venerdì 25 novembre 2016

25 Novembre. Giornata contro la violenza sulle donne 2016, in corteo per dire: ‘Siamo tutte diverse’.

La Giornata internazionale contro la violenza sulle donne è stata scelta per onorare le tre sorelle Mirabal – Patria, Minerva e María Teresa – vittime di Stato, in realtà (solo la quarta, Belgica, visse fino al 1° febbraio 2014), e non della violenza domestica.

Giornata contro la violenza sulle donne 2016, in corteo per dire: ‘Siamo tutte diverse’
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Furono assassinate da scagnozzi del dittatore della Repubblica Dominicana Rafael Trujillo il 25 novembre 1960. Dal 1980 la data divenne il simbolo del loro sacrificio: durante il primo Incontro internazionale femminista, in Colombia, quando la Repubblica Dominicana la propose in onore delle tre sorelle conosciute come Las Mariposas (Le Farfalle, ndr), uccise mentre andavano a trovare in carcere i mariti, prigionieri politici. Solo dopo un po’ di tempo molti Paesi si unirono nella commemorazione di questo giorno, attribuendogli valore simbolico di denuncia del maltrattamento fisico e psicologico verso le donne e le bambine. Il 17 dicembre 1999 l’Assemblea generale delle Nazioni unite, con la risoluzione 54/134, ha scelto la data del 25 novembre per celebrare la lotta contro la violenza sulle donne, in omaggio alle sorelle Mirabal”.



Quando questo avvenne però, in realtà, si andò in direzione di una progressiva depoliticizzazione dell’evento primario. Tutto divenne fumoso e si attribuì alla data un interesse per la istituzionalizzazione della lotta, per la richiesta di leggi repressive di Stato, uno Stato contro cui le sorelle in realtà lottarono fino alla fine.
12299295_932094026826911_7588950280777668795_nLa violenza è maschilista, etero/patriarcale  Fare di questa giornata un momento in cui si contano le scarpe rosse, o le macchie di sangue artificiale esposte da qualunque parte, o l’esposizione di modelle con lividi disegnati in volto, come per l’ultima orrenda pubblicità “progresso” della Rai, è un modo per tradire l’origine stessa della memoria dedicata alle sorelle Mirabal. La violenza non è “maschile” ma è di Stato, economica, sociale, repressiva. A meno di non ritenere il maschio origine di tutto il male possibile, riportando l’attenzione solo verso la violenza di genere; vista, invece, attraverso una chiave di lettura intersezionale, direi che la violenza si può definire maschilista, etero/patriarcale, con conseguenze che colpiscono gli stessi uomini, uniti nella lotta alle sorelle Mirabal, così come con noi adesso, nel presente, contro un sistema che ci opprime tutt*.
Femministe? Ancelle del capitalismo – Serve ricordare la riflessione che fa concludere alla femminista Nancy Fraser che la lotta alla violenza “domestica”, quindi lontana nell’immaginario collettivo dai contesti pubblici, usata per esigere unità tra tutte le donne, dimenticando le differenza di genere, razza, cultura e identità politica, ha reso le femministe, quelle della seconda ondata, ancelle del capitalismoUna lotta che ha allontanato tante donne dal desiderio di migliorare la propria vita esigendo reddito e casa, indispensabili se vuoi lasciare una persona violenta, o rivendicando il diritto a una sanità che non pregiudichi alcuna scelta personale, sia essa rivolta alla necessità di accedere a cure indispensabili per la salute, o alla necessità di poter esprimere volontà di scelta, in piena libertà, nel caso in cui si decida per una interruzione di gravidanza, per l’uso di contraccettivi d’emergenza, per l’aiuto alla transizione di persone trans ftm o mtf.
Ortodossia femminista – Questa è un’altra delle cose che vanno chiarite, a mio avviso. Se si parla di sistemi oppressivi bisogna valutare ogni atteggiamento oppressivo da qualunque parte arrivi, che si tratti di uomini o che si tratti di donne. Ce ne sono tante che si nascondono dietro uno pseudo femminismo per poi immaginare di poter imporre decisioni normative in relazione a quel che ognun* vuole fare del proprio corpo. Non ce le vedo in piazza contro la violenza sulle donne quelle che praticano violenza su altre donne perché le vorrebbero simili a se stesse, perché vorrebbero un pensiero unico o perché semplicemente amano praticare cyberbullismo immaginando che pronunciare le parole “vittima di violenza” sia un lasciapassare per poter pestare virtualmente, per esempio, colei che vorrebbero indottrinata, evangelizzata, da un modello ortodosso e vittimista di un femminismo che dovrebbe essere decisamente tramontato.
Violenza di genere tra donne – In queste giornate non posso immaginare che altre, quelle che trattano le sex workers come fossero demoni da redimere invece che uman* e quelle che vorrebbero decidere per tutte quando si tratta di gestazione per altri, quando si parla di velo, con supporto alle polizie che multano le donne che lo indossano, ecco, non posso immaginare che queste stesse donne – somiglianti alle peggiori antiabortiste  – possano attraversare spazi dediti al reciproco ascolto e riconoscimento, invece che alla negazione, dei soggetti, al rispetto delle altrui culture e delle scelte. Non posso immaginare che queste altre possano voler impedire alle persone trans di dirsi donne, solo perché qualcun@ immagina di detenere lo scettro di un regime eteronormativo che, purtroppo, e io lo so bene, viene espresso con violenza anche da alcune donne.
Cos’è la violenza di genere – Ci sarebbe molto altro da dire in relazione a queste giornate, ma mi limiterò a descrivere alcune iniziative che caratterizzano la preparazione a due giornate romane contro la violenza di genere, ovvero quella esercitata contro chi impone ruoli di genere, donne incluse, e che in realtà si avvicinano molto più al senso del vero significato assunto dalla giornata stessa. Lontane dal marketing privato o istituzionale. Non vittimiste, ma schierate contro scelte di governo paternaliste, così come quelle di partiti che usano le donne violate come pretesto per motivare razzismo e islamofobia, o che usano le donne per vendere e acquisire qualunque altra cosa: denaro, fama, consensi elettorali, dimenticando che governi di vario tipo hanno dimenticato di lavorare su prevenzione e cultura, su quel che servirebbe per immaginare e realizzare una società migliore. Hanno dimenticato, per l’appunto, che una lotta per l’autonomia, per la libertà di tutt* passa attraverso la possibilità di avere un reddito. Dimenticano anche che la violenza di genere consiste nella impossibilità di avere assistenza all’aborto, negare una pillola del giorno dopo, continuare a infierire contro i corpi delle donne non normati, insistere affinché le persone si identifichino in generi che non le rappresentano. Violenza di genere è quella contro uomini che vengono socialmente ostracizzati, bullizzati, perché non corrispondono al modello machista e vogliono realizzare, per loro, un modello autodeterminato.
Il femminicidio come “brand” – In questi giorni iniziative, cortei, slut walk, riunioni, diffusione virale di parole e immagini hanno portato a una valutazione complessiva di quel che potrebbe essere la lotta contro la violenza di genere a partire dalla riflessione su problemi reali e non su quella fuffa che serve ai partiti e ai governi per fare pinkwashing grazie all’uso del termine “femminicidio” ormai diventato un brand.
Valorizzare le differenze per vincere insieme – Il 26 novembre a Roma sfileremo in corteo. La protesta è sempre “contro” e, pur con le sue leggerezze, queste giornate contribuiscono comunque a decostruire modelli dominanti per poi ricostruire proposte sulle quali si può discutere, che si arrivi tutte allo stesso punto di accordo o meno. Perché una sana dialettica femminista deve consentire un lavoro di riparazione dei conflitti nei principali momenti di lotta per poi riaffrontarli con l’entusiasmo di chi non dimentica che è necessario valorizzare le differenze.
Resistenza per sempre contro l’omologazione – Immagino questo corteo colorato, gioioso con donne che aprono l’evento e lo spezzone transfemminista, gli uomini, compagni di battaglia, che sfilano “con” e non “al posto di”, senza dimenticare gli ombrelli rossi delle sex workers e le donne migranti che mai dovrebbero essere osservate come vittime o, altrimenti colpevoli, se non accettano di raccontare il femminismo così come lo raccontiamo noi. Immagino una giornata di piena partecipazione, da parte di tante persone. Tante. Noi compres*. In ricordo delle combattenti, resistenti, sorelle Mirabal. Perché la nostra, in fondo, che avvenga in casa o fuori casa, è resistenza, sempre, a imposizioni che vogliono trasformarci in repliche di noi stess*, omologat*, tutti ugual*. Per me è così. Per voi?

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