Nel 1980 avevo 10 anni. I miei ricordi degli anni di piombo sono ricordi d’infanzia.
Ricordo che per noi bambini era normale sentire parlare di attentati, di sequestri e di bombe. Pensavamo fosse naturale tutta quella violenza, la imitavamo in cortile, nelle piccole guerre fra bande.
Non dico ci fosse soltanto questo, per fortuna i momenti belli erano infiniti e fantastici, ci sfinivamo dal gioco con poco o niente, un pallone o un elastico sulla strada, nei prati, sui muretti.
La nostra normalità era questa, una via di mezzo tra la paura e la gioia, e una certa abitudine ai modi e al linguaggio della violenza. Così era la vita, erano la società e lo Stato stesso a mostrarcelo. Pensavamo alla politica come a qualcosa di brutto o di troppo grosso, un pericolo da cui tenersi ben distanti.
Mio padre era un operaio, leggeva la Gazzetta del Popolo e nella vita praticava il bar, le bocce, la corsa e la lotta di classe. Era un uomo buono.
Mia madre e mia nonna avevano paura della politica, dopo il fascismo e la guerra. Quando lui a tavola parlava di padroni e proletari, loro tremavano.
Al TG si vedevano immagini di sangue in bianco e nero. Sì parlava molto di B.R., non ricordo si parlasse di N.A.R, di Avanguardia Nazionale o di Ordine Nuovo. Ma in TV guardavamo anche Orzowei, Furia cavallo del West, UFO Robot, Rémi e la sua scimmietta Joli coeur. Eravamo bambini, in fin dei conti.
Noi figli di operai siamo cresciuti così negli anni di piombo, in una normalità popolare sempre in bilico tra il sogno e la violenza, tra slanci di libertà e frenate di autoritarismo. Allora non sapevo perché, ma oggi lo so.
Oggi so cos’è stata la strategia della tensione e capisco le ragioni di tanto orrore. Le stragi di Stato servivano a farci crescere nel terrore, a segnare la nostra normalità con il trauma della violenza, a frenare il nostro bisogno di libertà e di uguaglianza con le bombe.
Ci hanno segnato, sì. Ma non ce l’hanno fatta a distruggere i nostri sogni.
Non dimentichiamo che furono fatte per mano dei fascisti.
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