A proposito di Covid-19 si è parlato tanto e si continua a parlare di asintomatici — e anche con una certa apprensione — perché sembravano essere quelli che diffondono la malattia fra l’altro senza saperlo. E se invece fossero proprio loro ad aiutarci a venire a capo della pandemia di Sars-CoV-2?
infosannio.com Corriere della Sera Giuseppe Remuzzi
Cominciano a chiederselo in tanti e paradossalmente l’idea viene da una… prigione; o meglio da quello che sta succedendo in alcune prigioni degli Stati Uniti. Secondo il «Washington Post» in Arkansas, North Carolina, Ohio e Virginia le persone infette fra i detenuti sono più di tremila: ebbene, il 96 per cento di loro non ha sintomi. È uno dei misteri di questo virus che cominciamo a conoscere un po’, ma non del tutto ancora. Perché per esempio ci sono persone che vivono o lavorano a contatto di chi è malato, si infettano, ma non hanno sintomi e non si ammalano? Se riuscissimo a capire cos’è che li protegge potremmo certamente avere un’arma in più nei confronti di questo virus.
Monica Gandhi, esperta di malattie infettive dell’Università di San Francisco in California, s’è subito chiesta come mai ci fosse un numero così alto di infezioni asintomatiche. Questa la sua conclusione: «Non è detto che sia sempre un problema, tutt’altro; potrebbe essere un bene per l’individuo e per la società».
Davvero?
Forse sì. Per poterlo dimostrare la dottoressa ha raccolto tutte le informazioni possibili sugli asintomatici partendo dai dati del Centro per il Controllo e la Prevenzione delle Malattie di Atlanta. Loro avevano già visto che il 40 per cento dei contagiati non ha sintomi, forse per via delle mascherine. Ma ci potrebbero essere altre ragioni: la conformazione dei recettori che il virus usa per entrare nelle cellule, per esempio, oppure un assetto genetico particolarmente favorevole. O forse gli esperti potrebbero avere sbagliato: «Sars-CoV-2 — ripetevano — è un virus del tutto nuovo e il nostro sistema immune è stato colto di sorpresa; non abbiamo armi per difenderci».
Ma questo potrebbe non essere vero; sempre più lavori — tutti recentissimi — avanzano l’ipotesi che una parte rilevante della popolazione sia già stata esposta in passato a qualcosa che assomigliava a Sars- CoV-2 prima ancora che il virus fosse stato scoperto. Se fosse così vorrebbe dire che fra noi ci sono persone che, senza essersi ammalate né vaccinate, sono già immuni per conto loro, almeno un po’.
Va detto che il nostro sistema immune è una formidabile macchina per i ricordi, sa riconoscere tutto quello che ha visto in passato; non solo, ma a ogni nuovo incontro la sua memoria si rafforza e si espande. E tutto questo grazie a certe cellule che gli immunologi chiamano memory T cells (sarebbe: linfociti della memoria) che viaggiano instancabilmente nel nostro torrente circolatorio per difenderci dagli invasori e nel caso specifico potrebbero ricordare di avere visto in passato qualcosa di molto simile a Sars-CoV-2. Per esempio i coronavirus del raffreddore, che condividono con il virus di Covid-19 certe proteine non proprio identiche ma molto simili, come dimostra un bellissimo lavoro appena pubblicato su «Science».
Ma non si può nemmeno escludere che siano le proteine associate alle vaccinazioni infantili che inducono la formazione di cellule T della memoria che poi riconoscono Sars-CoV-2 come qualcosa di familiare.
Francis Collins, il direttore di National Institutes of Health, ne è convinto, tanto da avere pubblicato un post in questi giorni per sostenere il ruolo dei linfociti T della memoria nel proteggere dall’ammalarsi tanti che sono stati contagiati dal virus.
Del resto come si spiegherebbe altrimenti il fatto che in Svezia — che non ha fatto lockdown — il numero di ammalati diminuisce? Dev’essere per forza legato a una immunità pre-esistente . Ed è così in altre aree del mondo anche molto povere, dove la quarantena semplicemente non la si poteva fare. I test sierologici che misurano gli anticorpi contro Sars-CoV-2 ci dicono che quelli che hanno incontrato il virus sono molti di più di quelli che pensavamo, ma forse sono ancora di più quelli che sarebbero già stati immuni grazie alle cellule della memoria.
Si apre insomma un campo del tutto inesplorato, ma forse più rilevante di quello su cui ci siamo concentrati finora.
«Aspettiamo conferme», dice l’immunologo americano Anthony Fauci, «ma è possibile che sia così e sarebbe davvero una buona notizia». Fauci — che non ha mai risparmiato critiche alla gestione della crisi sanitaria da parte dell’amministrazione di Donald Trump — pensa più al ruolo della carica virale per spiegare perché qualcuno si ammala gravemente mentre altri, pur frequentando gli stessi ambienti, hanno poco o nulla.
Bisogna anche considerare che gli anticorpi se ne vanno presto, mentre l’immunità cellulare rimane più a lungo anche se è più difficile da studiare. Lo hanno fatto ricercatori di San Diego in California su vecchi campioni di sangue da donatori e hanno scoperto che nel 40-60 per cento di quei campioni si potevano trovare cellule T capaci di riconoscere Sars-CoV-2. Il virus allora non c’era ancora, per cui bisogna per forza pensare a una sorta di immunità pre-esistente.
La conferma viene da studi molto simili fatti in Olanda, Germania e Singapore con risultati assolutamente sovrapponibili.
C’è un altro aspetto su Covid-19 che merita grande attenzione: quello dei bambini. Loro hanno più virus nel naso e in gola degli adulti, ma raramente si ammalano e non si è ancora capito se possono contagiare.
Come si spiega?
Potrebbero avere cellule della memoria anche delle vaccinazioni recenti. Per questa ragione Andrew Badley e i suoi colleghi della Mayo Clinic hanno affrontato il problema sistematicamente per scoprire che, se nei cinque anni precedenti sei stato vaccinato, hai qualche forma di immunità anche contro Sars-CoV-2 e questo vale per almeno sette vaccini ma specialmente per quelli contro lo pneumococco (che riduce il rischio di ammalarsi di Covid-19 del 28 per cento) e contro la polio (che lo riduce del 43 per cento).
Cambia il paradigma insomma: d’ora in poi invece di guardare agli asintomatici come persone che diffondono la malattia, li si potrebbe guardare con gratitudine. Chissà che un giorno non siano proprio loro a liberarci da Covid-19 attraverso una immunità di popolazione fatta anche da tutti quelli che hanno gli anticorpi ma forse ancora di più da chi ha cellule della memoria specifiche, che da sole limiterebbero moltissimo la diffusione del virus anche in aree dove i positivi non superano il 10-20 per cento della popolazione.
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