In un interessante e istruttivo articolo del 2007, il professor Michele Ainis osservava sconsolato che eventi successivi all’entrata in vigore della Costituzione e un dibattito equivoco all’interno del Parlamento sulla guerra in Kosovo avevano consentito “un colpo di spugna non soltanto sull’articolo 11, ma inoltre sull’articolo 78 della Costituzione, secondo cui ogni guerra dev’essere preceduta dalla delibera parlamentare”.
(DI FILORETO D’AGOSTINO – Il Fatto Quotidiano)
La preoccupazione dell’autore era rivolta all’uso spregiudicato, e non adeguatamente condannato, di una prassi contraria ai principi costituzionali eppure ampiamente osservata fino a divenire una contro-Costituzione, ispirata, si aggiunge qui, al criterio della mera ricezione della volontà e soprattutto dell’arbitrio dei potenti e, per questo, in aperto e insanabile contrasto con i principi di sovranità popolare, legalità e uguaglianza. Tra le vittime illustri della prassi anticostituzionale va perciò annoverata anche quella disposizione che enuncia il ripudio della guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali.
Quindici anni dopo il saggio di Ainis la situazione è perfino peggiorata, anche se la norma viene ribadita a ogni piè sospinto nei media e nelle dichiarazioni ufficiali come antecedente di rito rispetto ad affermazioni e proposte esattamente contrarie, fino a giungere alla demonizzazione di chi osa manifestare anche solo una minima perplessità sulla congruenza dell’azione politica nell’attuale frangente. Gli studi sulla prima proposizione dell’articolo 11 hanno messo bene in luce che, trattandosi di ripudio e non già di rinuncia, il parametro costituzionale formula “anche una direttiva generale di politica estera… un invito a perseguire attivamente una politica pacifista” (Antonio Cassese). Come tale interpretazione possa coniugarsi con il linguaggio, i toni e taluni contegni dei nostri esponenti governativi e, a cascata, dei media è difficile da giustificare.
In altri Stati, ad esempio la Francia, dove manca una norma come l’articolo 11, e in cui la Costituzione è piuttosto blanda nel legare al Parlamento le decisioni dell’esecutivo in materia militare, l’atteggiamento dell’autorità governativa è molto più attento a evitare inutili incomprensioni e rimostranze per linguaggi e comportamenti non attenti alle regole del galateo diplomatico. Non si tratta di manifestazioni estemporanee, dal momento che sembra essersi persa la tradizione osservata in Italia fin quasi al crollo della prima Repubblica: dare preminenza alla missione di promotore internazionale della pace e della comprensione tra i popoli, in piena sintonia con l’operato della Santa Sede. L’Italia fino al 1990 ha sempre cercato di coltivare ogni occasione per favorire la pace tra Stati e popoli in guerra o ha comunque partecipato a missioni militari Onu per identica finalità. L’invasione dell’Ucraina, segnata da orrori e devastazioni, era forse l’occasione per ritrovare il profondo senso della missione pacificatrice dell’articolo 11, una cultura impregnata di Cristianesimo, una tradizione di valori all’insegna della comprensione e della non violenza. Finora nulla di tutto questo e, per contro, dichiarazioni sbadate o silenzi d’intesa sulle sbandate espressive del presidente Usa Biden.
Sarebbe quantomai opportuno che il nostro governo recuperasse il senso dell’articolo segreto inserito in Per la pace perpetua di Kant: “Le massime dei filosofi sulle condizioni di possibilità della pace pubblica devono essere consultate dagli Stati armati per la guerra”. Il senso è che i problemi della pace impongono alle autorità un dialogo con qualificati soggetti pensanti. Il che vale anche per i governi definiti, con un certo ottimismo, “dei migliori”.
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