martedì 18 marzo 2014

Tony Benn, un incendiario fra i pompieri.



Tony Benn, scomparso venerdì scorso a Londra, è stato per decenni una figura di riferimento della sinistra interna del Labour. Considerato un tempo un paria dall'establishment politico e mediatico britannico che oggi lo santifica, fu il protagonista della lotta lunga una vita per democratizzare il partito e portarlo su posizioni genuinamente anticapitaliste.

di Leonardo Clausi, dal manifesto
Tony Benn, scom­parso venerdì a Lon­dra, dove era nato ottan­totto anni fa, è stato l’ultima di molte cose: ultimo grande socia­li­sta inglese nei bran­delli seman­tici che que­sta parola si ostina a trat­te­nere, ultimo custode di una tra­di­zione di agire poli­tico la cui infles­si­bile coe­renza era con­si­de­rata peri­co­losa dalla stampa di destra e con­tro­pro­du­cente da quella di cen­tro­si­ni­stra, ultimo rap­pre­sen­tante di un’epoca in cui il clas­si­smo della società bri­tan­nica aveva soli­dità ancora tote­mica. Ultimo – infine — dei radi­cali emi­nen­te­mente inglesi: non­con­for­mi­sta puri­tano e poco mar­xi­sta, nemico dell’economicismo e pala­dino di un’idea cri­stiana di democrazia.

L’accento, come i modi e il por­ta­mento, ne hanno sem­pre denun­ziato le ori­gini irri­me­dia­bil­mente ari­sto­cra­ti­che da lui impie­gate, fin dal suo ingresso in par­la­mento a ven­ti­cin­que anni d’età, non per divi­dere ma per unire, per rag­giun­gere il più vasto numero di orec­chie, cuori e cer­velli pos­si­bile, in una car­riera poli­tica spesa nel vano ten­ta­tivo di por­tare a sini­stra il Labour e segnata da lotte molto aspre con i com­pa­gni, ma in cui l’odio per­so­nale non trovò mai spa­zio.

Eterna spina nel fianco del suo par­tito, Benn — che nel 1981, in pieno governo That­cher e sotto la lea­der­ship di Michael Foot, fu pro­ta­go­ni­sta di una feroce lotta per la vice­se­gre­te­ria con­tro Denis Hea­ley che pro­vocò la scis­sione da cui sca­turì la social­de­mo­cra­tica Spd (poi con­fluita nei Lib­dem) — è accu­sato di averne minato la capa­cità di porsi come reale alter­na­tiva al domi­nio that­che­riano e that­che­ri­sta. Fin quando, natu­ral­mente, dopo quasi un ven­ten­nio, non sarebbe arri­vata la rivin­cita di un altro Tony, Blair: ma a patto di un avvi­ci­na­mento tal­mente smac­cato alla poli­tica — e ai pri­vi­legi — del nemico da risul­tarne, oggi, vir­tual­mente indistinguibile.

Il suo è stato una spe­cie di Win­ter­reise poli­tico, per­corso tutto con­tro­vento. Dopo aver rinun­ciato, primo nella sto­ria, al pro­prio seg­gio ai Lord — che gli spet­tava in linea ere­di­ta­ria — per man­te­nere quello ai Comuni (fece una cam­pa­gna lunga tre anni per­ché la pos­si­bi­lità fosse intro­dotta), divenne una delle figure di spicco della sini­stra del par­tito, un trou­ble­ma­ker impe­ni­tente: temuto dai nemici, mal sop­por­tato dagli amici, ma sem­pre ammi­rato da entrambi per lo spes­sore etico. Anti­te­de­sco ai limiti della ger­ma­no­fo­bia (aveva ser­vito nella Raf durante la Seconda guerra mon­diale), con­tra­rio all’armamento nucleare, pro­te­zio­ni­sta eppure inter­na­zio­na­li­sta, anti Nato, a favore del ritiro dall’Irlanda del Nord, Benn era un cock­tail di eterodossie.

Il suo mezzo secolo di mili­tanza, comin­ciata tutto som­mato da depu­tato mode­rato per la cir­co­scri­zione di Bri­stol negli anni Cin­quanta (rico­prì vari inca­ri­chi mini­ste­riali nei governi labu­ri­sti degli anni Set­tanta) — durante la quale il Labour compì la lunga mar­cia verso il cen­tro sim­bo­leg­giata dall’abbandono della fami­ge­rata «clau­sola 4» sulle nazio­na­liz­za­zioni poi com­piuta da Blair -, lo vide diven­tare unico infles­si­bile custode dell’anima socia­li­sta del par­tito. In qua­lità di gover­na­tore delle poste nel governo Wil­son (che mal lo sop­por­tava e disse che diven­tava imma­turo con l’età) cercò di rimuo­vere la testa della regina almeno dai fran­co­bolli, anche se il collo figu­ra­tivo della sovrana resi­stette meglio di quello vero.
Benn pro­pose infa­ti­ca­bil­mente riforme in senso demo­cra­tico ai mec­ca­ni­smi elet­tivi del par­tito, avvi­ci­nan­dolo alle Unions, lascian­dosi per­fino avvi­ci­nare da frange trotz­ki­ste del par­tito come Mili­tant, che allora pra­ti­ca­vano il cosid­detto «entri­smo». Que­sto le rese un paria.

Dopo la scon­fitta elet­to­rale sotto Foot, nel 1983, da molti con­si­de­rata la più cocente della sto­ria del par­tito, e l’avvento di Neil Kin­nock come lea­der, che lo scon­fisse mala­mente nel 1988, comin­ciò il suo lento sci­vo­lare ai mar­gini, fino al momento del ritiro dal par­la­mento, nel 2001, «per meglio dedi­carmi alla poli­tica». Comin­ciò allora un’intensa atti­vità edi­to­riale (fu un dia­ri­sta osses­sivo) e di figura di rife­ri­mento per la gene­ra­zione dell’attivismo post-Seattle e con­tro l’invasione dell’Iraq (incon­trò Sad­dam Hus­sein due volte.) Ma la meta­mor­fosi da «uomo più peri­co­loso della Gran Bre­ta­gna», come lo definì un tabloid, a inno­cuo «tesoro nazio­nale», ugual­mente amato da amici e nemici, era compiuta.

Resta la pre­scienza dimo­strata negli anni Ottanta sull’evolversi della società e della poli­tica del suo Paese, esem­pli­fi­cata al meglio da que­sta dichia­ra­zione: «Il Regno Unito è solo super­fi­cial­mente gover­nato da depu­tati e dagli elet­tori che li votano. La demo­cra­zia par­la­men­tare è, in verità, poco più che un mezzo per assi­cu­rare un cam­bia­mento perio­dico nel team mana­ge­riale, a cui poi si lascia pre­sie­dere un sistema che resta essen­zial­mente intatto». Alzi la mano la demo­cra­zia libe­rale euro­pea che non vi si rico­no­sce.
Nella solita, tri­ste para­bola degli incen­diari che muo­iono pom­pieri, Benn ha nutrito e difeso con deter­mi­na­zione fino all’ultimo la sua piromania.

(17 marzo 2014)

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