In questo tempo di guerra l'Anpi è divenuto il bersaglio grosso delle critiche allo schieramento pacifista. La posta in gioco è anche la memoria della Resistenza e l'attualità politica della lotta al fascismo.
jacobinitalia.it Luca Casarotti
Il 25 aprile 2022 giunge con un sovraccarico di tensione. Nell’opinione pubblica italiana, tra le altre cose, la guerra di aggressione all’Ucraina scatenata da Putin ha riorientato la contesa attorno alla memoria della Resistenza. L’Anpi, si sa, è il bersaglio grosso delle critiche allo schieramento pacifista. La polemica poggia su una lettura sbagliata della sua posizione. In una polemica corretta, sarebbe onere degli accusatori provare che l’Anpi abbia messo in questione la legittimità dell’autodifesa ucraina, o giustificato l’invasione di Putin. Sennonché la prova sarebbe impossibile, dato che l’Anpi dice esattamente l’opposto. Così, da ultimo, il presidente Gianfranco Pagliarulo, parlando a Bari lo scorso 23 aprile: «Tutto è nato dall’invasione russa, moralmente e giuridicamente da condannare e condannata, senza se e senza ma, a cui hanno fatto e stanno facendo seguito uno scempio di umanità e di vita del popolo ucraino e una legittima resistenza armata». Questa invece è la risposta del congresso nazionale dell’associazione al saluto inviato dal Presidente della repubblica. Era il 25 marzo, il messaggio esordiva così: «Gentile Signor Presidente della Repubblica, condividiamo profondamente il suo giudizio sull’ingiustificabile aggressione al popolo ucraino da parte della Federazione russa, che abbiamo condannato poche ore dopo l’invasione».
Quel che di solito non viene colto (oppure viene colto benissimo, et pour cause) è che la critica dell’Anpi concerne il fronte interno della politica italiana, e cioè si appunta sul tema dell’aumento delle spese militari. La questione si può riassumere così: dato che la spesa militare occidentale è già ora molto superiore a quella pur ingentissima della Russia (si vedano i dati commentati da Francesco Vignarca sul Manifesto), qual è l’utilità reale di una rinnovata corsa agli armamenti? E quali soluzioni sono precluse all’orizzonte della praticabilità politica, quando il discorso è per intero occupato dalla prospettiva delle armi? I riferimenti al ruolo della Nato sono da collocare all’interno di quest’argomentazione.
Nel 2006 la Nato indica ai paesi membri di destinare alle spese militari almeno il 2% del prodotto interno lordo (rimando ancora all’articolo di Vignarca per una discussione più dettagliata), ma in Italia l’indicazione si affaccia all’ordine del giorno solo sedici anni più tardi, nel marzo 2022. Inoltre, in un’ottica cronologicamente più lunga, l’Anpi ha sentito la necessità di ribadire che Nato e Federazione russa sono state entrambe attrici dell’instabilità nell’est dell’Europa dopo la caduta del muro di Berlino. Come questa constatazione possa essere interpretata in chiave anti-Ucraina è incomprensibile, dato che un’analisi non diversa (anzi, ancora più critica del ruolo di Stati uniti e Nato in Europa) ha fatto anche Noam Chonsky, di cui è indubbio lo schieramento senza riserve in favore della resistenza ucraina.
Il nucleo duro degli attacchi all’Anpi è però più profondo, e ha come posta in gioco anche la storia e la memoria della Resistenza. La polemica fa leva sul tentativo, non nuovo nello schema, di istituire una contrapposizione tra l’antifascismo odierno e il vero partigianato. «Come può l’Anpi essere pacifista», si dice, «senza rinnegare la lotta armata che dell’Anpi è l’evento costitutivo?» Una dicotomia, dunque: antifascismo inautentico vs autentica resistenza. «Basti guardare alla presidenza dell’associazione», insinuano i critici. Pagliarulo è nato nel ’49, non ha fatto il partigiano, quindi non può rappresentare il sentire dei veri partigiani. In più, questo presidente non partigiano (per la cronaca, è il secondo, dopo Carla Nespolo) ha pure una tara biografica: è stato un dirigente comunista, quindi è un nostalgico della potenza di Mosca, e su questa posizione ha trascinato con sé l’Anpi.
Anche a prenderli sul serio, cioè a sfrondarli dalle diffamazioni, gli argomenti della polemica sono del tutto inconsistenti. Gli ingredienti sono sempre gli stessi, ma il cocktail si può preparare diversamente a seconda della stagione. In tempo di pace, si può dire che l’antifascismo non ha senso d’essere, perché il fascismo è stato sconfitto dalla storia: anzi, il ricordo della violenza partigiana rischia d’immettere il seme del fratricidio nella nazione finalmente pacificata. Meglio allora ricordare la resistenza disarmata. In tempo di guerra, si può dire che l’antifascismo deve rifarsi alla tradizione della resistenza armata, e che non sa riconoscere i veri nuovi fascisti. Relegata all’astrattezza, la disputa sui principi è circolare. Saltando da una parte all’altra della circonferenza, un modo di confinare l’antifascismo nell’inattualità politica si trova sempre.
Peccato che quella agitata in faccia all’Anpi per criticarne lo schieramento pacifista sia una resistenza irreale, ridotta a un comune denominatore, ora individuato nel lottarmatismo. Un’altra rappresentazione oleografica della guerra di Liberazione, pendant di quella esistenziale e molto meno guerreggiata che ha dominato la penultima stagione. A differenza della Resistenza mitica edificata a usi contingenti, ieri criminale e oggi d’improvviso eroica, nella Resistenza reale le partigiane e i partigiani in armi avevano idee diverse sul che fare, com’era del tutto naturale in un fronte composito. Che fare, ad esempio, quando nell’autunno del ’44 gli alleati danno appuntamento alla primavera successiva? Ai vertici del partigianato si fronteggiano in sostanza due orientamenti. Le destre sono più inclini a ridurre la lotta armata, perché temono che il peso militare delle formazioni organizzate dal Partito d’azione e soprattutto dal Partito comunista possa tradursi in peso politico, o peggio ancora in forza rivoluzionaria, dopo la Liberazione dal nazifascismo. La posizione delle sinistre, che prevarrà, è nel senso di rigettare la strategia dell’attesa, perché dare continuità politica e militare alla Resistenza avrebbe significato anche rivendicare una maggiore autonomia dall’egida angloamericana. Claudio Pavone ha proposto lo schema delle tre guerre, e altri autori vi si sono rifatti suggerendo ulteriori integrazioni, esattamente per dare conto dell’irriducibile molteplicità di cause che hanno convissuto nella guerra partigiana: la causa della liberazione nazionale, quella della liberazione dal fascismo saloino, quella della lotta di classe e dell’internazionalismo, quella dell’emancipazione femminile, quella decoloniale…
Non ogni formazione, non ogni partigiano combatteva tutte queste guerre. Non tutti i partigiani combattevano la stessa guerra. Se si tiene presente quest’interpretazione della Resistenza, ormai acquisita alla storiografia, si capisce perché chi ha partecipato alla guerra di Liberazione può avere idee diverse anche sul modo di opporsi all’invasione di Putin; perché il partigiano Carlo Smuraglia può pronunciarsi in modo (in parte) diverso dalla partigiana Mirella Alloisio; e perché l’una e l’altro si riconoscono nell’Anpi, con dispiacere dei detrattori. «Abbiamo impugnato una volta le armi, per non doverle impugnare mai più», hanno detto molte e molti combattenti: è ancora Pavone a parlarne, e non per caso nel capitolo sulla violenza partigiana del Saggio sulla moralità nella Resistenza. Come ogni massima, è chiaro che anche questa non enuncia una verità astorica, valida da sempre e per sempre. Ma nemmeno si può far finta, come invece si sta facendo, che il pacifismo e l’antimilitarismo non siano state idee radicate nel partigianato. Né ci si può inventare che l’Anpi si sia svegliata pacifista il 24 febbraio 2022: Matteo Pucciarelli ha fatto un’istruttiva rassegna di tessere dell’Anpi a tema pacifista, dal 1952 al 1995. Anni in cui, putacaso, a dirigere l’associazione erano tutti e solo partigiani, quelli che i nuovi dirigenti non partigiani starebbero tradendo nello spirito. Ancora, il tentativo di opporre il nuovo antifascismo dell’Anpi al vecchio partigianato va a vuoto. E la ragione è banale. L’ha ricordata Davide Conti, in un intervento come sempre eccellente: è stata la dirigenza partigiana dell’Anpi, nel congresso di Chianciano del 2006, a decidere di aprire i ruoli dirigenziali ai non partigiani, perché l’associazione potesse sopravvivere ai suoi fondatori.
Se c’è un atteggiamento che offende la storia della Resistenza, è quello di chi si arroga il diritto di parlare per i morti in una disputa tra vivi: «Pertini vi avrebbe preso a randellate!», mi ha scritto qualcuno. A dirci cos’avrebbe fatto Pertini non sarà questo spontaneo fiorire di esegeti della domenica, di storici della Resistenza finora in altre faccende affaccendati: è un peccato, perché la professione sembra essere in gran voga. Con nonchalance, il comandante in capo del Battaglione Azov a Mariupol esegue sul Corriere uno dei pezzi più famosi del repertorio neonazi, quello che fa: «la svastica è un antico simbolo che non ha nulla a che fare con il nazismo». E magari «white power!» urlato a braccio teso è un’apprezzamento alle indubbie qualità del vino bianco. C’è da sperare solo di non dover ascoltare, un domani, Dmitry Utkin spiegarci che Wagner è stato un compositore armonicamente innovativo, e per questo il suo gruppo si chiama così. Nessuna dicotomia amico nemico autorizza una deroga tanto smaccata al dovere di verità dell’informazione, quanto quella che ci ha accompagnato al settantasettesimo anniversario della Liberazione. Su queste premesse, nessun dibattito serio sull’uso della forza è possibile.
«I popoli felici non hanno storia», scriveva Queneau. Se la storia è il suo avvilente uso a scopo di propaganda, allora Queneau ha ragione. Intendiamoci: sarebbe sciocco pretendere che della storia non si faccia uso pubblico alcuno. Né sarebbe auspicabile. Al contrario, vale sempre il monito di Bloch: è quando la storiografia si ritira (o quando si fa di tutto perché si ritiri) dal dibattito generalista, che le propagande hanno briglia sciolta. L’abuso politico della storia è una tattica che si fa più evidente nei momenti di crisi. Il meccanismo è semplice: siccome l’adagio vuole che l’historia sia magistra, l’evocazione di questo o quell’evento trascorso, quasi sempre per proporre un’analogia con l’attualità, diviene il fondo legittimante dell’una o dell’altra posizione. Ma se l’evocazione è disinvolta, cioè se difetta la validazione metodologica della storiografia, la profondità prospettica di questo tipo di discorsi è solo illusoria, e il danno è duplice: a esserne compromessa è sia la comprensione del passato, setacciato all’esclusiva ricerca dell’evento mobilitante, sia la comprensione del presente, schiacciato sotto il peso dell’analogia con quell’evento. Obliterate le differenze, oppure premesso che bisogna tenerne conto (ma la premessa è sovente di facciata), passato e presente si rincorrono nel disegno di una ripetizione continua. In questa storia mandata allo sbaraglio per dilettantismo o per dolo, i fatti sono oggettivi e non ammettono interpretazioni: il che è come dire che esiste una e una sola interpretazione possibile, dunque è essa stessa il fatto. «I popoli felici non hanno storia». Facciamo in modo che Queneau abbia torto.
*Luca Casarotti è un giurista. Fa parte del gruppo di lavoro Nicoletta Bourbaki. Scrive di uso politico del diritto penale e di antifascismo. Ha una seconda identità di pianista e critico musicale
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