Stefano Righetti, “Eco Inciviltà”, Mucchi, Modena, 2020 Alexander Langer, “Non per il potere”, Chiarelettere, Milano, 2012 |
micromega Giorgio Pagano
“Eco Inciviltà” di Stefano Righetti, insegnante di Estetica, è un
pamphlet filosofico ecologista appena pubblicato. Scritto come un
racconto, contiene una critica molto informata e proprio per questo
serrata e tagliente dello sviluppo costruito dall’ “essere umano
civile”.
Per gli “uomini civili” quel che più conta è il
denaro: tutto, per loro, “dev’essere trasformato in qualcos’altro”,
“finché di trasformazione in trasformazione tutto sia poi trasformato a
sua volta in denaro”.
L’analisi del libro ripercorre
rapidamente la storia degli “uomini civili”, dal motore a scoppio al
petrolio e al carbone, fino alla plastica. È nel secondo dopoguerra che
il consumismo fa sparire tutte le idee, le peggiori e le migliori:
“Avere un’identità dipendeva nel mondo nuovo non da ciò che si era (con
molta fatica) diventati, o dal modo in cui ci si rassegnava a vivere, ma
da ciò che si poteva comprare. […] In modo lento, ma inesorabile, anche
gli ideali migliori, come l’aspirazione a un mondo più giusto,
sarebbero scomparsi dalla storia. E ciò portò un problema nuovo, se
vogliamo: se le idee negative si possono combattere con le idee
positive, l’assenza di idee è al contrario un vuoto che nessuna idea
potrà mai colmare: si annaspa soli tra le cose, si cerca consumando
tutto ciò che si può consumare, e si aspira a una sazietà che rimane, in
quanto tale, insaziabile perché è una ricerca di niente, un andare
senza meta né scopo”.
Il consumismo degli “uomini civili” ha come conseguenza l’attacco alla natura: inquinamento atmosferico, deforestazione, fino alla “distruzione climatica”, certificata dalla scienza ma contestata da un’altra scienza: “[…] una parte del potere industriale e del potere politico e finanziario che chiamiamo il Capitale si è […] schierata contro le previsioni sul clima, cercando in tutti i modi un’altra scienza che contraddicesse la scienza, una scienza che dicesse quello che andava bene alle banche e alle industrie che quelle banche finanziano”.
In questo modo è avvenuto che “la scienza è diventata a un certo punto (per una parte interessata) un’opinione”: “[…] un fatto epocale per una civiltà che si è fondata e sostenuta sul principio che la scienza fosse il luogo della verità. Certo, di una verità sempre emendabile e perfino revocabile, ma la cui revoca esigeva in ogni caso la ‘prova’ del metodo scientifico”.
L’altro punto d’arrivo del consumismo degli “uomini civili” è l’idea che la natura non ha più in sé “alcuna autonoma realtà”: “La natura è già da sempre parte della cultura, e a ben vedere ne è anzi così parte da esserne sostanzialmente un prodotto, un’invenzione a sua volta culturale. Motivo per cui, non ha alcun senso pensare (o dire) di dover salvaguardare la natura, come se si potesse realmente distinguere una natura in quanto tale dalla cultura in cui essa è indicata, nominata, e nella quale la natura si è a sua volta evoluta. Perché in questi termini la natura non è altro che un’ingenua astrazione”.
La conseguenza di questa impostazione, “se dal punto di vista della cultura l’autonomia della natura non esiste”, è che “anche il problema ecologico diventa a sua volta relativo”.
Eppure la “distruzione climatica” ci costringe a vedere l’opposto: la natura “torna a farsi improvvisamente estranea e libera” e “prende nuovamente le sembianze […] di una differenza e di un’alterità minacciosa e indomabile”, fino al “nuovo virus” che emerge da “una natura sempre più modificata e assoggettata, e capace per questo di farsi improvvisamente estranea e selvaggia, di diventare l’ulteriore minaccia di un modello di sviluppo che si credeva in grado di addomesticare per sempre ogni residuo di differenza, ogni margine di libertà e di selvatica autonomia, e che si scopre invece fragile e vulnerabile, al di là di ogni presupposta certezza”.
Le conclusioni di Righetti sono all’insegna del pessimismo. L’aggettivo “sostenibile” dietro a “sviluppo” è falsamente rassicurante, perché lo sviluppo non può conoscere limiti: “[…] appurato che l’attuale modello di sviluppo non può darsi per definizione alcun limite, perché l’unico significato ammesso (fino a questo momento) della parola ‘sviluppo’ implica già, fin dalla sua origine moderna, l’impossibilità stessa di un ‘limite’ (dal momento che ‘nessun limite’ è stato, ed è, ancora oggi, l’unico principio regolatore della cultura produttiva mondiale: l’anelito e la ragione del felice volo di Icaro alla conquista del sole), di fronte alla distruzione climatica e naturale bisogna ammettere che i diversi richiami morali non avranno probabilmente alcun effetto, poiché rimangono privi di un interlocutore reale. E, soprattutto, perché non è data alcuna autentica possibilità, all’interno dell’attuale modello economico-sociale, affinché l’umano-Icaro-civile possa invertire la rotta, riconsiderare i suoi limiti e la fragilità delle sue ali, facendone il punto di svolta per una diversa idea di sviluppo”.
L’analisi e le domande del testo di Righetti mi hanno ricondotto ai testi di un pensatore originalissimo, critico radicale dello sviluppo: Alexander Langer. Altoatesino, fu tra i promotori del movimento politico dei Verdi in Italia e in Europa, dialogò intensamente con la cultura della sinistra, con l’area liberal-radicale e con l’impegno cristiano e religioso, si impegnò molto per la “conversione ecologica” della società e dell’economia e per una politica di pace. Dopo la caduta del muro di Berlino Langer aumentò via via il suo impegno per contrastare i nazionalismi e per la conciliazione interetnica nei territori della ex Jugoslavia, prima e dopo i massacri. Decise di interrompere la vita vent’anni fa, il 3 luglio 1995, all’età di 49 anni. Non si può dire che lo fece “per la Bosnia”, ma certo pesò quella sconfitta, sua e di tutti. Se ne andò più disperato che mai. Ma i suoi pensieri, tenaci, si sono scavati le loro vie, e si sono conquistati un peso culturale e politico crescente, come dimostra anche il pamphlet di Righetti.
Ho scelto, tra le raccolte di scritti di Langer, “Non per il potere”, pubblicata nel 2012.
In uno scritto del 1991 Langer denunciava: “la corsa sfrenata al profitto, all’espansione, alla crescita economica, alla dissipazione energetica e alimentare, alla supermotorizzazione, alla montagna ormai ingestibile dei rifiuti”.
E proponeva: “un digiuno, una scelta di autolimitazione, del ‘vivere meglio con meno’, è oggi necessario e urgente”.
Anche Langer metteva in guardia, in uno scritto del 1994, dalla formula magica dello “sviluppo sostenibile”: “Nella formula è racchiusa una certa consapevolezza della necessità di un limite alla crescita […] ma il termine ‘sviluppo’ (o ‘crescita’, come in realtà si dovrebbe dire senza infingimenti) è rimasto parte del nuovo e virtuoso binomio”.
Così come metteva l’accento, in un testo del 1989, sulla necessità di assegnare alla natura la dignità di realtà autonoma, di entità avente diritti: “Dalla faticosa lotta degli uomini contro la natura siamo passati a una situazione in cui la natura quasi non ce la fa più a difendersi dall’uomo”.
Bisognava quindi “congedarsi dalla corsa verso lo sviluppo”: “Ci troviamo […] al bivio tra due scelte alternative: tentare di perfezionare e prolungare la via dello sviluppo […] o invece tentare di congedarci dalla corsa verso il ‘più grande, più alto, più forte, più veloce’ chiamata sviluppo per rielaborare gli elementi di una civiltà più ‘moderata’ (più frugale, forse, più semplice, meno avida) e più tollerabile nel suo impatto verso la natura, verso i settori poveri dell’umanità, verso le future generazioni e verso la stessa ‘biodiversità’ (anche culturale) degli esseri viventi”.
Langer parlava di “scelta tra espansione e contrazione - ben sapendo che per chi si trova sull’aereo in volo non esiste un immediato freno d’arresto, ma semmai solo la faticosa ricerca di un atterraggio morbido” (1991).
In un testo del 1992 Langer scriveva di una “rivoluzione culturale” per “una ragionevole e graduale decrescita”.
Il termine “rivoluzione culturale” era collegato a quello, centrale nel suo pensiero, di “conversione ecologica”, dove la prima parola stava a indicare che la “conversione” deve essere anche soggettiva e non solo oggettiva, deve riguardare cioè anche l’elemento soggettivo della modifica dei nostri personali stili di vita, non solo l’elemento oggettivo della modifica degli assetti produttivi. Nel 1991 Langer scriveva: “La ‘conversione ecologica’ è cosa molto concreta. Esempi possibili si trovano in tutti i campi, dall’uso di detersivi meno inquinanti alla rinuncia frequente dell’automobile, dalla sistematica separazione dei rifiuti per recuperarne il massimo e non appesantire la terra con residui ‘indigesti’ alla riduzione dei nostri consumi energetici. Occorrono comportamenti personali, ma anche ‘decreti del re’”.
Anche Langer riteneva che la svolta ecologica fosse difficile, e si domandava come potesse risultare desiderabile: “la migliore motivazione per una scelta di ‘conversione ecologica’ non è necessariamente la paura delle catastrofi […], né solo la pur necessaria spinta etica […]. ma anche una consapevole e qualificata volontà di vivere bene”.
“Non solo -scrisse nel 1989- ‘in nome dei figli’, ma anche per interesse e amore proprio”. Le ragioni “altruiste” vanno cioè ricongiunte con le ragioni “egoiste”.
Qualsiasi società umana può beneficiare di benessere solo usufruendo delle risorse naturali e degli straordinari “servizi” che i sistemi naturali offrono quotidianamente e gratuitamente a noi tutti: la rigenerazione del suolo, il ciclo e la salubrità dei sistemi idrici, la purificazione dell’aria, la composizione chimica dell’atmosfera, i servizi degli impollinatori che consentono l’agricoltura… Il nuovo concetto di benessere vale per il futuro e già per l’oggi.
Contro il “demone dello sviluppo” serve, scrisse Langer nel 1989, una “consapevole autolimitazione” che “non potrà affermarsi senza una forte spiritualità”.
I due aspetti della “conversione ecologica” proposti da Langer sono indissolubilmente legati. Ma mentre la “conversione” produttiva è necessariamente un processo graduale e programmato, la “conversione” personale è una scelta radicale, che mette in discussione la totalità dei nostri rapporti con gli altri e con il mondo. Entrambe le “conversioni” stentano a farsi strada. Ma è dalla seconda -per molti versi la condizione della prima- che bisogna partire: da un coinvolgimento personale, molecolare delle persone, che poi scelgono l’iniziativa collettiva, la condivisione, l’aggregazione, l’autogoverno. Casa per casa, tetto per tetto, strada per strada, campo per campo, fabbrica per fabbrica. In una “lunga marcia attraverso le istituzioni” che arrivi a coinvolgere i governi.
(10 agosto 2020)
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