Un’indagine promossa dall’Istituto Superiore di Sanità conferma ciò che la stampa sta denunciando da settimane: nelle case di riposo c’è stato un fortissimo incremento del tasso di mortalità e le strutture residenziali sono state incubatrici di nuovi contagi.
Le
denunce delle ultime settimane, arrivate tramite inchieste
giornalistiche quando non attraverso l’apertura di veri e propri
fascicoli della magistratura, trovano finalmente un riscontro nei numeri
ufficiali. Dal 24 marzo al 15 aprile
l’Istituto Superiore della Sanità, in collaborazione con il Garante
nazionale detenuti, ha contattato 3276 Residenze per anziani (Rsa), il
96% del totale delle strutture esistenti sul territorio nazionale, e i
risultati di questa indagine
sono stati presentati ieri in una conferenza stampa dell’Iss. Il
ritratto che ne esce sembra essere quello di una situazione fuori
controllo, con le strutture di assistenza per anziani che non hanno
fatto altro che aumentare e diffondere i contagi sia tra i pazienti che
fra gli operatori.
«È
come se gli utenti delle Rsa fossero stati isolati, ma al contrario, è
come cioè se fossero stati rinchiusi assieme al virus», ci raccontavano
fra la fine di
marzo e l’inizio di aprile alcuni operatori sanitari della bergamasca.
«Alcune realtà si sono accorte rapidamente della propagazione di
Covid-19 e hanno agito di conseguenza arginando il danno, altre sono
state magari più fortunate e si sono ritrovate con un basso numero di
contagi, ma nella maggior parte il virus ha fatto schizzare la
mortalità. Tanti pazienti sono deceduti senza poter avere più contatti
umani, stentando magari a riconoscere gli operatori che nel frattempo
indossavano gli indumenti di protezione. In generale, le Rsa sono state
abbandonate a se stesse».
Infografica dell’indagine Iss “Survey nazionale sul Covid-19 nelle strutture residenziali e socio sanitarie“
La
riprova è forse anche nel basso numero di strutture che hanno deciso di
collaborare nell’indagine intrapresa dall’Iss. Tra le Rsa interpellate
hanno risposto infatti soltanto in 1082, pari al 33% delle strutture
contattate. La percentuale di risposta, però, non è stata univoca da
regione a regione. Così, si va dal 12% della Liguria, dove su 112 case
per anziani censite hanno risposto in 14, al 40% della Lombardia, dove
sono presenti 678 strutture accreditate circa (il 20% del totale di
quelle esistenti in Italia), al 10% della Campania, regione in cui su
121 residenze per anziani presenti hanno collaborato con i ricercatori
dell’Iss soltanto in 13. È andata meglio, si fa per dire, in Abruzzo,
Emilia Romagna, Toscana e Puglia, dove si sono raggiunte percentuali di
risposte vicino al 50%.
Le
domande miravano a individuare il reale ammontare dei decessi dovuti
alla Covid-19, posto che si è ormai da tempo ipotizzato che quelli
accertati tramite tampone rappresentino solo una “punta dell’iceberg”:
l’Iss ha chiesto chiesto numero dei decessi nel periodo di riferimento,
dei pazienti Covid-19 positivi (con conferma da tampone), i residenti
ospedalizzati, totali, positivi, e con sintomi simil-influenzali, per
ogni regione. La fotografia che ne viene fuori è quella di una strage,
con i dati che restano parziali. Si scopre così che, in tutta Italia, il
numero totale dei decessi nelle case di cura nel periodo di riferimento
analizzato è di oltre seimila persone, precisamente pari a 6773, fino
alle 20 del 15 aprile, data a cui risalgono gli ultimi rilievi. Il 50%
dei decessi è avvenuto nelle case di cura lombarde, oltre 3000 morti, di
cui soltanto 166 morti sono morti ufficialmente a causa del virus (con
conferma da tampone). Considerando il dato complessivo sono 364, finora,
i morti Covid-19 positivi: il 3,3% del totale dei decessi nell’ultimo
mese nelle Rsa.
Grafico dell’indagine Iss “Survey nazionale sul Covid-19 nelle strutture residenziali e socio sanitarie“
Ma, incrociando
i numeri dei pazienti deceduti e dei sintomi loro ascrivibili, sembra
configurarsi un dato molto più alto. In questo modo, ad esempio, in
Lombardia il totale delle persone decedute a causa di sintomi da
Covid-19 sono oltre il 50%, mentre il tasso ufficiale di mortalità da
Covid-19 è pari al 6,6%. Va così un po’ per tutte le regioni. In Veneto,
per esempio, su oltre 1000 morti nelle case di cura, ufficialmente,
soltanto poco più dell’1% sono quelli morti di Covid, mentre se si
considerano i sintomi, si arriva al 20%. In Piemonte, su 684 anziani
morti ascrivibili e dunque positivi Covid-19 sono soltanto 18. In Emilia
Romagna, su 520 decessi totali, sono morte 58 persone a causa del
virus, mentre più di 500 mostravano i sintomi.
È
il segno evidente che i tamponi sui morti nella maggior parte dei casi
non sono stati effettuati. Addirittura sono risultate regioni come la
Campania, il Lazio e l’Abruzzo con un solo decesso positivo da Covid-19,
a fronte di decine di “ospiti” che hanno perso la vita in quel lasso di
tempo con sintomi simil-influenzali. Nell’aggregato, dunque, sono il
40%, quasi tremila, le persone morte in meno di un mese nelle case di
cura italiane, comprendendo coloro che avevano i sintomi e quelli a cui è
stato fatto il tampone. È l’anatomia di una strage, che assume
particolari inquietanti nel periodo compreso tra il 16 e il 31 marzo,
entro il quale muoiono, nel periodo più lungo compreso tra l’1 di febbraio e il 15 aprile, il 36% degli anziani deceduti. Una percentuale che nel caso della Lombardia arriva al 43%.
«In
tante strutture della zona, la tendenza era quella di avere 40-50
decessi ogni cento pazienti nell’arco di un mese», raccontano sempre gli
operatori sanitari della bergamasca. «Una percentuale certamente più
alta del normale e quasi certamente dovuta alla diffusione del virus,
nonostante ci sia il paradosso di Rsa che con un tasso di mortalità
simile non hanno però dichiarato nessun morto da Covid-19, perché
impossibilitate a effettuare i tamponi. Ma il problema del contagio si
estende ovviamente anche a noi operatori. Capita di avere paura ad
andare al lavoro, se non si è adeguatamente protetti o, comunque, si ha
poi paura di infettare i propri famigliari. Alcuni di noi si sono
volontariamente isolati dai propri conviventi per andare a vivere in
appartamenti isolati, assieme ad altri operatori».
Che
qualcosa, dunque, non abbia funzionato all’interno delle Rsa italiane,
lo stanno ipotizzando in queste ore anche le decine di inchieste aperte
in varie procure italiane in seguito agli esposti presentati dai
famigliari e dagli avvocati degli anziani deceduti. Quel che è certo è
che dal documento “Survey Nazionale sul Covid-19 nelle strutture
residenziali e sociosanitarie”, presentato ieri nella conferenza stampa
che si è tenuta all’Istituto Superiore della Sanità, sono emerse anche
conferme alle numerose criticità all’interno delle case di cura che
potrebbero aver favorito il contagio.
Alcuni
dati, su tutti: l’82% delle Rsa ha dichiarato di non avere Dpi
adeguati, il 25% di aver riscontrato difficoltà nell’isolamento dei
pazienti, infine, circa il 50% l’impossibilità di esecuzione dei
tamponi. Dati che fanno il paio con il fatto che alla data di ieri sono
risultati più di 16000 gli operatori sanitari che si sono ammalati. Tra i
quali oltre 11.000 sono quelli impegnati nel contesto assistenziale,
più di 8.000 i positivi tra quelli impiegati nell’assistenza ospedaliera
e nel servizio del 118, infine che oltre 400 sono, attualmente, gli
operatori infettati nelle case di cura per anziani. È la fotografia di
una strage tutta italiana. Eppure, sempre nella mattinata di ieri, al
Tgr il Presidente della Regione Lombardia Attilio Fontana dichiarava: «Sulle Rsa credo proprio che non abbiamo sbagliato niente».
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