Lavorare meno per lavorare tutti, con più produttività. Le proposte di IG Metall e della premier finlandese riportano di attualità il dibattito. Da Il Sole 24 Ore.Lavorare meno per lavorare tutti, aumentando la produttività e possibilmente senza grosse riduzioni di salario. Rilanciato da Berlino e da Helsinki il messaggio, come una sirena agostana, affascina l’Europa, provata e preoccupata dalle ripercussioni occupazionali del coronavirus. Ma è una suggestione che rischia di essere fuorviante se concentrata semplicisticamente sul solo orario di lavoro.
La proposta di IG Metall: settimana di quattro giorni
A riaccendere il dibattito è stato a Ferragosto Jörg
Hofmann, presidente del potente sindacato tedesco IG Metall, che
rappresenta 2,3 milioni di lavoratori del settore metalmeccanico ed
elettrico, dove la crisi causata dal coronavirus mette a rischio 300mila
posti di lavoro. In un’intervista alla “Süddeutsche Zeitung”, Hofmann
ha preannunciato che, nel prossimo round negoziale per il rinnovo dei
contratti collettivi, proporrà l’introduzione di una settimana
lavorativa di quattro giorni, «con un certo livello di compensazione
salariale, in modo da renderla sostenibile per I lavoratori». In questo
modo – ha concluso, senza aggiungere troppi dettagli – «sarà possibile
salvaguardare i posti di lavoro» in un settore, quello automobilistico,
su cui peraltro già pesavano altre incognite legate a cambiamenti
strutturali come la transizione verso la mobilità elettrica.
La premier finlandese: passare da otto a sei ore
Lunedì 24 agosto è stata la volta della premier
finlandese Sanna Marin. Nel discorso con cui ha salutato la sua elezione
a presidente del Partito socialdemocratico, la giovane leader ha
rilanciato l’obiettivo di una riduzione dell’orario di lavoro da otto a
sei ore al giorno (ne aveva parlato già a gennaio, con in più anche un
riferimento alla settimana lavorativa di quattro giorni), non in
conflitto – ha detto – «con tassi più alti di occupazione»; ha quindi
sottolineato che bisogna «ridurre l’orario in modo da non indebolire i
livelli di reddito», citando a questo proposito studi e sperimentazioni
che suggeriscono che il taglio degli orari migliora la produttività,
senza gravare sul costo del lavoro per le imprese.
Garnero (Ocse): benefici per la produttività, non per l’occupazione
L’accento andrebbe in realtà posto proprio sulla
produttività più che sull’occupazione, come conferma Andrea Garnero,
economista del Dipartimento Lavoro e Affari sociali dell’Ocse. «Se
l’obiettivo è risolvere questioni contingenti di crisi (come quella
dovuta al Covid, ndr) – spiega – nella ricerca empirica non
vediamo effetti sull’occupazione; non vediamo cioè che, se si lavora
meno, quelle ore vengono redistribuite ad altri in maniera sostanziale.
Abbiamo invece qualche evidenza che ne beneficiano l’equilibrio
vita-famiglia e il benessere individuale del lavoratore e abbiamo
qualche evidenza di un effetto positivo sulla produttività. Quello che
dice la premier finlandese ha senso, perché parla di produttività più
che di lavorare meno e lavorare tutti. È una sorta di processo iterativo
in cui inizialmente si riduce l’orario, in parte si riducono i salari
ma ci sono anche dei guadagni di produttività che possono di nuovo
essere redistribuiti sotto forma di salari; e quindi, nel medio periodo,
si dovrebbe arrivare a non intaccare il salario senza aumentare il
costo del lavoro».
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