Non comprendendo alcuni passaggi chiave della fisica contemporanea e in questo non mi sento troppo diverso da coloro che, all’epoca di Galileo, si incaponivano a sostenere che la Terra fosse al centro dell’Universo.
comune-info.net Franco Lorenzoni
“Il mondo non è fatto di corpi, di oggetti, ma di processi, di relazioni. Ogni oggetto è un gruppo di fenomeni e a livello microscopico ci sono particelle che esistono solo se sbattono da qualche parte, se entrano in relazione, altrimenti non esistono. Non sono possibili previsioni certe, solo probabilità”.
Questo modo di vedere di Werner Heisemberg, raccontato da Carlo Rovelli, non era stato mai pensato prima. Se ci riflettiamo con calma e lo accogliamo pienamente, credo cambi un bel po’ di cose.
La fisica, anche a chi fatica a comprenderla come me, offre una potente metafora di noi stessi e di ciò che viviamo in classe. Quanti bambini e ragazzi restano invisibili finché non sbattono da qualche parte? Quanti sbattono apposta perché qualcuno si accorga di loro, o sbattono forte con gli altri o con ciò che hanno intorno perché qualcuno avverta la profondità dei conflitti e delle sofferenze che li abitano? Il punto dov’è più difficile seguire Heisemberg, sta nel fatto che, a livello microscopico, non è che l’oggetto quando non sbatte non si veda e non si senta, è che proprio non c’è. Esiste solo nell’impatto, nell’attrito, nella relazione, altrimenti non esiste. Il mondo non è fatto di oggetti, di corpi e di cose, così come ci appare, ma solo di relazioni. Questo ci dice la fisica contemporanea e questo per me è sconvolgente e incomprensibile.
Bertold Brecht, quando mise in scena il suo Galileo Galilei, trasformò la rivoluzione copernicana in metafora della fine di ogni autorità assoluta, indiscussa e inamovibile. Una rivoluzione scientifica, fortemente osteggiata dall’autorità della Chiesa, annunciava sconvolgenti rivoluzioni sociali a venire. Mi piacerebbe pensare che le scoperte della meccanica quantistica, insieme alle altre rivoluzioni della fisica contemporanea che minano alla radice il nostro modo di concepire lo spazio e il tempo, ci aiutassero a comprendere che la nostra vita non solo è tessuta e arricchita dalle relazioni che intrecciamo, ma è relazione, è solo relazione nella sua essenza. Non so bene come, ma sento che se ne avessimo piena percezione e cognizione, capiremmo meglio perché il dialogo, che vive solo nel momento dell’incontro ed è luogo di mezzo dove la mia idea si intreccia con la tua e insieme si trasformano, potrebbe essere finalmente riconosciuto come l’architrave capace di reggere ogni costruzione educativa, duemilaquattrocento anni dopo Socrate.
Emilia, nel corso della mia ultima quinta elementare, mentre discutevamo del film sulla vita del liberatore dell’India, ha detto: “Gandhi non dava ragione a uno ma a due”, una sintesi folgorante di cosa sia la nonviolenza, che è insieme un modo di porsi e un modo di pensare che ci aiuta a non restare imprigionati nella fortezza dell’io e nelle tante altre mura e recinzioni che troppi continuano a reclamare a gran voce. La storia del nostro incontro con Gandhi in quinta elementare l’ho narrata ne I bambini ci guardano. Una esperienza educativa controvento (Sellerio 2019). E io adesso mi vado a leggere Helgoland di Carlo Rovelli, in cui credo riuscirà a spiegare anche a me, con la limpidezza di cui è capace, Heinsemberg e le astrusità della fisica quantistica.
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