Abbiamo invitato alla discussione i compagni della campagna
Schiavi Mai, i lavoratori di Foodora in lotta con l’azienda, i ragazzi
del Mompracem (il collettivo del liceo D’Azeglio), e per l’assemblea
abbiamo scelto il titolo ‘Generazione Erasmus o generazione working
poor?’ Di noi, infatti, sui mezzi di comunicazione e nel discorso
pubblico, si parla prevalentemente secondo due chiavi di lettura: da un
lato saremmo una generazione smart, cosmopolita, flessibile, sempre
pronta a muoversi e viaggiare, non afflitta dalla fastidiosa mania della
stabilità come i nostri genitori; contemporaneamente, non di rado
diventiamo dei bamboccioni, che non accettano le opportunità che vengono
offerte (‘choosy’, come ebbe a dire la Fornero), che preferiscono
rimanere a casa con la mamma invece di mettersi in discussione.
Crediamo che queste ricostruzioni non reggano a un
confronto più attento, e più onesto, con la realtà, che mostra invece
una situazione di strutturale disoccupazione, precarietà e carenza di
prospettive per la nostra generazione. A nostro giudizio, lo
smantellamento dell’università nel nostro paese, la precarizzazione del
lavoro, e la tendenza all’emigrazione che ne deriva, non rappresentano
fenomeni casuali o imputabili a un generico malaffare presente nel
nostro paese, ma sono il risultato delle politiche economiche che tutti
gli ultimi governi hanno implementato e che derivano direttamente dalle
necessità dell’Unione Europea di smantellare il modello sociale
sviluppato nel dopoguerra per giocare un ruolo da protagonista nella
competizione globale.
In questo processo, l’Italia, come gli altri paesi
mediterranei, rappresenta un paese periferico, con un’economia
specializzata in settori a basso contenuto tecnologico. Lo
smantellamento dell’università pubblica a cui abbiamo assistito negli
ultimi anni è dunque perfettamente coerente con questi sviluppi (molti
laureati, semplicemente, non servono), così come la divisione che va
delineandosi nettamente tra pochi atenei di serie A, che mantengono un
profilo di ‘eccellenza’ internazionale, e molti di serie B, che
diventano ‘laureifici’ in via di ridimensionamento. Il taglio dei
finanziamenti comporta un aumento generalizzato delle tasse che ha
ovviamente effetti molto diseguali da un punto di vista di classe e
geografico.
Ancora peggiore la situazione del mercato del
(non)lavoro: in Italia la disoccupazione giovanile si aggira intorno al
40%, 1 giovane su 4 è un NEET (non studia e non lavora), la maggioranza è
comunque, strutturalmente e permanentemente (più della metà dei giovani
ha un contratto precario a 10 anni dall’ingresso nel mercato del
lavoro), precaria. Il Jobs Act ha completamente liberalizzato l’uso di
contratti atipici (primi fra tutti i voucher, 110 milioni venduti in
nove mesi nel 2016!); né i rimedi adottati, come la Garanzia Giovani,
hanno sortito alcun effetto, mirando semplicemente ad avvicinare
l’offerta a una domanda di lavoro che non c’è. Nel frattempo, si cerca
continuamente di legittimare la pratica del volontariato e del lavoro
gratuito, come a Expo, o come con l’alternanza scuola-lavoro, abituando
le persone a non essere pagate fin da giovanissime.
Logico, evidentemente, che per molti si prospetti
l’emigrazione forzata come unica alternativa: questa riguarda persone di
ogni età e di ogni grado di istruzione, sia basso che anche molto alto,
che a grande maggioranza si dirigono verso i paesi del ‘centro’
europeo, per ciò che abbiamo definito come ‘furto’ più che fuga di
cervelli.
Fabio ha spiegato le origini di Schiavi Mai, la campagna nata
recentemente dal sindacato Usb e che si propone di lanciare una parola
d’ordine chiara e inclusiva per connettere le lotte di tutti quei
lavoratori e non che sperimentano forme di estremo sfruttamento,
paragonabili a nuove schiavitù: in particolare i braccianti, i
lavoratori della logistica, ma anche tutti i precari pagati a voucher, i
disoccupati intrappolati nelle “politiche attive del lavoro”, i
migranti e chi lotta per il diritto all’abitare. Da 30 anni il mondo del
lavoro è sotto attacco e occorre trovare le forme di ricostruire
quell’organizzazione e quella solidarietà di classe senza le quali non è
possibile resistere e difendere il diritto ad avere un lavoro e una
vita dignitosa.
I lavoratori di Foodora in lotta hanno ricostruito le tappe della lotta contro
l’azienda che, da una paga iniziale di 5 euro all’ora, è passata nei
mesi scorsi a pagare €2,7 a consegna, senza garantire alcuna tutela ai
lavoratori, che vengono considerati nel rapporto di lavoro come semplici
‘collaboratori’, su cui è scaricato ogni onere compreso l’acquisto
dell’attrezzatura necessaria per lavorare; è stato raccontato di ragazzi
investiti per la strada, senza nessuna assistenza o risarcimento. Dopo
l’inizio della protesta, molti dei lavoratori in agitazione sono stati
semplicemente disconnessi dalla app che gestisce le consegne, di fatto
licenziati! Foodora, come altre aziende di questo tipo, sta facendo di
tutto per legittimare il lavoro ‘a cottimo’ anche da un punto di vista
culturale, presentandolo come la forma di lavoro perfetta per giovani
smart e flessibili.
I compagni del collettivo Mompracem hanno raccontato
la loro esperienza con l’alternanza scuola-lavoro, uno dei principali
provvedimenti della cosiddetta ‘Buona scuola’, che per i ragazzi, il più
delle volte, si traduce in pura manovalanza non retribuita, senza
alcuna valenza formativa – anzi, sacrificando intere settimane ai
regolari orari di lezione. Con l’alternanza, di fatto si consente alle
imprese di avere a disposizione una enorme forza-lavoro gratuita, con
cui coprire le mansioni meno qualificate, sacrificando laddove possibile
posti di lavoro regolarmente retribuiti (alcuni tra gli stessi ragazzi
di Mompracem sono stati mandati a lavorare alla Reggia di Venaria, dove è
in corso da mesi una lotta dei lavoratori contro il taglio del 40% del
monte ore). I giovani lavoratori non hanno alcuna tutela contrattuale (è
stato raccontato di una ragazza che si è rotta il polso, ma manca
qualsiasi responsabilità contrattuale del datore di lavoro), e inoltre
il percorso nelle aziende avrà dal 2018 un peso decisivo sul voto finale
all’esame di maturità (15 punti), esponendo potenzialmente i lavoratori
a ogni sorta di ricatto da parte del datore di lavoro (‘se non fai
quello che ti dico, ti faccio bocciare’).
Il dibattito è stato ricco di spunti e ha senza dubbio
offerto una panoramica di diverse forme di sfruttamento proprie del
contesto in cui viviamo, e che sono accomunate dal generale attacco
contro il mondo del lavoro portato avanti dal governo Renzi, dal PD e
dall’Unione Europea. E’ questo il contesto in cui si inserisce anche il progetto di controriforma costituzionale su cui saremo chiamati a esprimerci il 4 dicembre:
un tentativo di rendere effettivo il superamento dei normali
procedimenti democratici, di blindare l’esecutivo nei confronti ogni
ingerenza del Parlamento e in generale della discussione pubblica, per
applicare molto più velocemente le politiche richieste dai mercati e
dalla Troika. E’ di fondamentale importanza, allora, che come giovani,
studenti e precari sappiamo collegare le nostre rivendicazioni a quelle
di tutti i lavoratori, non importa la loro età, la cui vita si svolge
sotto il ricatto continuo della disoccupazione, della precarietà e dello
sfruttamento; delle persone che vivono una situazione di emergenza
abitativa; dei migranti, che pagano la guerra economica e militare
combattuta senza soluzione di continuità dai nostri governi. Le giornate
del 21-22 ottobre hanno rappresentato indubbiamente una tappa
importante di questo percorso di ricomposizione sociale, che con un
forte NO sociale al referendum del 4 dicembre potrà rinforzarsi
notevolmente.
La working poor generation ha iniziato a dire NO!
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