Alle discussioni in corso sull’alleanza tra Pd e M5S manca una riflessione sul passato dei democratici e sulla loro nascita.
huffingtonpost.it Enzo Carra
Alle discussioni in corso sull’alleanza tra Pd e M5S manca una riflessione sul passato dei democratici e sulla loro nascita. Una riflessione che può servire a chi oggi è incaricato di decidere le mosse del Pd. La vicenda che occupò i partiti fondatori del Pd, Ds e Margherita per tre anni, dal 2003 al 2006, fu quella del “trattino”. La lineetta che serviva a tenere uniti ma distinti gli ex comunisti e gli ex democristiani, difesa strenuamente da alcuni dei dirigenti di una parte e dell’altra e combattuta altrettanto strenuamente da chi pensava che la ricostruzione dell’Ulivo, la coalizione finita in mille pezzi dopo la caduta di Prodi nell’ottobre del 1998, non potesse ricostituirsi se non a patto di saldare in unico partito le forze maggiori del centrosinistra. Erano in vista le elezioni del 2006 e bisognava fare in fretta, così risparmiando sui tempi del confronto si forzò la mano ricorrendo alla retorica e allo stato di necessità.
La caduta del “trattino” era la strada per il dopo Berlusconi, che aveva vinto e governato fino al 2006. Sbrigativamente le due gambe, quella di sinistra difesa orgogliosamente da D’Alema, e quella moderata della Margherita, difesa un po’ meno orgogliosamente dai dirigenti moderati rimasti in campo (non erano soltanto ex democristiani), vennero amputate in un’unica operazione. Per eseguirla, il confronto e l’integrazione di valori e tradizioni, teoria e prassi storicamente avversari e comunque molto distanti tra loro, vennero sorvolati con una certa abilità.
C’era forse in quell’operazione, oltre la esigenza di ritrovarsi uniti dietro Romano Prodi nel secondo duello con Berlusconi, la convinzione che nel “partito nuovo”, altroché nuovo partito, funzionasse la “contaminazione” che, lanciata dalla fantasia di Massimo Cacciari, aveva effettivamente ottenuto discreti risultati nella formazione della Margherita guidata da un ex radicale di simpatie socialiste, Francesco Rutelli, nella quale confluivano democristiani di tutte le osservanze, ambientalisti, repubblicani, radicali.
Il breve viaggio che portò alla fondazione del Pd cominciò malino, con le elezioni del 2006. Nei mesi prima del voto i sondaggi avevano dato largamente in testa il centrosinistra e i partiti di governo erano rassegnati alla sconfitta. Romano Prodi, che aveva stravinto con oltre tre milioni di voti le primarie dell’ottobre 2005, era il candidato dell’Unione, una sottomarca dell’Ulivo, dovette attendere la notte del 10 aprile quando, arrivati i ventimila voti della Napoli di Antonio Bassolino a farlo passare in testa, si ebbe anche il rifiuto del ministro degli Interni Pisanu di invalidare le elezioni, come gli aveva ordinato Berlusconi. Il governo dell’Unione durò meno di due anni. I casi di Mastella, uscito dalla maggioranza a causa di un’indagine giudiziaria e del “dipietrista” Sergio De Gregorio che prese la stessa strada, ma per più croccanti ragioni, ne segnarono la fine all’inizio di febbraio del 2008.
Pochi mesi prima, il 27 ottobre 2007, era stato fondato il Pd con il lungo discorso di Veltroni al Lingotto e forse non era stata una grande idea mettere in campo un partito nuovo quando il governo dell’Unione faticava a tirare avanti. Non si può neanche affermare che i tempi fossero maturi per la nascita del partito (nuovo). Non c’era stato tempo, né voglia di approfondire e tantomeno risolvere i “nodi”, non era stata neanche prevista la “contaminazione”. Si partì a freddo, sulla base di un rutilante pacchetto di citazioni e occhieggiamenti per accontentare il colto e l’inclita. In quella specie di santeria politica le diverse parti fondatrici del Pd si tennero stretti a lungo i propri cari ricordi e le proprie gerarchie interne. Quindi la gelata, il partito a “vocazione maggioritaria”, bell’e pronto per un bipolarismo all’americana, alle elezioni dell’aprile 2008 perse, ma con un risultato mai più raggiunto. L’anno dopo, sconfitto alle regionali in Sardegna, Veltroni si dimette da segretario democratico, creando non pochi problemi alla sua creatura politica. Poco dopo scompare dalla scena politica del nostro paese anche il bipolarismo, per il quale era stato ritagliato quel partito.
Oggi le cose sono cambiate radicalmente. Il Pd accetta la scomposizione, crede anzi, come fa Bettini, nella ricostruzione di una “gamba” centrista tra Renzi, Calenda, Bonino, una specie di nuova Margherita e non è interessato a ricomporre le due scissioni, da sinistra e da destra che ha già sofferto. Interesserebbe sapere perché Bettini non pensi innanzitutto alla ricostruzione del Pd prima di quella di una gamba moderata. Viene il sospetto che in questo momento il Pd impegnato com’è nello stringere una difficile alleanza (ma quando mai le alleanze in politica sono state facili?) con i Cinquestelle guardi ad una riedizione dell’Ulivo. Certo, manca Prodi, ma c’è Giuseppe Conte. E poi chissà, magari a un soggetto politico nuovo, ci vorrà del tempo ma il “trattino” tra i due partiti, con l’aiuto di Grillo, si può sempre abbattere. Nel patrimonio genetico del Pd c’è la disinvoltura di mettere molte cose insieme ed è invidiabile la levità con la quale sa realizzare atti apparentemente contro natura. Il sì al taglio dei parlamentari, dopo tre no, è un esempio di quanto sia rimasto nel Pd di quel patrimonio genetico. Lasciare gli eretici per abbordare i neofiti: la politica non è più riflessione ma sovrapposizione. La politica è copula.
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