giovedì 20 marzo 2014

Si scrive “stage”, si legge sfruttamento

dinamopress- natascia grbic
«Bene signorina, allora le spiego il lavoro. Lei dovrà coordinare le attività del nostro ufficio stampa, occuparsi di contattare le varie testate e tenere i contatti con le altre organizzazioni che si occupano di attività simile alle nostre. Sono quaranta ore settimanali, chiaramente tendenti ad aumentare, ed è possibile che a volte dovrà lavorare anche nel week end. [..]
Qui si lavora molto, e noi richiediamo molta serietà e flessibilità. Lei però ha un ottimo curriculum, una grande esperienza nel campo dell’informazione e rispetta tutte le qualità che cerchiamo per questa professione. Siamo sicuri che svolgerà un attimo lavoro». Groppo in gola, campane che suonano nella testa, farfalle nello stomaco. Mi sa che ce l’ho fatta. «Purtroppo sa, la nostra azienda ultimamente non naviga in buone acque a livello economico, e per questo posto inizialmente le proponiamo un contratto da stage non retribuito. Però, se le cose migliorano, forse c’è la possibilità che tra qualche mese sarà assunta e pagata». Colpi di kalashnikov suonano vigorosi: morite campane, crepate stupide farfalle! «Mi scusi ma questo è un lavoro, non uno stage. Purtroppo ancora non campo d’aria, non posso permettermi di lavorare quaranta ore a settimana senza guadagnare nulla, come le pago le bollette?». «Eh, lei ha ragione ma sa, con questa crisi…». Ci mancava solo che iniziasse con un “signora mia” e avremmo potuto organizzare una bella festa di luoghi comuni. «La “ringrazio”, ma credo mi convenga di più rimanere a fare la cameriera. Arrivederci».
Non è una barzelletta, e neanche uno solo dei colloqui che un non più tanto giovane si trova a dover affrontare nella vita. Adesso, con la scusa della crisi economica, molte aziende, organizzazioni internazionali, testate giornalistiche, e chi più ne ha più ne metta, hanno scoperto le bellezze del lavoro non pagato. Perché di questo si tratta nella maggior parte dei casi: non di stage formativi, in cui s’impara un mestiere (e anche in quel caso la retribuzione dovrebbe essere garantita), ma di veri e propri lavori in cui si sfrutta la manodopera per ottenere prestazioni di qualità e non gravare sul bilancio dell’impresa. Se poi gli sfortunati vengono “assunti” nel periodo estivo, tanto meglio: i dipendenti “veri” vanno in vacanza, e non bisogna neanche pagare gli straordinari agli altri lavoratori. Una pacchia, cui nessuno vuole rinunciare.
Questo leitmotiv della crisi economica, se da un lato ha sicuramente affossato i piccoli esercizi commerciali e scalfito le grandi aziende, dall’altro è diventata anche la scusa usata da molti per non pagare i propri dipendenti. Chi si trova in una situazione subordinata non solo si trova spesso in una situazione estremamente ricattabile (“guarda che se non mi fai gli straordinari io ci penso tre volte prima di assumerti”), ma entra anche in una sorta di sudditanza psicologica per cui cerca di fare tutto ciò che compiace al proprio datore di lavoro, nella speranza di ottenere, magari, anche solo un piccolo rimborso spese. Non è raro sentire ragazzi di ventisette anni, che ti dicono “no guarda, io sono capitato bene, per la pratica da avvocato mi danno 200 euro al mese, almeno mi compro il panino al bar”. Certo, da lì poi il passo all’insalata è breve.
A ricalibrare un po’ la situazione è intervenuta la ministra Elsa Fornero, che ha varato una legge in cui stabiliva che gli stage lavorativi non potessero essere più gratuiti. Immediata la reazione del ministero dell’Economia che ha subito istituitotrentaquattro stage retribuiti un euro l’ora. Sempre perché i giovani sono il futuro del paese, come tanto amano ripetere politici e politicanti.
È di pochi giorni fa la notizia che il Consiglio dell’Unione Europea ha stilato una raccomandazione riguardante la qualità dei tirocini dove si mostra preoccupazione per il fatto che i ragazzi non vanno all’estero a fare esperienza. Altro cruccio è la qualità degli stage. Grande assente invece, la condanna al vergognoso e dilagante fenomeno dei tirocini (lavori) non retribuiti. L’idea che uno studente o un giovane lavoratore deve formarsi gratuitamente e a costo zero per l’azienda, è una delle condizioni più aberranti che ormai sono considerate un must nel nostro paese. Come ci si può aspettare che uno studente vada all’estero, se non ha neanche i soldi per pagarsi un affitto? In questi casi, o si hanno le spalle coperte da una famiglia benestante, che può permettersi di mantenere il lavoro gratis del figlio, o rimani a fare il cameriere. E ti tieni pure la nomea del “choosy – bamboccione – sfigato”. Così, tanto pe’ ride. Ma forse è ora che tutti, politici e sfruttatori, inizino veramente a piangere lacrime amare.

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