Ogni qualvolta ci troviamo ad affrontare un grave problema di salute, entriamo nei meandri di un percorso labirintico, là dove diventa difficile trovare una via d’uscita.
Medicus curat natura sanat,
recita l’aforisma, per dire che le conoscenze e le tecnologie di cui
dispone la medicina attuale, non di rado, non sono sufficienti a
riportare il paziente sulla via della guarigione.
Sia
come sia, il tema della salute, anche e soprattutto per le tensioni
generate dalla crisi pandemica, ritorna continuamente al centro del
dibattito pubblico, con il rischio di diventare l’oggetto di una contesa inestricabile tra varie fazioni in lotta, sullo sfondo di un pervasivo processo di privatizzazione del SSN, nato nel 1978 dalla soppressione delle “Casse Mutue” e ispirato ai principi di universalità, equità e uguaglianza.
Tali
principi, con l’ascesa delle forze liberiste e il conseguente cambio
del paradigma economico-sociale, nel corso degli anni Ottanta seguirono
un percorso accidentato e travagliato, al punto che finirono per
sgretolarsi, quando vennero emanati i primi provvedimenti sulle
privatizzazioni delle strutture sanitarie pubbliche.
In realtà, i diritti sociali, tra cui quello alla salute, garantiti e riconosciuti dalla nostra Costituzione, avevano già iniziato a scricchiolare a metà degli anni Settanta. In quel periodo, infatti, si era aperta la breccia attraverso cui si diffondeva l’idea che le prestazioni private a pagamento erano superiori a quelle gratuite.
Forse,
coloro che hanno una certa età dovrebbero ricordare le prese in giro
degli oculisti o dei dentisti delle mutue e l’esaltazione dei pregi di
quelli privati.
Gli
insidiosi e piccoli rivoli che solcavano il terreno, ben presto,
finirono per ingrossarsi, ricevendo acqua a bizzeffe dalle continue
inondazioni che alimentavano l’erosione delle precedenti conquiste dello
Stato sociale.
Nei
primi anni Novanta del secolo scorso, i sostenitori delle politiche
sociali a vantaggio dei meno abbienti, comprese le nuove generazioni che
ne condividevano le scelte, furono neutralizzati dalla dottrina mistica
dei conti pubblici in ordine, dottrina che ha ignorato il fatto che gli
squilibri dei Bilanci pubblici erano generati dal prendere a prestito
il denaro dai privati sul mercato, dietro il pagamento di interessi
crescenti.
In tali circostanze, le USL furono trasformate in ASL e si diffuse la credenza che gli ospedali potessero funzionare come delle aziende private, improntate ai criteri di efficienza, efficacia e al calcolo di convenienza economica.
Tutto
ciò che era gestione pubblica divenne sinonimo di spreco e malaffare,
mentre i funzionari pubblici ottennero la patente di dirigenti d’azienda
e poterono finalmente trattare i pazienti come clienti.
Al
tempo in cui managers aziendali diventarono l’icona di condottieri
dell’economia, gli speculatori finanziari celebravano «orge cosmopolite»
e i proletari credevano di poter moltiplicare i propri soldi, nelle
strutture pubbliche di erogazione dei livelli essenziali di assistenza
furono introdotte misure legislative che aprivano nuovi varchi ai
fautori della mercificazione della salute.
Dapprima,
si è consentito ai medici delle strutture pubbliche di poter lavorare
anche in quelle private, successivamente si è data l’opportunità agli
stessi di effettuare prestazioni sanitarie in regime di intramoenia;
vale a dire che il professionista, nel mettere il suo tempo e il suo
sapere a disposizione degli utenti (clienti), fuori dal suo regolare
orario di lavoro, usa gli strumenti, i locali e il personale di servizio
non medico, ottiene un corrispettivo e paga una percentuale del 6,5 %
sul suo fatturato alla struttura ambulatoriale.
Su
quest’ultimo punto, l’intervento del legislatore la dice lunga sulla
sua buona fede, in quanto invia un messaggio esplicito: basta pagare e
lo stesso tipo di prestazione, che con la prescrizione del medico di
base richiede mesi, sarà effettuata in pochissimi giorni.
D’altronde, se ci rivolgiamo a qualsiasi studio medico privato, le richieste vengono evase in tempi rapidi. Nella maggior parte dei casi, quei medici che vediamo operare in equipe in cui si scambiano informazioni nell’ottica del cooperative learning, in quanto convinti di essere troppo ignoranti quando agiscono isolatamente, non appena scatta l’ora X di fine turno nell’azienda ospedaliera pubblica dove lavorano, quegli stessi medici li vediamo correre a gestire il pacchetto clienti nella propria bottega.
Ed
è proprio in queste cellette singole e slegate tra di loro che si
coltivano gli interessi privati e si preparano gli accessi alle
strutture pubbliche o accreditate per i ricoveri e gli interventi.
L’affermarsi
di quest’ultima relazione produttiva ha partorito, a sua volta, il
bisogno dei pazienti – complici anche il clima di sfiducia e la
confusione che innervano le strutture sanitarie – di essere operati da
un chirurgo competente e affidabile, di un ospedale accreditato, dietro
il pagamento di un corrispettivo, saltando nel concreto le lunghe liste
di attesa delle persone con una simile patologia.
Ergo: per imboccare la corsia preferenziale, è sufficiente comprare il servizio di cura!
Profitti e salute
Fin qui non siamo ancora entrati nel cuore del problema delle privatizzazioni.
C’è
un altro aspetto dei processi di privatizzazione di cui bisogna tener
conto e per il quale vale la pena interrogarsi: è giusto che le
strutture private realizzino profitti sulla salute dei cittadini,
ottenendo, tramite gli Enti regionali, i rimborsi delle prestazioni
effettuate da parte del SSN,?
La
questione del profitto va di pari passo o è implicitamente collegata ai
criteri di efficienza aziendali, i quali si fondano sulla riduzione dei
costi ai minimi termini e sull’incremento dei ricavi, in modo da
ottenere un congruo ROI.
Una tale pratica esercita un peso notevole sull’operato delle strutture pubbliche, le quali, pur essendo soggette al vincolo dei conti in pareggio, vengono rimborsate in base al numero delle prestazioni effettuate. Di conseguenza anch’esse tenderanno a iper-produrre, con il forte rischio di intraprendere attività inutili o inopportune.
Da
questo punto di vista, per meglio esplicitare la situazione paradossale
in cui si vengono a trovare gli operatori sanitari, potremmo
condividere il pensiero di S. Canitano, quando afferma che se i Vigili
del fuoco venissero pagati a prestazione, potrebbero andare in giro ad
appiccare il fuoco. (1)
L’ingresso e l’espansione degli investitori privati nella medicina ha legittimato la promozione della salute come una merce, che alla pari di tutte le altre merci è diventata oggetto del profitto.
Per un altro verso, tale apertura ha consentito agli imprenditori privati di godere di un mercato garantito,
poiché, come dice Gino Strada, possiamo scegliere di andare o non
andare a mangiare al ristorante, ma non possiamo decidere se ammalarci
oppure no. Il che significa che con molta probabilità vengono messe in
atto imponenti campagne pubblicitarie per la promozione della malattia.
In un simile contesto, il confine tra la promozione della salute e della malattia diventa molto labile.
Su questa scia, lo Stato è diventato «il
primo cliente della sanità privata: il SSN acquista infatti il 60 per
cento delle sue prestazioni, per un valore di 41 miliardi di euro». (2)
Nel
sistema sanitario è stato individuato un chiaro sbilanciamento a favore
dei privati e a sostegno di questa tesi ci sono di aiuto i dati
elaborati da M.E. Sartor a proposito della sanità lombarda.
I
posti letto negli ospedali pubblici della Lombardia, nell’arco
temporale che va dal 1995 al 2017, sono stati più che dimezzati, sono
calati da 45.000 a circa 20.000 (3). Eppure, in questo trend, Sartor ha
rilevato una controtendenza che esplica lo sbilanciamento del sistema
sanitario a favore dei privati. Infatti, questi ultimi, nello stesso
lasso di tempo, hanno incrementato la capienza ricettiva di 3.000 posti
(4).
Il discorso diventa ancora più complesso se teniamo conto della rilevanza e della diffusione che assumono i farmaci nella nostra vita quotidiana. Ci sono farmaci che, per via dei brevetti e delle logorroiche e capillari campagne promozionali, costano al SSN cifre da capogiro, con l’aggravante che spesso si rivelano inefficaci e gravidi di effetti collaterali.
Eppure, una volta che l’AIFA autorizza la casa farmaceutica alla commercializzazione di un principio attivo e il SSN l’acquista, è difficile fermare la “macchina” e riconoscere gli effetti negativi del farmaco in circolazione.
I limiti dello schema dicotomico pubblico-privato
Quando
ci lamentiamo o proviamo rancore nei confronti del nostro SSN e lo
accusiamo di non essere in grado di far fronte in modo celere alle
nostre richieste di assistenza sanitaria, di non essere capace di
eliminare le piccolissime percentuali di errori durante gli interventi
chirurgici, di non aver salvato la vita a un nascituro, prima, durante o
subito dopo il parto e così via, dimentichiamo, per esempio, che nel
1863 su 1.000 bambini nati vivi, 232 morivano durante il primo anno di
vita.
Ma questa riflessione non ci impedisce di sottolineare che nel «decennio
2010-2019 tra tagli e definanziamenti al SSN sono stati sottratti circa
€ 37 miliardi e il fabbisogno sanitario nazionale (FSN) è aumentato di
soli € 8,8 miliardi». (5)
Tuttavia,
le strutture del SSN, sia la componente pubblica che quella privata,
nel prendere in carico i pazienti, per quanto riguarda la storia clinica
degli assistiti, non riescono a condividere le informazioni mediche
elaborate durante il percorso di cura.
A
tal proposito, le critiche avanzate da L. Foresti sono puntuali, in
quanto è assurdo che le aziende sanitarie dislocate sul territorio non
comunichino tra di loro: non c’è un approccio collettivo nella gestione
dei dati relativi alle relazioni di cura e assistenza, mentre le
informazioni rilevanti vengono date in mano al singolo paziente, che va
in giro con la sua sconnessa e disordinata cartella.
Così
come è opportuno evidenziare che l’individuazione del valore che una
determinata terapia farmacologica apporta alla società e ai singoli
pazienti è una materia molto complessa e delicata per consegnarla in
mano alle lobby delle case farmaceutiche, le quali tendono a far
lievitare i prezzi dei principi attivi, in base alle loro capacità di
penetrazione del mercato e sulla pelle di coloro che esprimono urgenti
bisogni di essere curati.
Tutti
i tentativi di trasformare i prodotti dell’assistenza sanitaria in
prodotti standard, da posizionare, scambiare e commercializzare sul
mercato, si scontrano con la complessità che li caratterizza e che si
traduce nei difficili rapporti di equivalenza tra valori e prezzi.
Pertanto, può succedere che una Stroke Unit ben organizzata, indispensabile per affrontare tempestivamente le problematiche inerenti a chi è colpito da ictus, abbia dei costi elevatissimi, ma inferiori al suo valore d’uso, se teniamo conto dei costi sociali legati all’invalidità che questa determinata patologia causa, quando viene trattata in ritardo.
Al contrario, la RM lombare, nota per «lo scandalo delle lunghe liste di attesa, è un esame diagnostico inutile e inappropriato», (6) il cui valore d’uso è inferiore al costo, esprime un valore d’uso negativo.
Ci
troviamo di fronte, dunque, a situazioni complesse che mettono in
rilievo non solo l’avanzamento della sanità privata a danno di quella
pubblica, ma anche le criticità di quest’ultima forma organizzativa.
Del
resto, la crisi pandemica, che ci sta dando filo da torcere, ha messo
in evidenza e accentuato lo scatafascio precedente e ci ha imposto di
ricorrere al linguaggio militare, tant’è vero che se si usa per diversi
mesi l’espressione “coprifuoco”, non c’è da meravigliarsi che il Governo nomini come Commissario straordinario per l’emergenza Covid-19 il generale Figliuolo.
Ma
proprio per questo motivo e per tutte le difficoltà che sorgono nella
gestione di contesti complicati e complessi, sarebbe curioso chiedersi:
Qual è la differenza principale tra un generale e un primario di un ospedale?
A
dire il vero, ci sono tante differenze e tante somiglianze, ma vorrei
soffermarmi su un determinato punto, che, molto spesso, è stato
tralasciato o completamente ignorato.
Entrambi coordinano le risorse di cui dispongono, per raggiungere obiettivi diversi, entrambi guidano una “macchina”, che una volta messa in moto, difficilmente può essere fermata. Ma è proprio questa la differenza dirimente: nel caso del generale, se la “macchina” è stata preparata per bombardare l’avamposto del nemico, la paura che si può provare non ferma l’azione, anzi funziona da stimolo ad agire, per il solo fatto che tutto il lavoro preparatorio non può essere sprecato.
Al
contrario, nella sanità, la paura, se non si è sicuri di portare a
termine un determinato intervento, può bloccare l’azione e obbligare il
primario dell’ospedale a ripensarci, a ridefinire il modo di procedere.
Il generale, sia nell’azione di difesa che di attacco, ha il compito di neutralizzare o annientare il nemico, mentre il chirurgo ha il compito di curare le ferite di quelli che cadono in battaglia.
Il chirurgo può fermare la “macchina”, in quanto non tratta il soggetto che ha di fronte come un nemico.
—————
(1) Stefano Canitano, Sanità e profitto. Perché ha ragione Gino Strada, http://www.quotidianosanita.it, 06/05 2013.
(2) Laura Melissari, I privati hanno un ruolo sempre maggiore nella sanità pubblica, https://www.internazionale.it, 09/12/2020
(3)
L’elaborazione di questi dati sintetici, nella maggior parte dei casi,
non tiene conto dell’aumento della capacità produttiva, infatti grazie
all’utilizzo di macchinari sempre più precisi, al perfezionamento delle
tecniche nelle sale operatorie e all’acquisizione di conoscenze
specifiche sulle pratiche terapeutiche, in alcuni reparti i ricoveri
sono giornalieri. Si pensi all’intervento di cataratta che negli anni
ottanta del secolo scorso richiedeva circa tre ore e un ricovero di due
settimane, ai giorni nostri viene eseguito in venti minuti e il paziente
è dimesso dopo poche ore.
(4) M. E. Sartor, La nebbia sulla sanità lombarda, https://serenoregis.org, 09/12/20219; Webinar del 1616/11/20, www.youtube.com
(5) Il definanziamento 2010-2019 del Servizio Sanitario Nazionale, Osservatorio GIMBE n. 7/2019, www.gimbe.org
(6) Stefano Canitano, Ivi.
* da Coku
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