere alla votazione finale con l’aula
mezza vuota. Più saggio sarebbe stato svolgere un supplemento di analisi
e insistere nella ricerca di un accordo, prolungando di qualche mese i
lavori e, soprattutto, sganciando le sorti del Governo da quelle della
riforma, ovvero, come abbiamo chiesto tante volte, parlamentarizzando
maggiormente il confronto.
Purtroppo il trascorrere del tempo e
la campagna elettorale anziché sanare queste ferite “procedurali” le
stanno acuendo, e giorno dopo giorno sembra farsi sempre più concreto il
rischio che la Carta costituzionale veda indebolito il proprio
carattere “pattizio” e compromissorio” e accentuato il profilo “di
decisione” che una parte impone all’altra.
Anche per queste ragioni,
il prossimo 4 dicembre, voterò no, con amarezza e con lo stesso
travaglio che avverto in molti compagni e amici che hanno dichiarato di
votare sì (e con i quali sento di appartenere alla medesima comunità)".
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martedì 29 novembre 2016
Referendum, Andrea Giorgis, deputato Pd, dall'ok alla riforma ora sceglie il No. "Il combinato disposto tra riforma e Italicum è una trappola"
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