economista, docente dell'Università di Siena
Il libro si divide in due parti. I primi tre capitoli presentano la ricostruzione storica di un sistema teorico di grande prestigio, che la teoria economica dominante però ha cercato di relegare nel sottomondo dell’eterodossia. Il primo capitolo espone l’approccio del sovrappiù sviluppato da Smith, Ricardo e Marx. Il secondo tratta della teoria neoclassica, versione raffinata di quella che Marx chiamava “economia volgare”. Il terzo si concentra sulla rivoluzione keynesiana. Ma non è un libro di storia del pensiero. Cesaratto presenta l’oggetto della sua ricostruzione come materia viva. Rilegge quella storia con gli occhiali di Marx, Keynes e Sraffa, e approda all’esposizione di un sistema teorico che è “se non del tutto giusto quasi per niente sbagliato”.
In questo sistema i redditi non di lavoro sono spiegati non come remunerazioni dei contributi produttivi di fantomatici fattori di produzione, ma come un sovrappiù prodotto dai lavoratori. Il livello del salario non è determinato dalle forze di mercato, ma dai rapporti di forza tra le classi. I mercati non sono quei miracolosi meccanismi di aggiustamento automatico degli shock esogeni, e quindi gli impianti industriali possono restare a lungo sottoutilizzati mentre la disoccupazione può essere una condizione normale dello sviluppo economico.
Cesaratto è molto bravo nello spiegare, usando gli schemi analitici di Sraffa, le deformazioni ideologiche e gli errori analitici di quella parabola neoclassica che sostiene che i mercati tendono alla piena occupazione, il salario a uguagliare la produttività marginale del lavoro, l’interesse a uguagliare la produttività marginale del capitale… e il profitto a zero. Semmai si potrebbe imputargli una certa timidezza della vis polemica, ché la teoria dell’equilibrio economico generale è stata criticata anche per ben altri difetti, e innanzitutto per l’irrealismo di certe ipotesi: concorrenza perfetta, prezzi flessibili, mercati completi, informazioni complete, transazioni a costo zero, rendimenti costanti di scala, perfetta capacità di calcolo degli agenti economici etc. etc. Un altro difetto fondamentale ha a che fare con l’impossibilità di dimostrare che la stabilità è una proprietà intrinseca dell’equilibrio generale, un difetto che, mentre rende insensati gli esercizi di statica comparata (dato il “principio di corrispondenza” di Samuelson) e quindi gli stessi concetti di variazioni al margine su valori d’equilibrio, depriva il modello della capacità di regolare un eventuale processo di gravitazione.
Viene il dubbio però che non a caso Cesaratto abbia trascurato questo tipo di critica. Lui pensa che gli schemi di Sraffa siano importanti non solo perché consentono di criticare un aspetto essenziale della teoria del valore neoclassica (e uno inessenziale di quella di Ricardo e Marx), ma anche perché fornirebbero una teoria del valore realistica da porre a fondamento dell’approccio post-keynesiano che lui propone in alternativa a quello marginalista. Questa teoria del valore, nella riformulazione di Pierangelo Garegnani, postula che la mano invisibile funzioni facendo gravitare i prezzi di mercato e le quantità prodotte attorno a una “posizione di lungo periodo” con tasso di profitto uniforme e scambi ai prezzi di produzione. Presuppone dunque alcune di quelle ipotesi che rendono irrilevante il modello di equilibrio neoclassico, a partire dai prezzi flessibili per finire ai rendimenti costanti di scala. E se non esistono mercati intertemporali, quali ipotesi si faranno su quelle aspettative di prezzo che dovrebbero far muovere gli investimenti da un’industria all’altra? E cosa garantisce che il processo di gravitazione sia generalmente stabile? E se non lo è, come si può pensare che le condizioni di produzione di lungo periodo costituiscano il regolatore del processo stesso?
I post-keynesiani riconoscono i meriti di Sraffa nella critica alle parabole neoclassiche, ma non hanno bisogno dei suoi schemi per fondare una teoria del valore alternativa. Gli bastano quelli di Kalecki e della tradizione di ricerca che origina dalla sua teoria dei prezzi. Questa tradizione si è andata sviluppando negli anni ’50 e ’60, ed è infine approdata a una teoria dei “prezzi normali” che assume mercati non perfettamente concorrenziali. Le imprese reagiscono a variazioni della domanda con variazioni delle quantità prodotte. I prezzi sono determinati dalle imprese stesse, restano fissi a fronte di variazioni cicliche della domanda e assicurano tassi di profitto differenziati.
E veniamo alla seconda parte del libro, che è dedicata allo studio della crisi contemporanea. Il quarto capitolo si occupa del funzionamento della politica monetaria in un’economia aperta. È magistrale la chiarezza e la semplicità con cui Cesaratto presenta difficili problemi di politica economica senza perdere rigore analitico. Non si tratta tuttavia di una fredda lezioncina teorica. I concetti, non appena introdotti e spiegati, vengono subito utilizzati per farci capire una cosa importante: che nessun governo nazionale, per quanto dotato di sovranità monetaria e fiscale, può aspirare a raggiungere la piena occupazione o anche solo un soddisfacente sviluppo economico se opera in un’economia aperta entro un mercato dominato dal mercantilismo tedesco. L’Unione Europea e la moneta unica hanno aggravato il problema, il quale tuttavia esisteva già nei precedenti vent’anni e più. E Cesaratto è convincente nello spiegarci il fallimento del laburista Tony Benn e del socialista François Mitterand i quali, nei tardi anni ’70 e nei primi anni ’80, cercarono di avviare nei rispettivi paesi delle politiche keynesiane per la piena occupazione. Incapparono nel vincolo esterno: le politiche espansive creavano deficit della bilancia commerciale che non sarebbero state sostenibili a lungo andare. In realtà si scontrarono con le conseguenze della pervicacia tedesca, ché i vincoli esterni si sarebbero potuti allentare se la Germania avesse fatto a sua volta politiche fiscali fortemente espansive. Infine dovettero firmare la resa. Le condizioni di capitolazione imponevano politiche miranti a creare un’elevata disoccupazione permanente come strumento disciplinare: il controllo salariale avrebbe assicurato il rispetto del vincolo esterno. In Francia assunsero la forma di una rinuncia a difendere l’occupazione con la svalutazione e/o il protezionismo, e furono rese accettabili all’orgoglio nazionale dal fatto che la resa fu firmata dai socialisti francesi non davanti ai vincitori tedeschi, bensì davanti all’ala liberista della stessa sinistra francese (Jacques Delors). Ebbene “strategie nazionali per la piena occupazione sono oggi ancor più difficili” (p. 183). Dunque: che fare?
Intanto vediamo cosa non fare, secondo Cesaratto. Il quale si mostra giustamente scettico nei confronti di un certo semplicistico “sovranismo nazionale”. Non crede che l’uscita dell’Italia dall’eurozona, con ritorno a una Lira che svaluterebbe immediatamente, sia sufficiente per avviarla verso la piena occupazione. E non si può dargli torto. Mettiamola così: nella migliore delle ipotesi, dato il clima di depressione in cui ci troviamo in Europa, è possibile che il governo di un paese con economia piccola e molto aperta usi politiche espansive, difendendole con un cambio flessibile, per portare il tasso di crescita medio del PIL su valori positivi, e questo sarebbe già un buon risultato per l’Italia. Per “economia piccola” s’intende una che non è capace di far crescere in misura rilevante le proprie esportazioni in seguito a un aumento delle proprie importazioni. Un’economia “grande” era quella degli USA negli anni 1950-70. Le economie di paesi come l’Italia, la Svezia, il Regno Unito e il Giappone sono da considerare piccole. Ebbene confrontiamo il tasso di crescita medio annuo del PIL di questi 4 paesi nel periodo 2007-15 (fonte World Bank): Italia -0,75; Svezia 1,51; Regno Unito 1,11; Giappone 0,39. Gli esempi non sono scelti a caso. L’economia italiana è confrontata con quella di tre paesi di dimensioni e grado di apertura comparabili, ma che si trovano fuori dall’eurozona. Peraltro sono economie un po’ diverse tra loro: si pensi al Regno Unito, che ha un deficit strutturale del conto corrente, il quale permane nonostante il deprezzamento della Sterlina; oppure alla Svezia, che ha migliorato il saldo commerciale con un apprezzamento della Corona. Sia come sia, forse per un’Italia che esce dalla UE per svalutare (sperando che gli altri paesi europei non reagiscano con svalutazioni competitive) un tasso di crescita medio dell’1,5% non sarebbe impossibile. Nondimeno, lo scetticismo di Cesaratto resta pienamente giustificato perché, dopo un quarto di secolo di crescita stentata e un decennio di decrescita infelice, ci vuole ben altro per raggiungere la piena occupazione, diciamo: almeno un quindicennio di sviluppo a un tasso intorno al 4%.
Cesaratto non crede molto, oltre che alla svalutazione, neanche alla politica industriale, neanche a quella mirata alla sostituzione delle importazioni. Non è che la rifiuti, ma pensa che sia difficile da attuare in tempi brevi, e che “a sinistra ci si sciacqui troppo spesso la bocca con le magnifiche sorti e progressive della politica industriale” (p. 200). Si può allora pensare a una nuova Europa? Magari una Confederazione del sud Europa? Sarebbe un’economia più grande di quella italiana e avrebbe un più basso grado di apertura, dunque dovrebbe fronteggiare un vincolo esterno meno stringente. Ahimé! Cesaratto considera l’europeismo non solo utopistico, “velleitario a sinistra, liberista a destra” (227), ma autolesionista. Non parliamo poi dei sogni de “l’indefesso internazionalista” (247), che non ha capito che il socialismo si costruisce in un solo paese. Ma – ci si può domandare – non è questa una forma di “sovranismo nazionale”? Ed è possibile costruire il socialismo in un solo paese… sud-europeo, o almeno lottarvi con successo per l’aumento dell’occupazione e dei salari, quando l’Europa è dominata dall’hybris neo-mercantilista?
Gran parte delle motivazioni dello scetticismo di Cesaratto vengono fornite nel capitolo quinto, che è una ricostruzione accurata e molto illuminante della “congiuntura più lunga”, cioè di quella fase della storia economica e politica italiana che va dalle “occasioni mancate” degli anni ’60 alla catastrofe contemporanea. Questo capitolo ci fa capire che l’Unione Europea e la moneta unica non hanno fatto che aggravare elementi di crisi e di debolezza che erano presenti almeno da metà degli anni ’70. Ci ragguaglia inoltre sull’importanza del “golpe bianco” messo in atto nel 1981 da Beniamino Andreatta e Carlo Azeglio Ciampi con il “divorzio” della Banca d’Italia dal Tesoro, un atto eversivo che mirava a trasformare la Banca Centrale in uno strumento di disciplina del movimento operaio, secondo un modello che era stato ampiamente sperimentato in Germania. Senonché in Germania lo strumento funzionava rapidamente e come meccanismo di aggiustamento di breve periodo: se i sindacati chiedevano troppo, la Buba (con la scusa di controllare l’inflazione) alzava il tasso di sconto e i lavoratori dovevano accettare una riduzione dell’occupazione. In Italia invece ha creato le condizioni per una progressiva deindustrializzazione e per un abbattimento secolare della combattività operaia. Il dramma si è svolto in tre atti. Atto primo: il debito pubblico sale alle stelle (essendo il tasso d’interesse schizzato a livelli stratosferici a causa della politica di riarmo di Reagan prima e quella di riunificazione tedesca poi). Atto secondo: L’Italia entra nell’Eurozona impegnandosi a ridurre il debito pubblico, o almeno il deficit di bilancio, mediante politiche fiscali restrittive (con Angela Merkel che assegna i compiti da fare a casa). Atto terzo: il ricatto di Marchionne (o voti democraticamente una riduzione dei tuoi diritti o perdi il posto di lavoro) viene universalizzato da Renzi con il Jobs Act, la minaccia essendo resa credibile dal lungo trend decrescente dell’occupazione industriale. Il capitolo si conclude con la dimostrazione che questa Europa non è riformabile, non è vittima di errori che possano essere corretti, ma è la conseguenza di una precisa scelta politica, essendo stata costituita proprio per funzionare come “uno strumento disciplinare delle classi lavoratrici, in particolare dell’indisciplinato sud, Francia inclusa” (p. 246).
E veniamo all’ultimo capitolo, il più bello e più profondo. Devo fare tanto di cappello al professor Cesaratto, che riesce a far capire a tutti il funzionamento della politica della BCE nell’era Draghi, impresa non facile data la complessità di molti tecnicismi e delle teorie monetarie che gli stanno dietro. Draghi non è un rozzo monetarista, tantomeno un seguace del nazional-liberismo schäubliano. La Provvidenza ha voluto dare al nemico di classe l’uomo giusto al momento giusto nel posto giusto: un liberale neo-keynesiano al controllo della politica monetaria in un momento critico della storia della UE. Se al posto suo ci fosse stato un Weidmann qualsiasi, oggi l’UE non esisterebbe più. Sarebbe saltata, se non con le crisi dei piccoli paesi periferici (Portogallo, Irlanda, Cipro, Grecia,) senz’altro con la crisi del debito che ha colpito Italia e Spagna nel 2011. Draghi ha dapprima lasciato fare “i mercati”, così creando le condizioni per la caduta dei governi che non si decidevano ad attuare le “riforme”, poi è intervenuto facendo rientrare la crisi con delle semplici (si fa per dire) manovre di espansione monetaria (gustoso il passo in cui Cesaratto ci fa fare quattro risate quando rievoca il tentativo di Mario Monti di prendersene il merito). Ma non voglio togliere al lettore il piacere di leggersi questo capitolo parola per parola. Anzi gli consiglio di cominciare a leggere il libro proprio da qui, dalla fine.
Devo riprendere invece il discorso sul “che fare”. La tesi fondamentale è: dato che l’UE è irriformabile, bisogna puntare sull’Italexit. Ormai un numero crescente di economisti, di politici e di persone di buon senso se ne sta convincendo. E dopo l’osservazione del trattamento spietato che i nazional-liberisti tedeschi e la Troika hanno riservato alla Grecia, questo processo di conversione sta assumendo le dimensioni di una valanga. Per come la vedo io, l’uscita dell’Italia dall’Unione Europea va intesa come una mossa tattica volta ad abbattere la dittatura “eurista” e creare le condizioni per far ripatire rapidamente il processo di unificazione politica europea (dell’Europa del Sud, inclusa la Francia) su base democratica e sociale. Ma Cesaratto non la vede così. Lui propone l’Italexit come una strategia che mira a salvare solo l’Italia, senza “velleitarismi” europeisti e internazionalisti. E insiste molto su questa tesi, nonostante la sua insofferenza per il “sovranismo nazionale” e nonostante abbia convincentemente documentato la débâcle di Tony Benn e di François Mitterand. Ma allora cosa ha in mente?
Be’, ormai dovrebbe essere chiaro. Una volta fatto lo sconto alla svalutazione, alla politica industriale e alla Confederazione Europea, non resta che puntare sull’innalzamento di barriere commerciali. Non è che Cesaratto vada matto per l’autarchia. La sua posizione resta problematica. La domanda che si pone è: cosa può fare un paese che volesse adottare politiche progressiste in isolamento? Però ci si può domandare a nostra volta: se le svalutazioni fossero inefficaci in quanto susciterebbero svalutazioni competitive, come può essere più efficace il protezionismo? Perché Germania, Francia e Spagna dovrebbero volersi difendere da una svalutazione italiana e non da una tariffa italiana? Si consideri anche il fatto che le svalutazioni non sono proibite dai trattati internazionali. Il protezionismo invece lo è, ed è sanzionabile in base alla Dispute Settlement Understanding che l’Italia ha sottoscritto nel WTO. Ora, è vero che, dopo lo scoppio della crisi, molti paesi hanno fatto ricorso a politiche protezionistiche più o meno larvate (ad oggi sono state ben 514 le cause arbitrate dal Dispute Settlement Body, con un trend decrescente fino al 2007, crescente dopo). Ma è anche vero che questo è stato uno dei fattori che hanno contribuito a cronicizzare la crisi. Se tutti fanno gli opportunisti, nessuno porta a casa niente: se la somma delle importazioni mondiali diminuisce, nella stessa misura diminuisce la somma delle esportazioni.
Probabilmente Cesaratto ha in mente una situazione in cui l’Italia esce dalla UE e cerca di farcela da sola usando un po’ di svalutazione, un po’ di politiche industriali e un po’ molto di protezionismo. Ciò che invece rifiuta categoricamente è l’idea di puntare a un processo di federazione del Sud Europa. Il che suona strano, dal momento che le stesse politiche protezionistiche sono tanto più efficaci quanto più grande è il paese che le applica. Infatti le industrie nazionali che devono produrre i sostituti delle importazioni raggiungono più facilmente l’efficienza economica se operano in un mercato interno grande. Inoltre le industrie esportatrici che devono fronteggiare le rappresaglie commerciali degli altri paesi hanno probabilità di sopravvivenza tanto più alte quanto più ampio è il mercato interno.
Ora, è un dato di fatto che, grazie a questa Unione Europea, in tutto il continente i vecchi sentimenti europeisti stanno cedendo il campo a un ritorno del nazionalismo. Non sorprende perciò l’antieuropeismo di Cesaratto. Secondo lui “l’unica Europa auspicabile è quella di stati nazionali sovrani che cooperino strettamente”. Come? Con il protezionismo e le svalutazioni competitive? Forse pensa a un’unione doganale europea che si limita a difendersi dal dumping sociale, fiscale e ambientale cinese? Senonché i più importanti competitori commerciali dell’Italia stanno in Europa. Ma allora, se il problema è difendersi dalla concorrenza tedesca e francese, come si può sperare che questi paesi “cooperino strettamente” con un’Italia che pratica la forma più ostile di mercantilismo? O forse Cesaratto vagheggia un’unione doganale latina che si difende con barriere non tariffarie dal mercantilismo tedesco? In ogni caso, sorprende che consideri realistica una cooperazione internazionale basata sulla più sciovinista delle politiche mercantiliste, mentre considera utopistica la costruzione di un’altra Europa, democratica e socialista.
Ciò detto, devo ribadire che il libro è illuminante, e lo consiglio non solo agli studenti, ai militanti, ai giornalisti e alle persone colte in genere, ma anche a molti economisti, specialmente a quelli che si muovono sulla cresta dell’onda delle mode ideologiche. Il neoliberismo sta crollando e, a quanto pare, i venti dell’egemonia stanno cambiando. Forse potrebbero ora soffiare nella direzione auspicata da Cesaratto.
* economista, docente dell'Università di Siena
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