Pallet, paletta, pedana, bancale; sono vari i modi di definire quello che è lo strumento base utilizzato nella movimentazione delle merci; un manufatto in legno oggi anche alla base di pratiche di riciclaggio creativo che trasformano queste pedane in mobili, elementi di arredo, strutture abitative addirittura. Il pallet è insomma un oggetto versatile che nello standard europeo ha le dimensioni di 1 metro e 20 per 0,80 cm.
Sopra questi 120×80 centimetri, sull’ultimo ripiano di scaffalature alte circa 10 metri sono stati per 11 giorni consecutivi, notte e giorno, 4 facchini licenziati nel magazzino Carrefour di Chignolo Po (Pavia); ed anche in questo caso si è trattato di un riciclo creativo del bancale ai fini della lotta di classe.
Tutto nasce dal fatto che la cooperativa Zero70, che ha in subappalto la gestione dei servizi logistici di Carrefour a Chignolo Po, annuncia ai propri soci lavoratori una situazione debitoria realizzata in circa cinque mesi pari a 360/370.000€, un debito per ripianare il quale chiede il “piccolo sacrificio” del taglio dei salari.
Alla richiesta dei soci facchini di poter avere copia dei bilanci, il presidente del consorzio Cisa (di cui la Zero70 è un’associata) risponde con una aggressione a cazzotti che fa finire un delegato sindacale al pronto soccorso con dieci giorni di prognosi.
Non soddisfatta e giusto per far capire chi comanda nel magazzino, la coop licenzia 4 persone (l’aggredito e tre testimoni) ed inonda la cinquantina di lavoratori iscritti ad USB di decine di lettere di contestazione disciplinare con le più assurde e pretestuose motivazioni comminando centinaia di giorni di sospensione.
Vogliono spaventare e indurre al silenzio… ma sbagliano clamorosamente i conti. Parte quindi dalla metà di luglio una protesta che avrà come tratti dominanti la creatività nelle forme, la radicalità, l’eccentricità del baricentro politico poiché coinvolgerà ad intermittenza sia il magazzino che il territorio circostante.
I facchini decidono di far conoscere la loro situazione alla città e pertanto sperimentano dapprima la rivolta del “carrello selvaggio” andando a far la spesa nel supermercato Carrefour di Pavia. Ovviamente si tratta di una spesa simbolica che consiste nel riempire i carrelli di prodotti non deperibili per poi abbandonarli alle casse senza acquistare nulla poiché, se il padrone licenzia o sospende dal lavoro, di soldi ce ne sono pochi e quindi… bisogna lasciare.
Sono evidenti tanto il danno di immagine che si produce all’azienda mediante la controinformazione che viene fatta ai clienti durante queste “anomale spese” quanto l’inconveniente di dover poi rimettere in ordine negli scaffali migliaia di prodotti ammassati in decine e decine di carrelli abbandonati alle casse.
Il “carrello selvaggio” verrà più volte replicato a Pavia, ma poi si sposterà pure a Milano e dintorni. Il padrone “cooperatore” tenta di spezzare la volontà di lotta sia intensificando la repressione che cercando di imbottire il magazzino con lavoratori precari provenienti da altri cantieri.
È a questo punto che i 4 licenziati decidono di salire in alto sugli scaffali, un gesto estremo che mette in gioco la propria salute (uno è diabetico, un altro cardiopatico e là in alto le temperature sono torride, oltre i 40 gradi durante il giorno) e la propria vita.
Gli 11 giorni di “annidamento” sugli scaffali sono accompagnati da 11 giorni di sciopero solidale dei compagni con i 4, con i lavoratori che si barricano nel loro magazzino (sono pur soci della coop che ce l’ha in gestione), presidiando i loro mezzi per evitare che i crumiri mandati illegittimamente a sostituire gli scioperanti se ne impossessino.
Sono giorni in cui il livello di conflittualità cresce continuamente, ad un certo punto salgono in una trentina sugli scaffali per evitare lo sgombero da parte delle forze dell’ordine, sino a che davanti ai cancelli arrivano mogli e bambini e ciò produce un punto di svolta.
Le famiglie sedute davanti ai camion nel piazzale, i bambini rumorosissimi che giocano all’ombra dei Tir sono uno spettacolo sacrale, intoccabili da chicchessia.
È una comunità intera che si stringe attorno ad una lotta, donne punjabi in sari, marocchine, egiziane, tunisine in hijab, bulgare, romene, albanesi che si trasformano da “moglie di…” in “protagonista di”. Sono loro che decidono i tempi e i ritmi di quella lotta, che a turno tengono i bambini più piccoli, che condividono i cibi, che avanzano pure la proposta di fermarsi a dormire la notte.
L’insieme di tutte queste pratiche di conflitto crea una sinergia tra i vari piani di lotta, quello legale con le segnalazioni e le denunce a ITL, AST, Guardia di Finanza, quello di chi sta in alto sugli scaffali, quello degli scioperanti in basso, quello delle famiglie davanti al cancello, quello delle compagne e dei compagni di movimento che vengono a dare solidarietà nel piazzale.
Più il conflitto si articola e cresce in radicalità e complessità più si autovalorizza, più parla e si racconta al di fuori del magazzino unendo le persone sia dentro che fuori, raccogliendo anche la vicinanza di CGT e FSM.
Una lotta nella quale si poneva pesantemente in gioco la possibilità di schiantare vite, una rappresentazione estrema del dramma sociale della cacciata infame dal lavoro, ha avuto sempre una dinamica vitale, mai bloccata, sempre aperta alle trattative e alle sintesi, sempre molto partecipata collettivamente.
Sono state migliaia le testimonianze di appoggio e solidarietà che sono giunte ai lavoratori di Chignolo Po e sono arrivate prima che questa dura vertenza giungesse ad un esito positivo perché la manifestazione dell’efficacia sta sicuramente nel vincere, ma in questo paese in cui la classe operaia è martoriata conta anche il racconto che la classe fa di sé.
Al primo posto si deve mettere la semplice verità che gli interessi operai sono antagonisti a quelli dei padroni e del mercato, che il tormentone dei “sacrifici” da accollarsi – e subito – per consentire al profitto di poter distribuire – domani – un po’ di lavoro è una balla colossale. Assieme a questo occorre mettere in campo l’organizzazione di conflitti agiti con coerenza e radicalità, cercando sempre il limite più avanzato senza schiantarsi contro un muro.
La lotta di Chignolo Po ricorda il più bel romanzo sulla Resistenza italiana: “Il sentiero dei nidi di ragno” di Italo Calvino. Fatte le dovute differenze e proporzioni rimane lo spirito, Calvino fa raccontare una grande pagina di storia del nostro paese da un bambino perché quella verità, la verità di chi stava dalla parte giusta è talmente semplice che anche un bambino non deve faticare per convincere gli altri.
La verità che nella guerra di classe e nella battaglia combattuta a Chignolo chi ha ragione sono i facchini, è talmente semplice che l’hanno spiegata i loro figli davanti ai cancelli.
Non c’è bisogno di arrampicarsi sugli specchi, basta farlo sugli scaffali di un magazzino a 10 metri di altezza per 11 giorni in un afoso agosto.
Nessun commento:
Posta un commento