Due giorni fa usciva una lunga, complessa e articolata intervista di Barbara Balzerani, rilasciata al Grido del Popolo
(testata online che evoca, nel titolo, il settimanale politico
italiano, di orientamento socialista, attivo dalla fine dell’Ottocento
alla seconda guerra mondiale) a firma di Gordan Stosevic.
Un’intervista
che potremmo definire, senza dubbio, un compendio dei temi e delle
riflessioni più rilevanti, che attraversano i sette libri scritti fin
qui dalla ex militante delle BR.
Un’intervista
a trame concentriche, in cui si intrecciano e si annodano le maglie
larghe della Memoria e della Storia. Si cuciono insieme i fili sottili e
sfrangiati delle storie collettive, tessute dalle inesorabili Parche
dei vinti.
Un’intervista,
nel corso della quale si ricostruiscono paesaggi metropolitani, sulle
cui strade principali agirono soggetti rivoluzionari che, ancor prima
del cielo, strinsero d’assedio le strutture del potere vigente.
Si ascolta la parola degli esclusi, liberata dalle sbarre, reali e simboliche, apposte dalla democrazia dei padroni ai corpi/glossa di chi ha osato sfidarne il dominio.
Si
ascolta l’eco delle voci di donne guerrigliere, portatrici di saperi,
di forza e di violenza di classe e di genere, contro un patriarcato che
le vorrebbe deboli e difendibili, nel nome della loro stessa resa alle
regole del gioco, invariabilmente maschile.
Ma
soprattutto, in quest’ intervista, si riscrive, sulla bianca pergamena
del Tempo, la verità di una Storia che si vorrebbe annullata,
mistificata dalla potente arma della sofisticazione propagandistica.
La
verità sul conflitto di classe che, per quasi un ventennio, ha
attraversato l’Italia. La verità sulla Lotta Armata comunista e sulle
Brigate Rosse che, di quella lotta, furono l’avanguardia più avanzata.
Ancor
più specificamente, quella della Balzerani è un’intervista
dall’evidente spessore politico. Barbara parla inequivocabilmente da ex
dirigente delle BR. Ne assume – come hanno sempre fatto tutti quei
compagni che non si sono genuflessi, nella penombra di una sacrestia, di
fronte alla patta del Potere per una viscida assoluzione –
responsabilità, azioni, successi parziali e sconfitte definitive.
Ci
aiuta a ricollocare l’esperienza brigatista nella cornice storica,
sociale e politica degli anni ’70. Come all’interno del paradigma
rivoluzionario novecentesco.
Rivendica,
Barbara Balzerani, il ruolo fondamentale delle BR nella lotta del nuovo
proletariato che si andava affermando in quegli anni, dentro e fuori la
fabbrica, e della soggettività politica che si andava, con esso,
profilando.
Ma soprattutto, smentisce qualunque ipotesi di fuga in avanti soggettivistica, che pure si sente enunciare da molti compagni.
Compagni
che, evidentemente, o conoscono poco o preferiscono strumentalmente
criticare e denigrare quella storia di lotta armata. Senza comprenderne
ragioni e valenze, all’interno del processo rivoluzionario in atto negli
anni ’70.
Una buona occasione, inoltre – ci sia consentito sottolinearlo – per dismettere il luogo comune, purtroppo diffusissimo, per cui le BR sarebbero le principali responsabili della crisi del movimento operaio e di classe, sopraggiunta alla fine degli anni ’70 e all’inizio degli ’80.
Movimento che muore – come d’altra parte chiarisce la stessa Balzerani – per cause diverse, indipendenti dalle BR. Le quali, al contrario, lo trainano, nel periodo di crisi, fin dove possibile, cercando un’uscita che, poi, né le BR né nessun altro ha trovato. Neanche tentando di abbellire, oggi, il proprio pezzettino di storia di allora!
Una storia dunque, quella delle Brigate Rosse, che, come dice Barbara:
«È
parte integrante di quello scontro essendo nate in quelle fabbriche, in
quei quartieri, in quelle piazze […] la scelta della lotta armata non
era stata una fuga in avanti soggettivistica, ma una teoria e una prassi
politico-militare necessaria a dare prospettiva strategica al corpo a
corpo che quel movimento aveva innescato col potere padronale e statale e
portato avanti durante quella lunga stagione di lotte. Le BR non
avevano fondato la loro proposta politica su una prospettiva endemica di
azioni militari, su una versione di sindacalismo armato o di
giustizialismo.
Hanno
condiviso le pratiche del soggetto rivoluzionario di riferimento e si
sono armate di un’analisi concreta della ristrutturazione degli stati
anticipando l’analisi della globalizzazione liberista (lo stato
imperialista delle multinazionali) come riorganizzazione produttiva e di
controllo sociale per il superamento delle crisi del capitale che
presupponeva, oltre ai dispositivi economico-finanziari, la messa fuori
gioco del conflitto di classe.
E
così è andata. Dalla sconfitta alla Fiat in poi è stato un susseguirsi
di battaglie perse e non si trattava di un passaggio di fase sfavorevole
ma, soprattutto col cambiamento del contesto internazionale, della
messa in causa del paradigma rivoluzionario del ‘900. Guerriglie
comuniste comprese. Da questa consapevolezza è scaturita la presa d’atto
dell’avvenuto esaurirsi delle condizioni che avevano dato origine alla
scelta delle armi e dichiarammo conclusa la nostra militanza».
E
proprio nell’intelligente capacità di fare autocritica, non solo
rispetto all’esperienza delle Brigate Rosse – importante ma pur sempre
circoscritta se paragonata al ben più grande alveo della storia del
comunismo novecentesco – ma in merito all’intero paradigma
rivoluzionario che, nel corso del secolo breve, ha portato ad imporsi,
per la prima volta sulla ribalta della Storia, le istanze delle classi
popolari – per poi venire, nella maggior parte dei casi, sconfitto o
fortemente ridimensionato – in quella capacità autocritica, dicevamo,
risiede il passaggio di maggior interesse dell’intervista.
Perché
è qui che Balzerani, giungendo a criticare il concetto di tempo lineare
– come fa, d’altronde, nei suoi libri – e le sue implicazioni
progressive, quasi meccanicistiche, e mettendo in discussione,
conseguentemente, addirittura uno dei pilastri teorici della dottrina
marxiana, come lo sviluppo delle forze produttive,
ci parla della possibilità di ricostruire una teoria e una prassi
rivoluzionarie nel presente, tenendo conto degli errori del passato e
rivisitando, criticamente, anche il nostro bagaglio culturale. Senza
timori reverenziali per eventuali accuse di eresia.
Leggiamo:
«La teoria dello sviluppo delle forze produttive come fondamento
strutturale del socialismo ha finito per assimilare al modello
capitalistico il modo di produzione dei paesi usciti vittoriosi dallo
scontro con l’imperialismo. Senza nulla togliere all’importanza delle
rotture rivoluzionarie che hanno consentito al proletariato mondiale di
essere protagonista di cambiamento e di governi rivoluzionari, mi sembra
oggi necessario fare i conti con la nostra storia.
Più
che dalla controffensiva del potere siamo stati sconfitti dalla
debolezza del nostro impianto teorico e delle sue interpretazioni. Ecco
perché è necessario ripercorrere una storia delle classi subalterne,
perché aver pensato che tutta la ricchezza e la tecnica accumulate dal
capitalismo – che trae la sua forza dallo sfruttamento di mano d’opera e
risorse – potessero fornire le condizioni per un sistema basato sul
benessere sociale, ha determinato la subalternità all’unico modello
vigente.
Il
taylorismo del modello Fiat, col corollario della subordinazione del
lavoro manuale, è stato ampiamente adottato nella fabbrica sovietica e
la pianificazione dell’economia non ha significato la pretesa
superiorità del socialismo essendo rimasti inamovibili il partito e lo
Stato a scapito della centralità dei soviet e delle strutture politiche
di base.
Quel
processo rivoluzionario è stato esemplare per rintracciare
l’allontanamento dalla possibilità della transizione al comunismo,
complici l’idea della neutralità della tecnica capitalistica e dello
sviluppo lineare del progresso».
Si.può
essere, dunque, più o meno d’accordo con lei, ma bisogna riconoscere
che Barbara Balzerani ci offre degli importanti ed ineludibili spunti di
riflessione. Sul presente e sul futuro.
Ancor
prima che celebrare, in chiave mitografica, la Balzerani quale
guerrigliera delle BR, o plaudire entusiasti a quella gloriosa storia – i
miti rischiano la museificazione mortifera – dovremmo dunque
ringraziare Barbara per questo sguardo organico e dialettico sulla
Storia, la Politica, il Tempo e le sue possibili fratture
rivoluzionarie.
Un’autrice e una combattente che vuole condividere un sapere, ponendosi e ponendo domande senza la presunzione di dare risposte assolute.
Con la ferma intenzione di farne prassi di lotta per un mondo senza classi e senza stato. Oggi!
Buona lettura.
*****
Barbara
Balzerani (1949), nata nella città-fabbrica di Colleferro da una
famiglia operaia, arriva a Roma nel 1968, studia filosofia e partecipa
al movimento studentesco. Milita in Potere Operaio fino al suo scioglimento, nel 1973.
Poi, nel 1975, la scelta della lotta armata nella sua maggiore organizzazione, le Brigate Rosse. Partecipa
alla formazione della colonna romana di cui diviene dirigente. Nel 1978
partecipa al rapimento del presidente della Democrazia cristiana Aldo
Moro. Nell’anno successivo entrerà a far parte dell’esecutivo nazionale
delle BR.
Circa
dieci anni di clandestinità e la gestione del periodo più difficile
della storia brigatista, dal 1981, quello della crisi con la sua coda di
scissioni, delazioni e dissociazione che attraversano l’organizzazione.
Nello stesso anno, le BR-PCC di cui è dirigente organizzano il
rapimento del generale della Nato James Lee Dozier.
L’arresto
nel giugno del 1985 e diverse condanne all’ergastolo, trasformate, in
seguito all’estensione della legge Gozzini a tutti i detenuti, in 26
anni di carcere, che per i prigionieri politici italiani è stato carcere
speciale. Dopo aver dichiarato, nel 1988, insieme ad altri dirigenti
BR, la fine dell’esperienza brigatista, sarà tra i promotori della
“battaglia di libertà”, con la proposta di soluzione politica per
chiudere il conflitto degli anni Settanta e risolvere il problema dei
prigionieri politici attraverso l’amnistia o l’indulto, una proposta
sulla quale si discusse molto tra la fine degli anni 80 e gli anni 90,
ma che non ebbe esito.
Infine la scrittura: il suo primo libro, Compagna Luna, è pubblicato nel 1998, quando è ancora in carcere. Ne seguiranno altri 5: La sirena delle cinque (2003), Perché io, perché non tu (2009), Cronaca di un’attesa (2011), Lascia che il mare entri (2014), e L’ho sempre saputo (2017). Il settimo libro, Lettera a mio padre, uscirà nel prossimo settembre, tutti editi da DeriveApprodi.
Per
iniziare questa intervista, compagna Barbara, chiedo se per lei sia
stata una scelta corretta quella di abbandonare la lotta armata a favore
di una riflessione critica come risultato successivo all’abbandono
della lotta armata e dell’esperienza militare?
Per
capire bisogna fare qualche passo indietro e risalire al contesto in
cui maturò la scelta della lotta armata. All’inizio degli anni ’70 il
conflitto di classe in Italia aveva raggiunto un livello di maturazione
tale da configurarsi come uno scontro di potere. Non maggioritario ma
tale da diventare l’impedimento principale allo spensierato procedere
dei piani padronali anticrisi. D’altra parte in nessun processo rivoluzionario è valso il principio del numero legale consentito.
Tutto
era iniziato un decennio prima con le lotte degli operai delle
fabbriche del nord. La crescita esponenziale della manifattura aveva
richiesto una forte emigrazione di mano d’opera dalle regioni a
tradizione contadina e nelle città industrializzate arrivò una gran
massa di giovani operai senza mestiere, senza tessere, senza la
familiarità con i patteggiamenti sindacali.
L’impatto
fu durissimo e nulla facilitò la vita a quell’esercito di nuovi
arrivati. L’accoglienza spesso impressa sui cartelli “Non si affitta ai
meridionali” o “In questo bar non si servono i terroni”. Ritmi
disumanizzanti, salari da fame, dormitori di fortuna, emarginazione
sociale.
Tutte
condizioni che fecero sì che, a partire dalle giornate torinesi di
luglio ’62 a piazza Statuto a Torino, fu questa figura a inaugurare la
lunga stagione dell’autonomia operaia che arginò l’egemonia del Pci sui
movimenti e contrastò la gestione repressiva dei governi democristiani
alleati con la destra.
Iniziò
così il lungo ’68 italiano consolidato dall’alleanza con i figli delle
famiglie operaie che avevano invaso le scuole superiori e le università e
con i proletari che portavano avanti le lotte nei quartieri popolari.
Spesso le diverse figure si sovrapponevano, studenti-lavoratori, operai
occupanti di case, studenti riduttori di bollette, disoccupati e precari
all’università a ricomporre saperi. E come in ogni stagione
rivoluzionaria, una diffusa illegalità rivendicata e praticata.
Solo
chi ha vissuto la cappa restauratrice degli anni ’50 può capire
l’esplosione di energia trasformatrice che quelle tute blu aveva
innescato. Volevamo tutto e sembrava che potevamo averlo. Iniziò così
una ricca stagione di conquiste che cambiarono radicalmente le dinamiche
politiche, sociali e culturali tra le classi, con l’egualitarismo,
l’aumento dei salari, la diminuzione dello sfruttamento, le garanzie
sociali, il protagonismo di un nuovo soggetto antagonista.
Le
lotte divennero sempre meno spontanee e più incisive, si formarono
avanguardie e strutture organizzate. Dinamica che determinò l’attenzione
e salutari fratture tra gli intellettuali di matrice marxista.
In
virtù di tale sommovimento, la forza dell’opposizione di classe
rallentò di un decennio la ristrutturazione della produzione e
l’attuazione delle politiche neoliberiste provenienti da oltre oceano.
Quelle elaborate dagli economisti della scuola di Chicago, imposte dagli
organismi finanziari internazionali e inaugurate col sangue del colpo
di stato in Cile e poi quello in Argentina.
Il
Pci, il più forte d’occidente, e il sindacato comunista, che
intendevano rifarsi una verginità democratica sempre più lontana da
Mosca, si posero fin da subito contro qualsiasi espressione di
antagonismo alla sua sinistra, con ogni mezzo, fino ad affiancare
polizia e magistratura, fino alla delazione.
Si
candidavano a forza di governo assumendosi il compito di controllo e
contenimento delle lotte, consapevoli di quanto innervate fossero nelle
classi subalterne le posizioni più radicali che, dalle prime espressioni
antagoniste spontanee si andavano organizzando attorno a una teoria
pratica rivoluzionaria.
A
completare il quadro e non da ultimo, va considerato il contesto
internazionale, animato da guerre di liberazione, di decolonizzazione,
di conquiste del potere e guerriglie comuniste. Il Vietnam vinceva la
guerra contro il più potente paese imperialista. Come non pensare di
potercela fare anche in Italia, “l’anello debole della catena
imperialista”?
Il
potere non stette a guardare e usò ogni strumento per bloccarci, dalle
bombe, alle galere, ai licenziamenti politici. Finché il coagulo di
condizioni favorevoli mutò fino a cambiare di segno negli anni ’80. I
governi della Thatcher nel Regno Unito e di Reagan negli Stati Uniti ne
sono l’esplicitazione più chiara: il conflitto andava definitivamente
bandito, fin nella sua legittimità di essere concepito, con ogni mezzo a
disposizione.
E
ancora una volta le sirene della propaganda borghese fecero la loro
parte, affiancando la repressione questurina degli uomini in divisa e
non. Negli anni ’80 si orchestrò una campagna propagandistica del potere
con un dispiegamento di forze mediatiche senza precedenti.
Dall’effimero,
alla criminalizzazione della politica militante, alla “fine della
storia” e alla celebrazione del “migliore dei mondi possibili”. Il
neoliberismo globale celebrava i suoi fasti e la sua superiorità
indiscussa sul blocco dei paesi socialisti sempre più in crisi. Che non
fosse proprio così non cambia le cose.
Le
BR hanno fatto parte integrante di quello scontro essendo nate in
quelle fabbriche, in quei quartieri, in quelle piazze e la scelta della
lotta armata non era stata una fuga in avanti soggettivistica ma una
teoria e una prassi politico-militare necessaria a dare prospettiva
strategica al corpo a corpo che quel movimento aveva innescato col
potere padronale e statale e portato avanti durante quella lunga
stagione di lotte.
Le
BR non avevano fondato la loro proposta politica su una prospettiva
endemica di azioni militari, su una versione di sindacalismo armato o di
giustizialismo. Hanno condiviso le pratiche del soggetto rivoluzionario
di riferimento e si sono armate di un’analisi concreta della
ristrutturazione degli Stati anticipando l’analisi della globalizzazione
liberista (lo stato imperialista delle multinazionali) come
riorganizzazione produttiva e di controllo sociale per il superamento
delle crisi del capitale che presupponeva, oltre ai dispositivi
economico-finanziari, la messa fuori gioco del conflitto di classe.
E
così è andata. Dalla sconfitta alla Fiat in poi è stato un susseguirsi
di battaglie perse e non si trattava di un passaggio di fase sfavorevole
ma, soprattutto col cambiamento del contesto internazionale, della
messa in causa del paradigma rivoluzionario del ‘900. Guerriglie
comuniste comprese.
Da
questa consapevolezza è scaturita la presa d’atto dell’avvenuto
esaurirsi delle condizioni che avevano dato origine alla scelta delle
armi e dichiarammo conclusa la nostra militanza. Lo abbiamo fatto dopo
la scadenza dei termini della legge sulla dissociazione perché
intendevamo coinvolgere tutte le forze interessate a una “Battaglia di
libertà” per la liberazione degli anni ’70 dalle ricostruzioni che ne
avevano falsato la narrazione e dei prigionieri della lotta armata senza
condizioni.
Pensavamo
a un atto politico basato su un criterio oggettivo, non subordinato ad
abiure né a sconfessioni del passato. Il nodo della prigionia politica
non era stato risolto con le leggi premiali. Rimanevano le torture, le
esecuzioni sommarie, le carceri speciali, centinaia di compagni con
secoli di galera da scontare, altrettanti costretti alla latitanza o
all’esilio, tanti altri sottoposti a misure restrittive e con un’ipoteca
di carcerazione futura.
Questo
a fare da intralcio alla rappresentazione di una società allietata da
nani e ballerine, pacificata e prospera che si era liberata di 4
fanatici estremisti senza invalidare la sua natura democratica. Che era
riuscita ad avere il riconoscimento del valore del suo modello sociale
persino da parte di tanti che l’avevano combattuta.
Nella
sostanza, da parte nostra si trattava di una discontinuità che imponeva
una profonda riflessione critica, politica, teorica per superare le
sconfitte, la crisi di identità e di progetto. Di oltrepassare una fase
impedendo che del significato delle vicende politiche e sociali degli
anni Settanta non rimanesse traccia. Per un rinnovamento dell’agire
politico e un nuovo protagonismo anticapitalistico non omologato
all’esistente imposto dall’offensiva reazionaria degli anni Ottanta.
Questo
non per reducismo ma perché la difesa della memoria di quel conflitto
era ed è uno dei terreni di guerra che il potere ha scatenato contro
l’idea stessa di insubordinazione, memore di aver dovuto subire la
dimostrazione della sua vulnerabilità in quei reparti, in quelle piazze,
in quelle azioni di lotta armata.
Nonostante
quella per la libertà sia stata un’altra battaglia persa credo che non
ci si possa esimere da questo compito. Lo dimostra questo triste
presente perché chi ha vinto non ha la ragione dalla sua e,
paradossalmente, lo sta dimostrando oggi con maggior chiarezza.
La
cessazione della nostra militanza nelle Brigate Rosse non è stata un
atto consumato dentro segrete stanze per stanchezza o disillusione, ma
una presa di responsabilità alla luce delle nostre scelte passate.
All’epoca abbiamo pensato che ci fosse lo spazio per contribuire alla
restituzione della storia di un conflitto di classe non certo secondario
nella vita politica di questo paese.
Ricostruirne
il contesto prima di tutto, superando le strettoie dei giudizi a priori
e delle prese di distanze come condizione per poter liberare la parola
dei prigionieri politici. Potevamo prendere atto di una sconfitta che
non era solo nostra ma di un progetto rivoluzionario incardinato su un
soggetto che aveva, con le sue lotte, scompaginato per un ventennio
l’ordine sociale a partire dalle grandi fabbriche.
La
sconfitta di quel soggetto politico è stata anche la nostra, in un
quadro internazionale mutato e non in modo favorevole. E’ un lavoro di
riflessione che continua, in un quadro di libertà di parola niente
affatto scontato.
Nella
sua recensione del suo libro “Compagna luna”, Alessio Spina afferma,
che raramente i rivoluzionari descrivono in modo così intimo, dal
profondo della propria anima, in forma di monologo, i propri ideali e
istinti. Allo stesso tempo, chi cerca date o nomi in questo libro
rimarrà deluso in quanto non ce ne sono. Perché il tempo del ricordo, il
flusso di consapevolezza di chi eri e di chi sei ora, non può avere
rigide strutture cronologiche. Aggiunge che ai lettori di Proust piacerà
questo libro più degli storici e degli avvocati. È davvero così?
La
strada che ho cercato per raccontare è stata quella di offrire la mia
esperienza personale a chi potesse essere interessato a farsi domande
più che avere già tutte le risposte. Soprattutto, nelle dominanti
menzogne diventate senso comune, non mi interessava fare una disamina su
fatti, cause, effetti, i come e i perché, né cercare giustificazioni di
fronte all’accusa imperdonabile di aver messo a nudo un re
detronizzato.
In
tutta evidenza la condizione di “perdenti” comporta condizionamenti che
deformano la parola fino a svuotarla. Io non cercavo un confronto con
chi aveva già proclamato sentenze inappellabili. Né assoluzione postuma.
Volevo trovare comunicazione, persino consolazione nella condivisione
della memoria ammutolita di tante esperienze vissute.
Sapevo
bene che mi sarei trovata di fronte all’interdizione del mondo
letterario, quello che ha definito cortigianamente i margini stretti in
cui può avventurarsi chi, come me, non ha diritto di parola. E infatti
la censura è subito arrivata, per volontà di un noto intellettuale di
sinistra e dell’editore Feltrinelli.
Quando
ho cominciato a scrivere avevo ben presente questi vincoli, ma non
immaginavo quanto pervasivi sarebbero diventati. Dopo gli anni di
isolamento carcerario non sapevo a chi mi stavo rivolgendo, ma sapevo
che avrei suscitato aspettative ineludibili.
Adesso
che sta per uscire il mio settimo libro questo problema credo di averlo
superato. E sono stati i miei lettori, i tanti compagni incontrati
nelle presentazioni, i ragazzi che vogliono sapere, ad aiutarmi a farlo.
Infatti grazie alle mie pagine ho scoperto di non essere la sola a
pormi le stesse domande e a sentire la repulsione per una narrazione
ufficiale che non coincide col sapere e con i ricordi di ciascuno.
A
prescindere dalle diverse modalità con cui ognuno ha contribuito a
rendere tanto significativa quella lunga stagione di lotte. E’ un
disagio che va approfondendosi a fronte di una versione dei fatti che va
al di là della “storia scritta dai vincitori” e ha finito per
somigliare all’imposizione di una pacificazione blindata ottenuta con la
paura e la menzogna.
Ho
fatto la scelta di una esposizione personale per poter riattraversare
il mio percorso di vita e non solo la sua parte nota, costretta in una
parentesi decontestualizzata. La ricostruzione di una fisionomia che
avevo in comune con i compagni con cui ho condiviso la militanza.
Compagni che venivano e vengono descritti come sagome vuote, come
burattini appesi, come alieni venuti da chissà dove.
Volevo
offrire il racconto sul come s’è compiuta la mia scelta politica, le
mie origini sociali, le occasioni, la determinazione e la problematicità
di un vissuto niente affatto scontato. Volevo raccontare come avevo
approcciato le mie scelte e la fatica di rielaborarle. Non cercavo
scusanti ma risposte a domande che quegli avvenimenti hanno lasciato
aperte. Non volevo sostituirmi al compito degli storici, ma riempire di
memoria personale il percorso e le ragioni di tanti e tante che hanno
osato liberarsi dalla paura di sfidare il potere.
Tutto
questo coincideva con la mia esigenza profonda di restituire senso a un
pezzo della storia di questo paese ridotta a una vulgata deprivata di
ragioni sociali e una condanna a senso unico. Scrivere è stato il
racconto di un viaggio di ritorno che ha previsto prendere distanza dal
contingente che nulla può spiegare se non dentro una storia più lunga
che ci precede e ci sopravvive. Una storia che spesso si trova scritta
più nelle pieghe della materia vivente, quella che non cambia versione a
seconda delle stagioni.
E’
stato così che mi sono ritrovata a rivolgere le mie mute domande alla
luna nella deprivazione del suono della libera lingua umana. Per questo
uso le storie che conosco, direttamente vissute o tramandate. Per
tracciare le vite delle persone in carne e ossa perché una faccia, un
nome, delle tracce d’esistenza non vengano annullate in una massa senza
volto e senza identità.
E’
vero che non abbiamo esperienza diretta di tutte le vicende che pur
possono aver lasciato un’impronta sulla coscienza di ciascuno di noi, ma
possiamo imparare a comprenderne il significato se ne traduciamo
l’impersonale racconto che ne fa la “Storia” in tante piccole storie di
esistenza concreta.
E’
un punto di vista, un modo per entrare nelle vicende collettive di chi
non ha potere e quasi sempre subisce le decisioni di chi governa il
susseguirsi della Storia e porta sulle spalle tutta la fatica del suo
compiersi.
Ricordo
bene le espressioni che mia madre aveva in viso quando tornava dal
turno di fabbrica. La fatica, la rabbia repressa, lo scendere a patti
con l’aver perso ogni altra sua abilità cancellata dai ripetuti gesti
comandati dalla macchina.
In
seguito, sui testi di Marx ho studiato l’alienazione del lavoro
salariato e non ho avuto difficoltà a capire. Come fosse qualcosa di
familiare, incarnata sul viso di mia madre.
E’
un’altra storia, un’altra cultura quella dei subalterni. Va conservata e
difesa dalle tossine della “memoria condivisa” che entrano in circolo e
sgretolano l’immunizzazione dalle ragioni e dagli interessi del potere.
Raccontati come inevitabile evoluzione verso il progresso che il
capitalismo incarna.
Combattere
questo strumento di disarmo della coscienza di sé del proletariato non è
reducismo nostalgico, né riproposizione del mito di un futuro
messianico rivoluzionario. E’ un collocarsi nell’incedere di una Storia
che non inizia e finisce con ciascuno di noi.
Che
procede non linearmente a strappi e rotture che maturano ed esplodono
per dinamiche che sfuggono a ogni previsione. Che è una ininterrotta
sequenza di potenzialità inespresse e il loro contrario. Che è la
concezione del presente rivoluzionario come riscatto della storia dei
vinti.
Viviamo
in un’epoca di revisionismo post-revisionista della Storia, dove
vengono eliminate tutte le tracce dei conflitti di classe della società
capitalista. Fino a che punto questa tendenza è oggi un pericolo per la
memoria collettiva del proletariato, che ha vinto le sue lotte
attraverso la lotta dei lavoratori nelle sue fabbriche?
La
storiografia ufficiale si è attrezzata a riscrivere gli avvenimenti non
solo dal punto di vista dei vincitori, che non sarebbe una novità. Non
si limita a celebrarne le ragioni e la legittimità di esistenza. Non a
descrivere l’esito dei conflitti del ‘900 con l’ottimismo grottesco del
dottor Pangloss e il capitalismo come l’unico sistema sociale in grado
di garantire benessere e libertà. Non a confutare idee e pratiche,
condannandole all’inconsistenza quando non al pensiero insensato e
delinquenziale. Non a sottoporre a critica o condanna tutto ciò che si è
opposto ai padroni del mondo.
Superata
persino l’equiparazione tra forze contrapposte come il comunismo e il
fascismo, i nuovi dispositivi su cui si basa il lavoro di tanti storici
sono la negazione dell’autenticità dei fenomeni politici rivoluzionari.
Come
nelle guerre invisibili del colonnello Buendia, la narrazione
prevalente si basa su illazioni, sentiti dire, falsificazioni,
dimostrazioni a posteriori della vulgata della propaganda del potere. I
fatti, anche se ampiamente documentati, ignorati o snaturati.
Pubblicazioni, trasmissioni televisive, lezioni e conferenze,
commissioni parlamentari, incessantemente, da decenni, sostengono una
verità sempre più sbrindellata, senza timore di incoerenze evidenti.
L’importante
è dichiarare che non c’è stato alcun conflitto, ma isolati atti di
criminalità sostenuti e organizzati da forze occulte contrarie alle
istituzioni democratiche. I numeri, la durata del fenomeno, le
testimonianze, le ricerche documentate, non turbano i sonni dei
sostenitori del complotto che, a distanza di decenni, in un clima quasi
unanime di pacificazione forzata, non cessano di agitare i vessilli
della dietrologia per dimostrare che, nel migliore dei mondi possibili,
la rivoluzione è impresa impraticabile e, quando viene tentata, è merce
avariata e eterodiretta, frutto di manovre reazionarie.
E’
una storiografia fondata sui concetti da sacrestia di innocenza dei
vincitori e colpevolezza dei vinti, di vittime e carnefici, di condanne
perpetue e perdonismo. Ma, soprattutto, è uno strumento per il governo
del presente, in cui il livello raggiunto dalla repressione non ha
riscontro con la capacità di esprimere conflittualità da parte dei
movimenti mentre mostra con sempre maggiore evidenza il portato di
miseria e morte del sistema che sta dominando il mondo.
La
lotta armata in Italia dalla fine degli anni ’60 fino alla fine degli
anni ’80 per tutto questo tempo si riduce a un evento storico, il
rapimento di Moro da parte delle Brigate Rosse. Una storia imperialista
che cerca di trasformare la storia a suo vantaggio. Una narrazione così
ufficiale riuscirà a cancellare vent’anni di incessanti lotte di classe
nel paese, quando cesserà la memoria partigiana di persone come te?
Aver
ridotto quella storia a un solo episodio, infarcendolo di falsità,
misteri e presenze segrete, è l’approdo di quanto si diceva prima.
L’attacco alla DC, nella persona del suo presidente e massimo ideatore
della “solidarietà nazionale”, è descritto come un pessimo film di
spionaggio in cui un manipolo di esaltati una mattina di marzo arrivano a
via Fani, uccidono cinque uomini della scorta, catturano Aldo Moro e lo
tengono prigioniero per il tempo in cui si intrecciano le manovre dei
ricatti incrociati e dei colpi di mano dei poteri occulti di mezzo
mondo.
In
questa ricostruzione non appare nessun interesse per il clima politico e
la contrapposizione esistente nel paese che ha reso possibile alle BR
di arrivare a quel livello di scontro. Nessun accenno al fatto che il
patto di non belligeranza tra i due maggiori partiti avrebbe chiuso
definitivamente ogni spazio di opposizione conflittuale.
Un
fermo immagine senza un prima né un dopo, a dimostrazione di un nemico
arrivato da una realtà aliena senza alcun legame con la storia sociale e
le contraddizioni di questo paese. In verità, una guerriglia urbana in
un paese a capitalismo avanzato e a democrazia parlamentare, non sarebbe
durata tre giorni se non avesse goduto del consenso e dell’appoggio di
una parte consistente di quel vasto movimento di classe contro cui si è
abbattuto l’abbraccio reazionario del Pci con la Dc e la Confindustria.
Ma
questo non giova a chi lavora per negare l’idea stessa della
possibilità di cambiamenti radicali. La costruzione mediatica di questo
rozzo ma funzionale anticorpo non fa che eseguire la sentenza per il
nostro impronunciabile reato: quello di aver dimostrato la vulnerabilità
del potere ai suoi massimi livelli.
E’
straordinario come non venga formulato nessun interesse sulle reali
cause della nascita e del perdurare della lotta armata in questo paese e
tutto si traduca in reiterati quanto sempre più deformati nessi e
particolari torbidi. La menzogna eretta a sistema non ha neanche bisogno
di essere dimostrata. Cos’altro può essere più assolutorio per il
potere del raccontare una stagione di aspra e prolungata conflittualità
come macchinazioni di servizi segreti?
Che,
a partire dai dati del ministero degli Interni, nel ’79 ci fossero 269
gruppi armati, che gli inquisiti per banda armata fossero stati 36.000
di cui 6000 condannati a molti anni di carcere speciale, non ha mai
influito sulla versione ufficiale.
Che
il numero dei prigionieri politici in quegli anni sia stato più alto di
quello durante il regime fascista, non ha posto domande agli storici,
ai giornalisti, agli intellettuali, con poche e trascurabili eccezioni.
Impegnati come sono al fiancheggiamento delle politiche repressive che
colpiscono con durezza, in un evidente disequilibrio di forze in campo.
Per
questo l’esercizio della memoria è diventato un terreno di scontro,
perché non vada perduto un patrimonio politico che in quegli anni ha
significato la più importante occasione di cambiare lo stato delle cose
presenti. La portata della sconfitta nulla toglie al suo valore, al
contrario dovrebbe essere uno stimolo per riprendere il cammino di
liberazione alla luce del suo riattraversamento critico.
Per
questo penso che scrivere di un’esperienza come la mia possa servire
alle nuove generazioni, perché il presente non è caduto dal cielo ma è
la conseguenza di ciò che abbiamo alle spalle, dell’esito delle
battaglie del passato. Lo credo perché l’attuale bombardamento mediatico
sulla opacità della storia delle BR non è altro che un monito per il
presente. Faccia complementare della repressione armata e tribunalizia
scatenata contro i movimenti attuali. Strumenti dissuasivi per ogni
tentativo di critica pratica del presente.
Lo
credo perché è fondamentale l’analisi del contesto
sociale-politico-culturale in cui vivono, si sviluppano e muoiono i
cicli di lotte e i tentativi di “assalto al cielo”. Perché bisogna
rinnovare la propria “cassetta degli attrezzi” per approcciare il “che
fare” adeguato alle condizioni storiche che si attraversano. Lo credo
perché l’alternativa tra il “non si può fare nulla” e pensare di
ripercorrere strade buone per altre stagioni non porta da nessuna parte.
In
che modo oggi la nuova generazione della sinistra italiana vede questi
vent’anni di guerriglia marxista in un paese che aveva una democrazia
distintamente parlamentare e un’economia capitalista avanzata?
Quello
della “sinistra” è un ambito molto variegato. Non mi riferisco
ovviamente a quella istituzionale che sta dando prova di aver raccolto
degnamente l’eredità dei suoi padri fondatori nell’ingabbiare e dividere
i movimenti, con la cooptazione istituzionale e la contrapposizione tra
“buoni e cattivi”.
In
questa situazione di debolezza e di difficoltà di intravedere una
prospettiva praticabile, queste forze hanno la responsabilità di firma
di alcune delle leggi più reazionarie in vigore, dalle “riforme” del
mercato del lavoro alle disposizioni in ambito della legalità e
sicurezza, in competizione con le destre soprattutto sui temi che più
raccolgono più consensi elettorali come il contrasto all’emigrazione.
La
fine dell’ultimo grande movimento, quello no global, ha lasciato un
grande vuoto di progettualità, riempito con generosità da compagni che
si stanno misurando con un livello repressivo fuori misura. Le
caratteristiche attuali dello scontro nelle sue specificità più
incisive, sia si tratti della difesa dei territori, di modelli sociali
comunitari inclusivi, che delle condizioni di vita e di lavoro più
precarizzate, stanno costruendo un tessuto di alleanze, di pratiche e di
idee forti che toccano i nervi scoperti di questo sistema di potere,
qui da noi come in più parti del mondo.
In
questo contesto completamente cambiato i compagni, giovani e meno,
interessati alla storia della guerriglia comunista, leggono la memoria
degli ‘anni 70 come la necessaria elaborazione di una sconfitta che ha
coinvolto tutti e ha ipotecato il futuro di tutti.
Pur
essendosi spezzato il “filo rosso” intrecciato con i tanti tentativi di
“assalto al cielo” del ‘900, nulla toglie che da quella lunga
tradizione di pensiero e pratiche rivoluzionarie, di dimostrazione di
vulnerabilità del potere anche ai suoi massimi livelli, ci sia ancora
molto da imparare. Almeno quanto da superare.
Di
certo il nostro è stato un modello rivoluzionario non replicabile nelle
nuove condizioni e questa convinzione è stata la motivazione principale
della nostra dichiarazione di chiusura dell’esperienza. La
dimostrazione di questo sta anche nella inefficacia dei tentativi di
darle continuità da parte di gruppi di compagni che hanno riproposto lo
stesso schema a cavallo del nuovo millennio.
E
non perché gli obiettivi delle loro azioni non rappresentassero i
responsabili dell’attacco padronale alle condizioni di vita e di lavoro
del proletariato, ma perché quella delle Br non è stata una sequela di
colpi di pistola, ma una strategia politico-militare non replicabile in
assenza delle condizioni che l’hanno legittimata socialmente.
Cosa
consegna alle nuove generazioni? Chiedi. Per quanto mi riguarda
principalmente la condivisione, quando si riesce a costruirla, della
difesa di una storia dalle manipolazioni di chi aggiunge a scadenze
stagionali nuove travi di sostegno a un sistema impresentabile.
Ormai
la sciatteria con cui si propongono nuove “rivelazioni” è pari solo al
disatteso obbligo di dimostrazione di chi se ne fa strumento. Siano
“pentiti”, giornalisti, politici, poco importa. A regolare scadenza si
aprono i saldi di stagione e partono le campagne diffamatorie come se
gli avvenimenti di 40 anni fa fossero fatti di cronaca corrente da cui
dipende la risoluzione dei gravi problemi che la società attuale ha di
fronte. Come se l’arresto di un latitante ultrasessantenne a “babbo
morto” sia un interesse vitale per quanti oggi stentano a mettere
insieme il pranzo con la cena.
Aspettarselo
è un conto, fare i conti col livello di mistificazione e bombardamento
mediatico è tutta un’altra faccenda. L’operazione di cancellazione va di
pari passo con un analfabetismo di ritorno che è andata in profondità
e, soprattutto nei riguardi delle nuove generazioni, va nel senso di
azzeramento dello spirito critico che nasce dalla conoscenza.
In
ogni caso sottrae elementi importanti di comprensione del mondo attuale
che l’esito di quello scontro ha contribuito fortemente a configurare.
Per questo tenerne viva la memoria può contribuire a trarre forza e
comprensione maggiore di questo presente che ci tocca attraversare.
Come
diceva Rodolfo Walsh, militante dei Montoneros ucciso durante l’ultima
dittatura argentina, il potere ha sempre cercato di fare in modo che i
lavoratori non avessero storia: “Ogni lotta deve cominciare di
nuovo, separata dalle lotte anteriori, l’esperienza collettiva si perde,
le lezioni si dimenticano. La storia appare così come proprietà
privata, i cui padroni sono gli stessi padroni di tutte le altre cose”.
E’
un insegnamento sempre valido: non delegare e non credere mai che non
si possa fare niente per provare a cambiare lo stato presente di cose,
anche quando la rivoluzione non è all’ordine del giorno.
L’unica
cosa che mi sento di dire a chi non c’era è che il mondo in cui sono
nati non è l’unico possibile. E’ solo l’ultimo e forse il peggiore. Che è
loro interesse sanare la cesura di memoria, perché recuperando
esperienza e sapere, ci si rafforza con le armi della critica e si
guadagnano nuovi compagni di viaggio per rendere realistica l’utopia di
umanizzare una società divisa in classi.
Le
rivoluzioni del ‘900 sono state battute ma ci hanno lasciato lasciato
qualche strumento in più per affrontare le lotte future. Il nemico non è
invincibile, anche se spesso può sembrarlo e non lo si batte mai una
volta per tutte.
Certo
è che non è tutto finito. Oggi nel mondo assistiamo a processi di lotte
che stanno mettendo in causa il modello sociale capitalistico che,
proprio nel momento in cui sta dominando il mondo, sta dimostrando di
essere entrato nella sua fase di decadenza, avendo perso ogni sua spinta
innovatrice e essendo portatore di impoverimento e distruzione delle
condizioni di vita nel pianeta. Così come la democrazia formale sta
dimostrando a pieno la smentita delle sue stesse motivazioni di
esistenza come accreditato governo del popolo.
Oggi
assistiamo a espressioni di antagonismo radicale e costruzione nella
lotta di alternative di sistema, differenziate nelle forme (armate o
no), dal ventre della bestia alle periferie dell’impero. Tutte sostenute
dai principi dell’autogoverno, dell’economia comunitaria, del mutuo
soccorso. La non delega e l’azione diretta responsabilizzano e
restituiscono la libertà di scelta sulla propria esistenza e quella
della comunità di pari a cui si appartiene.
Libertà
che i partiti e le tante forme organizzative che fanno da mediazione
con i centri decisionali nelle nostre società “evolute” hanno
completamente svuotato di capacità di incidere. Molto di tutto questo
rimanda alla tradizione assembleare, collettivistica, extraistituzionale
e illegale di massa che ha reso possibile la forza, la durata e la
legittimazione sociale della sovversione degli anni ’70. Da qui si
potrebbe ripartire.
In
un’occasione, hai affermato che tra di voi nelle Brigate Rosse non
c’era un solo intellettuale ben noto che avesse la capacità
indiscutibile di analizzare la trasformazione dello Stato e la
globalizzazione dell’economia. Perché oggi, non solo in Italia, ma in
tutto il mondo, l’élite accademica e intellettuale sta cercando di
imporre la propria autorità attraverso un “monopolio sulla conoscenza”, e
quindi appropriarsi del diritto a una lotta rivoluzionaria, senza
offrire istruzioni e un piano d’azione?
Uno
dei segni fondativi della nostra organizzazione è stata l’unità del
politico-militare, non solo come scelta strategica organizzativa, ma
anche come cifra identificativa dei militanti. In questo senso non c’era
chi pensava e chi agiva, una direzione politica che dettava la linea e
una schiera di militanti che la attuavano. Tutti facevano tutto.
Anche
esagerando. Come Prospero Gallinari che è stato ferito gravemente e
arrestato mentre cambiava la targa a un’auto rubata. In quel momento
quello c’era da fare e lui, uno dei dirigenti più ricercati d’Italia,
l’ha fatto.
L’organo
massimo di elaborazione della linea politica era la Direzione
strategica a cui partecipavano compagni clandestini e militanti legali
di brigata, delegati dalle colonne. Non c’era posto per gli
intellettuali disabituati all’azione e al lavoro politico e infatti non
ci sono stati. Ma questo non ha significato incapacità
dell’organizzazione di elaborare analisi complesse come quella che citi
che nessun centro studi accreditato era in grado di fare.
Infatti
mentre ancora nella intellighentia di sinistra si ragionava di
Stato-nazione, un gruppo clandestino elaborava la concezione della
multinazionalizzazione del capitale. Che avessimo nella pratica
interpretato questa intuizione come fatto avvenuto e non come processo
in divenire, nulla toglie alla sua importanza.
Questo
ha significato che un’organizzazione composta da operai e proletari può
promuovere conoscenze, sapere e intelligenza teorico-pratica ad alti
livelli, incomparabili con la pura accademia. Sarà per questo che il
potere impedisce in ogni modo la ricomposizione del lavoro manuale con
quello intellettuale?
Un’altra
cosa che devo sottolineare è la questione del femminismo, che tu dici
non era un riferimento delle Brigate Rosse, perché per le Brigate Rosse i
riferimenti erano lotte che cercavano potere, verso lo scioglimento del
sistema capitalista, e il femminismo non era quello. Che giustamente
dici è un movimento per l’emancipazione delle donne che essenzialmente
non è interessato alle differenze di classe perché non combatte il
capitale, il che è del tutto vero, anche se sappiamo che il patriarcato è
uno dei pilastri del sistema capitalista. Pertanto, oggi stiamo
assistendo al fatto che il femminismo è il privilegio di una ricca
società della classe media, come afferma la famosa femminista Camille
Paglia. Quanto è reazionario questo tipo di “lotta” che serve solo come
decorazione per la sinistra di oggi?
Il
femminismo, come fenomeno di massa, esplode in Italia nei primi anni
’70. La crisi della sinistra extraparlamentare, a fronte dell’acuirsi
dello scontro, aveva aperto uno spazio di dibattito politico circa la
necessità della scelta armata, non più come prospettiva avveniristica,
ma come questione non più rimandabile. Scelta che molti compagni e
compagne fecero non essendo mai stato un tabù neanche in precedenza.
Spesso
nel cammino di liberazione delle classi subalterne si è raggiunta la
coscienza della non riformabilità del sistema dominante, ma solo in
alcune occasioni si è verificata un’ampia disponibilità ad attaccarlo
per distruggerlo. E, in quegli anni l’occasione c’è stata.
In
questo contesto molte compagne decisero di aderire al movimento
femminista, un movimento non violento, interclassista, emancipazionista,
finalizzato ai diritti civili e alla tutela delle donne come soggetto
debole.
Un
movimento che trovava adesioni nei gruppi sociali medio alti, in ambito
accademico e intellettuale e che non aveva alcun legame con le donne
proletarie. Questo almeno nella sua rappresentanza maggioritaria, non a
caso quella più legata ai partiti della sinistra istituzionale. Quella
che ha messo a frutto maggiori conoscenze e capacità e una privilegiata
collocazione sociale per una qualche riparazione alle disuguaglianze di
genere e l’interesse al mantenimento del sistema sociale dominante in
cui assicurarsi posizioni di carriera, visibilità, riconoscimento.
Altre
compagne sono riuscite a coniugare anticapitalismo e femminismo senza
riuscire, se non in termini minoritari, a spostare la contraddizione,
quando non la rottura, con le militanti della lotta armata, definite
subalterne alla “politica dei maschi” e persino senza alcuna coscienza
di appartenere al genere femminile.
E
la scarsa considerazione era reciproca visto che le BR non erano
un’organizzazione interessata a ogni movimento politico che si
manifestasse nella società, ma solo a quelli che esprimevano un chiaro
contenuto di lotta per il rovesciamento del potere dominante.
Che
il sistema capitalista abbia perfezionato la forza del patriarcato e se
ne sia fatto un pilastro è certamente vero. Le donne dovrebbero avere
un interesse massimo per l’abbattimento del capitalismo perché è
l’ostacolo maggiore della loro liberazione.
Questo
sembrano averlo capito molto bene le donne appartenenti alle periferie
del mondo globalizzato che fanno vivere nelle lotte anticapitalismo,
antirazzismo e questioni di genere. Che possono dare un contributo anche
alle riflessioni di noi occidentali per liberarci dai residui di
colonialismo politico che il Novecento delle rivoluzioni ha portato con
sé non riuscendo a individuare i pericoli della centralità che ci siamo
attribuiti. Anche riguardo alle questioni della liberazione delle donne.
Quanto
all’esercizio della violenza, certo femminismo ne ha fatto un problema
di riproduzione del modello maschile da disturbo mentale e
comportamentale. Il punto vero è l’idea per cui l’esercizio della
violenza, e soprattutto quella femminile, in contesti democratici non
sia ammissibile. Da questo strabismo deriva che il capitalismo non è più
combattuto come il sistema che più ha perfezionato il servilismo delle
donne e che, con qualche ritocco, si potrebbe sanare la loro mancanza di
libertà e di autonomia.
Per
raggiungere questi obiettivi al massimo si ritiene necessaria una
battaglia culturale, simbolica, che il sistema è in grado di accettare,
persino adulare, per meglio assorbirla e neutralizzarla.
Al
contrario, secondo la mia esperienza, è proprio in condizioni
particolari come la clandestinità, la galera, le “deviazioni” dalle
norme, che sono più possibili percorsi di liberazione femminile in virtù
della non vigenza dei ruoli mercificati che il potere impone. In ogni
caso non esiste un solo “femminismo” ma diverse sue interpretazioni e
pratiche. E anche in questo l’autoderminazione, la non delega, la
dimestichezza con l’illegalità, la difesa del sapere femminile,
l’autodifesa e il rifiuto delle tutele, la scelta di classe e
l’internazionalismo fanno la differenza.
Ragionando
in termini più materialistici e ricordando che i modelli sociali sono
storicamente determinati possiamo mettere in evidenza che nel cammino
dell’umanità le donne non sono sempre state l’angelo del focolare,
destinate per “natura” a creare la vita e quindi incapaci di combattere
per la propria libertà.
Ci
sono diventate quando sono state estromesse dalla gestione delle
attività produttive e dalla signoria dei saperi necessari alla vita
collettiva, che ha significato anche la perdita della capacità di
conduzione delle comunità, cioè della cosa pubblica, cosa che è
tutt’altro dalle “quote rosa” e dagli spazi benevolmente concessi. E
meno che mai dall’esercizio del potere di donne che il capitalismo
consente.
Il
problema vero riguarda la fatica delle donne di poter esprimere la
propria autodeterminazione in un mondo fondato sulla loro debolezza.
Fatica che può essere superata solo abbattendo le regole del gioco e
ponendosene fuori. Ma non per tutte la fatica è la stessa e il potere ha
spesso un volto di donna.
Ma
parlare di “donne”, come genere indifferenziato, ha prodotto identità
come quelle di portacqua dei partiti o quelle che mettono insieme la
Bonino, le clintoniane americane e le combattenti del Rojava.
Per
questo non esiste un unico femminismo, esistono diversi modi di
affrontare e, soprattutto, esercitare la libertà femminile contro il
sistema capitalistico. Tenere massimo conto dei percorsi delle donne su
cui il potere si è abbattuto con maggior violenza potrebbe essere un
primo passo.
Il
paradigma rivoluzionario contro il sistema capitalista è ancora
rilevante oggi, tenendo presente la militarizzazione della società
attraverso un unico dominio, il patto militare NATO, che mantiene uno
stato di guerra permanente e permanente?
A
fronte della sconfitta delle rivoluzioni del ‘900, dell’arretramento
del campo socialista e della mancata transizione a una società senza
stato e senza classi, non credo ci si possa sottrarre da una riflessione
critica di quel paradigma rivoluzionario e, soprattutto, delle sue
interpretazioni.
La
teoria dello sviluppo delle forze produttive come fondamento
strutturale del socialismo ha finito per assimilare al modello
capitalistico il modo di produzione dei paesi usciti vittoriosi dallo
scontro con l’imperialismo.
Senza
nulla togliere all’importanza delle rotture rivoluzionarie che hanno
consentito al proletariato mondiale di essere protagonista di
cambiamento e di governo rivoluzionari, mi sembra oggi necessario fare i
conti con la nostra storia. Più che dalla controffensiva del potere
siamo stati sconfitti dalla debolezza del nostro impianto teorico e
delle sue interpretazioni. Ecco perché è necessario ripercorrere una
storia delle classi subalterne, perché aver pensato che tutta la
ricchezza e la tecnica accumulate dal capitalismo – che trae la sua
forza dallo sfruttamento di mano d’opera e risorse – potessero fornire
le condizioni per un sistema basato sul benessere sociale, ha
determinato la subalternità all’unico modello vigente.
Il
taylorismo del modello Fiat, col corollario della subordinazione del
lavoro manuale, è stato ampiamente adottato nella fabbrica sovietica e
la pianificazione dell’economia non ha significato la pretesa
superiorità del socialismo essendo rimasti inamovibili il partito e lo
Stato a scapito della centralità dei soviet e delle strutture politiche
di base.
Quel
processo rivoluzionario è stato esemplare per rintracciare
l’allontanamento dalla possibilità della transizione al comunismo,
complici l’idea della neutralità della tecnica capitalistica e dello
sviluppo lineare del progresso.
Chernobyl,
la collettivizzazione delle campagne e l’industrializzazione
accelerate, la modellazione a sua immagine e somiglianza dei processi
rivoluzionari e dei partiti comunisti fratelli, l’internazionalismo
coniugato in divisione delle zone di influenza tra i due blocchi, la
centralizzazione degli organismi di governo non hanno certo giovato
all’esito positivo del paradigma anticapitalistico.
Come
non capire che il nostro relativo benessere (relativo, perché sempre
dipendente dalla capacità di strapparlo ai padroni) è reso possibile
dallo stato di sfruttamento e miseria e di rapina delle risorse dei
paesi vergognosamente descritti come “in via di sviluppo”?
Le
differenze sono talmente grandi da non poter essere colmate. Su questo
disequilibrio si basa l’accumulo di ricchezze dei paesi occidentali e
l’abbaglio di poterne fare la condizione del futuribile mondo
socialista. Basti pensare che un abitante del Madagascar ha a
disposizione 10 litri di acqua al giorno e uno degli Stati Uniti 425 per
rivedere in senso critico le convinzioni che sono state alla base della
concezione della storia come una successione lineare di stadi, in cui
quello successivo è necessariamente superiore al precedente.
Per
valutare se c’è stato un effettivo progresso occorre dimostrare chi ne
ha giovato e a danno di chi. Il meccanicismo economicista arriva persino
a “giustificare” la distruzione di intere civiltà e la non significanza
di differenti sistemi sociali in base al grado di sviluppo delle forze
produttive come necessità storica e prezzo da pagare all’affermazione
del socialismo.
Si
poteva fare meglio in quelle condizioni di scontro frontale con la
borghesia imperialistica? L’interrogativo rimane, ma più importante è
setacciare tra le macerie e distinguere quelli inservibili dai buoni
materiali. Perché non sono venute meno le ragioni su cui quel paradigma
si fondava, bensì la fede nelle magnifiche sorti e progressive, lo
sviluppo lineare e evolutivo e la certezza dell’universalità della
nostra idea di percorso di liberazione che è stata fatta coincidere con
quello dell’umanità intera.
Se
la politica è solo pragmatismo, allora la lotta rivoluzionaria è
esclusivamente una lunga e ampia osservazione e strategia, ma che il
numero di fucili non è l’unico fattore determinante per il successo del
movimento rivoluzionario del popolo, afferma il nostro amico Yoma Sison,
leader del Partito comunista delle Filippine. Innanzi tutto, stiamo
parlando dell’emancipazione culturale, ideologica-politica e sociale e
dell’educazione degli operai e dei contadini, cioè dell’intero
proletariato. Quindi, è questo il dannato duro lavoro oggi nell’era di
un sistema tecnico-tecnologico e informativo globalizzato per creare
l’opinione pubblica?
Credo
che anche l’idea di una prerogativa pedagogica delle avanguardie e dei
partiti vada ripensata depurandone l’aspetto duale, di delega e
rappresentatività. Come in tutti gli esordi dei processi rivoluzionari
del passato, le rivolte più significative oggi nel mondo parlano il
linguaggio della democrazia diretta e dell’autogoverno, della
responsabilizzazione di chi partecipa alle lotte e nelle comunità di
resistenza come protagonista e soggetto attivo nelle scelte circa il
proprio destino, la propria vita, la propria capacità produttiva.
L’emancipazione
a tutti i livelli è ancora una volta il risultato, ieri come oggi, di
un percorso di valorizzazione e attualizzazione del sapere tramandato e
acquisizione di capacità di partecipazione alla vita politica
collettiva. Come ci insegnano le donne zapatiste che hanno riconquistato
un ruolo centrale, politico e organizzativo, nella vita comunitaria.
Ruolo che si erano viste strappare dagli eserciti arrivati a portare la
civiltà dei padri bianchi.
Nel
“comunismo comunitario” zapatista è racchiuso il mondo nuovo per cui
queste donne sono uscite dalle loro case e da ruoli subordinati, un
mondo in cui è bandita l’oppressione classista, di genere e di etnia.
Chiunque
abbia partecipato alle lotte libere dal controllo delle burocrazie
politiche e sindacali sa quanto sia fondamentale, anche per la propria
crescita, cimentarsi con i processi decisionali collettivi. E quanto
questo spinga a superare l’iniziale spontaneismo delle pratiche per
armarsi di analisi, strategie, prospettive, organizzazione.
I
movimenti che creano egemonia culturale rivoluzionaria non sono
costruiti a tavolino come quelli di opinione. Nascono, quasi sempre
imprevisti, “nelle circostanze determinate dai fatti e dalle
tradizioni”, come Marx ci ha insegnato. Precedono la teoria e si
rafforzano marciando sulle proprie gambe. Usano gli strumenti di difesa e
offesa legittimati socialmente dalle condizioni oggettive e soggettive
dello scontro perché che sia la politica a guidare il fucile è sempre
stato vero.
Lucio
Lombardo Radice, un noto teorico PCI, un esperto di dialogo marxista
con i cattolici afferma; secondo l’articolo 2 dello Statuto del PCI,
l’insegnamento del marxismo come visione del mondo e come teoria sotto
forma di studio e direzione dello sviluppo sociale nella direzione di
una società socialista democratica, aperta e libera non deve essere
dogmatico. Pertanto, quel marxismo come metodo e scienza della storia
non deve assolutamente essere un insegnamento filosofico, ma storico,
che deve essere libero dal dogmatismo. In che misura un’interpretazione
così arbitraria del materialismo dialettico ha contribuito a scelte
reazionarie di alcune persone come Palmiro Togliatti, che come ministro
della giustizia nel primo governo del dopoguerra ha graziato molti
fascisti, ma anche Berlinguer dopo uno storico incontro con il
democristiano Moro, deviando dal marxismo scientifico?
Il
marxismo è stato un metodo di analisi scientifica della struttura
capitalistica finalizzata a costruire le basi teoriche del comunismo,
ossia del “movimento reale che abolisce lo stato di cose presente”. Come
tale che non debba subire un’interpretazione dogmatica va da sé,
secondo una accezione alta del concetto di scienza che dovrebbe essere
tutt’altro che meccanicista, fideistica, infarcita di assoluti.
Detto
ciò le scelte politiche del Pci di Togliatti, anche imposte da Mosca
che non voleva turbare l’equilibrio di zone d’influenza dopo la seconda
guerra, credo c’entrino poco con gli artifici dialettici delle
disposizioni di partito. Anche perché, per tacitare la base riottosa al
disarmo,Togliatti fu maestro di doppiezza tra l’agitare l’insurrezione
nelle piazze e l’agire nelle istituzioni come forza democratica tra le
altre.
L’abbandono
del campo rivoluzionario e la lunga marcia nelle istituzioni sono stati
scientemente perseguiti e questa è stata la cifra politica del più
grande partito comunista d’occidente e anche la ragione del suo
atteggiamento avverso a ogni movimento che non riusciva a controllare.
Il
PCI, a partire da Gramsci, passando per Togliatti, Berlinguer, fino a
D’Alema e Zingaretti, ha subito drastici cambiamenti
ideologico-politici. Da un partito rivoluzionario che avrebbe dovuto
guidare il popolo italiano nella lotta contro il fascismo, si trasformò
in un puro surrogato della borghesia italiana, che rappresentava i suoi
interessi. Secondo te, la lotta al capitale attraverso le istituzioni
oggi è più difficili o forse non c’è mai stata?
Nel
corso degli anni è cambiata anche la composizione sociale del partito,
con una prevalenza degli interessi dei ceti medio-alti sia nel corpo
elettorale che nella dirigenza. Berlinguer con il consociativismo, la
scelta di campo occidentale, l’appoggio alle politiche antioperaie e di
contenimento dei salari è stato il dirigente che più ha contribuito alla
veridicità della affermazione di Agnelli per cui “per fare una poltica di destra occorre un governo di sinistra”.
D’Alema ha portato a compimento la scelta dell’ombrello Nato con la
partecipazione alla guerra nella ex Jugoslavia e Zingaretti è l’emblema
disperante del “meno peggio”.
Solo
pochi mesi fa, eri il bersaglio di un attacco da parte dei media
imperialisti, dopo che un post era stato pubblicato sul tuo profilo
Facebook ufficiale in occasione del 40 ° anniversario dell’omicidio del
tuo amico Riccardo Dura a Genova. Tali attacchi pubblici orchestrati,
così come la cancellazione di innumerevoli presentazioni dei tuoi libri
in tutta Italia, da parte della borghesia italiana, possono spezzarti
completamente dopo 26 anni di silenzio del sistema penitenziario?
La recrudescenza degli attacchi nei miei confronti ha radici lontane. Il mio primo libro, Compagna luna,
fu messo all’indice da Antonio Tabucchi, che mi costò la messa alla
porta da parte della casa editrice Feltrinelli. L’ineffabile professore
non si è limitato a una critica, sempre legittima, del mio testo, ma ha
preteso e ottenuto una sovrapprezzo non previsto dalle mie condanne
giudiziarie: il non diritto di parola.
Da
allora un lungo elenco di interdizioni ha accompagnato la mia vicenda
letteraria e le mie prese di posizione pubbliche. Naturalmente è una
storia collettiva l’obiettivo di questi attacchi e l’intimazione al
nostro silenzio è evidente e dichiarato.
Il
completamento di tali imposizioni è stato l’affermarsi del “paradigma
vittimario”, ossia l’esclusiva del diritto di testimonianza assegnato
alle vittime.
Prima
dell’episodio dello “scandalo” per aver ricordato l’esecuzione del
compagno Dura, i riflettori si sono accesi in occasione delle
celebrazioni dell’anniversario di via Fani. In seguito a una mia frase (Chi mi ospita all’estero per i fasti del quarantennale?)
che, in tutta evidenza, significava il mio rifiuto di dover subire
l’inevitabile distorsione massmediatica delle celebrazioni del
quarantennale, un preteso contenuto offensivo delle mie parole nei
confronti delle mie vittime ha catturato il centro della scena.
Ho
pensato a un fraintendimento e ho provato a chiarire. A chi mi chiedeva
se non avessi considerato quanto la mia frase fosse offensiva nei
confronti dei familiari delle vittime delle nostre azioni armate ho
cercato di chiarire il mio punto di vista. Al contrario, secondo me,
anche le persone che si riteneva avessi offeso avrebbero dovuto
rifiutare il racconto privo di una ricostruzione storica rigorosa di
quegli avvenimenti, lasciato nelle mani dei professionisti della carta
straccia.
Così
come, ai tempi, i familiari di Aldo Moro avevano rifiutato i funerali
di Stato. Ma nulla poteva bastare per evitare l’ennesimo fuoco
incrociato che per giorni mi ha bersagliato. Gli organi di informazione
hanno reclamato il nostro silenzio e, contemporaneamente, hanno fatto a
gara per mandare in onda o pubblicare nostre interviste.
In
un perverso gioco kafkiano hanno continuato a inveire contro la nostra
presenza che non c’è stata e contro i nostri rifiuti tacciati di
sospetta reticenza. Il culmine è stato raggiunto per una affermazione
durante un incontro sull’ultimo mio libro, in cui ho definito quello
della vittima un mestiere censorio che pretende il monopolio della
parola.
La
registrazione tramite una telecamera nascosta è stata gestita con toni
sensazionalistici in una trasmissione in cui non mi sono stati
risparmiati insulti di ogni genere. A seguire c’è stato un fascicolo a
mio carico da parte della Procura, una querela per diffamazione e la
decisione comunale dello sgombero del centro sociale che ha ospitato la
presentazione del libro.
E
dunque è del diritto di parola che si tratta per insindacabile giudizio
dei parenti delle vittime che si ritengono offese da un qualsiasi altro
punto di vista che non sia la testimonianza del dolore di chi ha subito
una perdita.
Diritto
che non hanno tutte le vittime ma solo quelle che hanno la facoltà di
pesare sulla decisione di cosa si debba ricordare e chi non lo ha. Non a
caso il Giorno della memoria dedicato alle vittime del terrorismo è
stato fissato per il 9 maggio, data dell’uccisione di Aldo Moro e non il
12 dicembre, anniversario della strage di Piazza Fontana, i cui
superstiti e i loro familiari non solo non hanno ottenuto verità
processuale ma hanno dovuto anche pagare le spese di giudizio.
Il
trionfo del bene sul male ha preso il posto della ricostruzione
storica, con tanto di corollario del perdono per i meritevoli che
restituiscono al potere un’innocenza e una superiorità morale che non è
nella sua natura possedere.
Gli
attacchi per il ricordo di un compagno ammazzato quarant’anni fa non
sono altro che un ulteriore ratifica di questa condanna non scritta alla
rimozione e al silenzio. Come era già successo in occasione del
funerale di Prospero Gallinari (tre compagni denunciati per apologia di
reato!) neanche il ricordo dei compagni che ci hanno lasciato riesce a
passare indenne alle campagne di indignazione.
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