https://ilsimplicissimus2.com
Anna Lombroso per il Simplicissimus
Vogliamo una volta per tutte ammettere che il No al referendum sul
taglio dei parlamentari ha solo il valore simbolico di un atto di fede
nella democrazia? E che i cittadini che si prestano a questa liturgia, a
questo rito apotropaico, non hanno nulla a che fare con i bramini della
politica, con i sacerdoti della realpolitik che in tutte le sedi e
sotto tutte le bandiere hanno contribuito negli anni a svuotarla, la
democrazia, a declinarla come tira il vento: democrazia di opinione,
democrazia televisiva, democrazia di mercato, e poi formale,
rappresentativa, ma con parsimonia, costituzionale, ma da modernizzare,
sostanziale, virtuale, sociale, liberale, fino alla più disincantata
delle definizione, postdemocrazia a intendere che la demolizione dei
requisiti di base della rappresentanza ha consolidato il dominio di una
oligarchia, riconducibile al solo gioco dei dispositivi amministrativi e
della mediazioni sociali?
Vogliamo dire ancora una volta che non c’è stato movimento e partito
che non abbia sventolato la bandiera della governabilità? con l’intento
esplicito di garantire che l’esecutivo possa agire indisturbato senza
gli ostacoli e gli intoppi del Parlamento che di questi tempi e più che
mai, abusando della decretazione d’urgenza e dei voti di fiducia, è
stato condannato alle funzioni di mera ratifica dell’azione di governo.
Vogliamo riconoscere che sono tramontate le stelle polari della
democrazia rappresentativa: uguaglianza e giustizia, identità tra
governanti e governati, sovranità popolare, tutela dell’interesse
generale per lasciar posto a un ordine fondato sui calcoli e aspettative
di soggetti interessati ai loro vantaggi e ai beni e al potere che ne
derivano?
E che in virtù di questa “appropriazione” della funzione pubblica e
sociale da parte dei detentori dell’economia e del mercato e del corpo
politico che agisce al loro servizio, ci vengono indicati e concessi
solo una gamma ristretta di diritti, l’esaltazione e la legittimazione
della soddisfazione e dell’appagamento individuale, tanto che la parola popolo ha perso la sua qualità e potenza sostituite dall’epica del restare umani, dalla retorica cosmopolita dei cittadini del mondo e dall’enfasi data alla società civile, lei sì virtuosa a confronto con ceti dirigenti corrotti e corruttori?
Detto questo, tocca votare No.
Anche se per qualcuno è disturbante rispondere all’appello di
manigoldi, di voltagabbana. Suggerisco in proposito l’ incrocio dei dati
tra i 183 costituzionalisti che hanno sostenuto il Si al referendum del
2016, detto “costituzionale” in forma di ossimoro e promosso per
svuotare la Carta perfino con la cancellazione del Senato pretesa da chi
dopo la sconfitta è entrato in quell’aula con passo di gloria del
vincitore, e i 182 che hanno rivolto un appello per il No temendo uno
strappo costituzionale, tanto per verificare eventuali coincidenze di
nomi e convinzioni.
Tocca votare No, come un fioretto, anche se si sa che il piccolo
sacrificio una tantum è solo un cerotto sulle ferite della coscienza e
sugli oltraggi alla cittadinanza. Perché è evidente che nessun taglio
nel numero degli eletti potrebbe garantire la qualità della selezione
del personale, come voluto dalle regole elettorali che hanno convertito
il voto in atto notarile a conferma di liste chiuse, cerimonie digitali,
plebisciti virtuali. E questo non solo grazie alle leggi che si sono
susseguite, ma a un comportamento degli esecutivi che considerano il
Parlamento di impaccio ed evitano il più possibile di farlo contare,
abusando della decretazione d’urgenza, dei voti di fiducia e del ruolo
attribuito a soggetti extraparlamentari, dotati di autorità e potere
decisionale, come le task force nominate d’imperio in vigenza del Covid.
Tocca votare No, vincendo la naturale e comprensibile disaffezione:
come al solito anche questa scadenza serve solo a improvvisate
tifoserie per contarsi e fare la voce grossa mentre sulle ragione e la
parole parlano la stessa lingua, che è quella della conservazione di
posizioni e rendite che ne derivano, perché è ridicolo ritenere che la
riduzione del numero dei deputati da 630 a 400 e dei senatori da 315 a
200 assuma una valenza pedagogica invece che una funzione punitiva se
non vendicativa.
E non solo perché a fronte della “perdita” di funzionalità e di
rappresentanza, si registrerebbe un risparmio risibile, lo 0,007% della
spesa pubblica, meno di una goccia nel mare del debito
pubblico enorme che mette a repentaglio i diritti sociali, ma anche
perché, comunque, la rappresentatività verrebbe ulteriormente
penalizzata dal meccanismo elettorale che prevede l’elezione del 37 per
cento dei parlamentari con il sistema maggioritario uninominale a turno
unico e una serie di sbarramenti per la restante quota proporzionale, a
danno delle minoranze non solo politiche ma anche etniche, e delle
compagini più piccole.
Tocca, votare No, è vero. Però è doveroso distinguersi da chi vota No come gesto dimostrativo contro il populismo,
come guanto di sfida lanciato dai cavalieri della democrazia per
umiliare la plebaglia affetta da qualunquismo, i malmostosi che ripetono
il loro mantra: i partiti sono tutti ladroni, meno parlamentari mandiamo a Roma e meglio è, bisogna ridurre il costo della politica,
trasferito dal bar e dallo scompartimento ferroviario ai social,
quelli che parlano su suggerimento della pancia, che però è vuota e non
trova ascolto da anni nei governi che si sono succeduti e meno che mai
nei partiti e movimenti che hanno animato il palcoscenico.
E quindi una volta votato No, in memoria di referendum traditi,
obliterati, offesi – ve lo ricordate quello sull’acqua pubblica?- non si
può pensare che dovere fatto, tolto il pensiero, pagato il debito alla
democrazia rappresentativa, si può tornare a brontolare, a recriminare,
dando ragione a chi dice che l’astensionismo è una manifestazione di
maturità, o peggio, a chi dice che il suffragio universale è un lusso
che non è giusto venga permesso a un Paese dove l’emancipazione e il
riscatto si sono ridotti con la fine dell’istruzione pubblica, sapendo
bene che non si è trattato di un processo fisiologico, ma di un preciso
disegno volto a impedire l’accesso ai posti di comando, alle carriere,
alla conoscenza e dunque alla partecipazione, alle opportunità e alle
libertà, in modo che il popolo, gli sfruttati, i sommersi non
attentassero all’egemonia delle classi privilegiate.
Cominciare a esercitare la democrazia è possibile, ma rovesciando la
direzione del controllo sociale dal basso verso l’alto, attività che non
costa poi molta fatica e nemmeno troppe competenze, perché solo così,
con la verifica dell’efficacia, si può impedire l’emarginazione dei
processi decisionali, si può imparare a capire se stare con chi comanda o
con chi vuole riavere la sovranità che deve essere popolare, minacciata
dentro e da fuori, proprio tramite esecutivi e parlamenti che zitti
zitti hanno votato la consegna delle competenze e delle scelte
economiche a entità esterne, che sono in procinto di accettare capestri e
condizioni codarde in cambio dell’elemosina di una partita di giro da
spendere secondo superiori indicazioni, pena interventi manu militare
nella formazione dei governi e nello smantellamento del sistema
democratico.
Intanto si potrebbe iniziare andando a vedere come lavorano i nostri
rappresentanti, invece di contare il loro numero. In fondo basta aprire i
siti istituzionali e ufficiali, controllare da quando le Commissioni
non trattano il tema dell’Ilva (credo che l’ultima volta risalga a
Febbraio con qualche audizione), che interrogazioni siano state
presentate per avere lumi sulle strategie del rilancio, se qualche
eletto nei collegi interessati dal sisma del Centro Italia ha chiesto
delucidazioni o se invece, come sembra, ci si è accontentati della
visita pastorale del Presidente del Consiglio in occasione della
celebrazione dei 4 anni, senza obiettare sul grottesco bonus sisma e
senza interrogare l’esecutivo sulla possibilità che la ricostruzione
post Covid ne preveda una declinazione anche nel cratere, se qualche
deputato o senatore equipaggiato per il dovere agile a distanza o prima
abbia interrogato Calenda, Bellanova, Catalfo sulle vertenze che vedono
in piazze disertate dalle sardine i lavoratori in lotta, o se a
dimostrazione di rivendicate radici antifasciste qualche altro ha deciso
di interpretare la volontà popolare esternata soprattutto su Facebook,
calendarizzando disposizioni di ordine pubblico rispettose dello stato
di diritto.
Intanto i militanti e i votanti di partiti e movimenti che fanno
parte della sbilenca maggioranza di governo, invece di limitarsi ad
applaudire ben contenti che la mascherina sostituisca il bavaglio
dell’autocensura, potrebbero svolgere la più elementare delle azioni
democratica, la critica, quando necessaria. Intanto se proprio si
rimpiangono le piazze di un tempo, diventate location per flashmob
canterini, si dovrebbe stare a fianco dei tanti fermenti che ci sono e
che pensano, si arrabbiano e agiscono per i diritti di cittadinanza, per
il lavoro, l’istruzione, l’ambiente, la città, l’abitare.
Altrimenti che si voti No oppure Si, ci meritiamo la trasformazione
da popolo in pubblico, pagante per giunta, che baratta la libertà con la
licenza di protestare sui social, il sapere con un diploma, i valori e
le conquiste del lavoro con un salario incerto, se l’unico diritto è
quello alla fatica, che quello di voto è come toccare il cornetto
portafortuna.
Nessun commento:
Posta un commento