mercoledì 26 agosto 2020

Arrivano 9 milioni di cartelle esattoriali.

L’argomento è considerato quasi un tabù. Troppo alto il polverone politico che rischia di sollevare. Ma all’interno del governo i ministri ed i tecnici più avveduti hanno cerchiato con la matita rossa una data sul calendario: il 15 ottobre. Non è solo la scadenza per mandare a Bruxelles la legge di Bilancio per il 2021 con allegato, si spera, il Recovery plan. Quel giorno finirà anche la moratoria sulle cartelle esattoriali decisa dal governo durante i mesi del lockdown e poi prorogata.

infosannio.com il Messaggero  Andrea Bassi e Michele Di Branco

Se nulla accadrà, il 16 ottobre l’Agenzia delle entrate dovrà inviare quasi 9 milioni di lettere e Pec (6,8 milioni delle quali lavorate durante i mesi del Covid), per chiedere di saldare il dovuto. Una valanga di atti insomma, si abbatterebbe su piccole imprese, partite Iva e contribuenti, già fiaccati dalla crisi economica e in deficit di liquidità. Il timore, insomma, è che possa esplodere una sorta di bomba sociale difficile poi da gestire.

Il ragionamento che inizia a farsi strada nel governo, dunque, è quello di trovare una qualche via d’uscita. Ma quale? Certo, si potrebbe prorogare il blocco e spostare l’invio delle cartelle ancora in avanti. Ma prima o poi il nodo andrebbe sciolto. Così si inizia a ragionare su un’altra ipotesi: una nuova pace fiscale, una rottamazione delle cartelle del 2019 e del 2020. Del resto, si fa notare in ambienti tecnici, è stato fatto quando emergenze non ce n’erano.

LE RAGIONI

Oggi le ragioni ci sarebbero tutte. Non solo il Paese si trova nella più grande crisi dal dopoguerra, ma alle porte c’è una riforma fiscale che potrebbe permettere di chiudere molti conti con il passato. Anche magari cancellando una parte ormai inesigibile di quel magazzino di cartelle che vale ormai mille miliardi ma che, tutti sanno, essere per per due terzi totalmente inesigibili. Al ministero del Tesoro, intanto, si continua a lavorare anche alla struttura dell’Irpef.

Sul tavolo c’è una sforbiciata alle aliquote, ridotte dalle attuali 5 a 3, una semplificazione del sistema delle agevolazioni fiscali con introduzione del modello tedesco, una correzione del bonus 80 euro, attualmente viziato da qualche inconveniente tecnico, e, di contorno, una rivisitazione dell’Iva. L’Irpef del futuro è un dossier con molte incognite ma con tre punti fermi nella testa di Roberto Gualtieri.

Il ministro dell’Economia punta ad applicare una strategia chiara: ridurre le tasse a partire dal ceto medio ridisegnando la curva del prelievo. Nei piani del numero uno del dicastero di Via XX Settembre c’è, appunto, la cancellazione di due aliquote (non tutte subito, ma per moduli) con una sostanziale rivisitazione delle classi impositive. Impossibile, al momento, fissare il livello delle future aliquote (oggi posizionate al 23, 27, 38, 41 e 43%), ma chi lavora al progetto anticipa che, di certo, l’aliquota più bassa sarà ridotta di 1-2 punti.

Per finanziare la riforma fiscale si cercano almeno 15 miliardi di euro: una cifra che dovrebbe spuntare fuori soprattutto da una riqualificazione delle tax expenditures, i bonus attraverso i quali gli italiani riducono il carico delle tasse da pagare. Altro punto fermo: l’accorpamento delle aliquote sarà realizzato in modo tale da cancellare il paradosso connesso all’allargamento da 80 a 100 euro del bonus Renzi per chi guadagna fino a 28 mila euro e per chi è titolare della nuova detrazione per i redditi fino a 40mila euro. Per la riduzione del cuneo fiscale sugli stipendi dei lavoratori dipendenti sono stati stanziati 3 miliardi di euro per il 2020.

La platea dei beneficiari, tra lavoratori dipendenti privati e pubblici, è così aumenta di 4,3 milioni, passando da 11,7 milioni che percepiscono il bonus Renzi a 16 milioni di lavoratori. Il meccanismo, tuttavia, porta con sé un inconveniente fastidioso con ripercussioni pesanti sulle aliquote marginali effettive. Infatti, per chi percepisce redditi tra 28 mila e 35 mila euro, l’aliquota marginale sale al 45%, contro il 41 precedente.

E tra 35 e 40 mila euro si arriva fino al 61%. Una percentuale molto superiore rispetto all’aliquota legale più alta, quella del 43% che si applica a redditi oltre i 75 mila euro. Cosa significa questo? Che non c’è alcun incentivo a lavorare di più, perché non conviene. Anzi, con uno scatto del salario 900 mila lavoratori ci rimettono addirittura. Una stortura alla quale si vuole porre rimedio.

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