Forse
siamo d’accordo su due fatti. Il primo: che è la crisi climatica e
ambientale frutto dell’aggressione umana (capitalista) alla natura la
causa principale di fenomeni come il Covid-19. Il secondo: di
conseguenza, data la catastrofe in corso, si tratterebbe di assumere,
tutti, una attitudine estremamente esigente sulle politiche economiche,
del territorio, dell’educazione…
Se queste due premesse sono reali, e mi pare difficile contestarle, allora è lecita la domanda: perché un pensiero ambientalista, o una opinione pubblica vigile, ad esempio, su quel che aumenta ulteriormente il riscaldamento climatico, sono così deboli, in Italia, da risultare assenti dal dibattito pubblico su come convivere con il virus ecc.? Tanto assenti che, nel formare la famosa “task force” per la cosiddetta “fase due”, il governo non ha nemmeno pensato a qualcuno che studi e rappresenti questa urgenza, che è per altro la principale. In quel gruppo, diretto da un manager finanziario che abita a Londra, ci sono docenti di economia, manager e dirigenti d’azienda, potenti dell’economia nazionale (come il capo della Cassa depositi e prestiti), un grande fiscalista che aiuta imprese come l’Enel a pagare le tasse in Olanda, più, in forte minoranza, persone che si occupano di psichiatria, psicologia sociale, disabilità, diritto del lavoro.
Il massimo che si può trovare, in quella task force, è qualcuno che promuove lo “sviluppo sostenibile”, cioè una economia compatibile con la crisi ambientale, e, direi soprattutto, lo studio su come far diventare occasione di produzione e vendita e profitti anche quel che serve per arginare le molte emergenze: la desertificazione, il riciclaggio (della plastica, per esempio), le energie rinnovabili al posto del petrolio, ecc. Insomma, la tecnica e gli investimenti che dovrebbero “risanare” il mondo. Ma “sviluppo sostenibile” è un ossimoro, come dire “un amore omicida”, almeno finché non si chiarisce che è la crescita infinita il vero motore dell’economia capitalista e il vero assassino dell’ambiente: non farò troppi esempi, è piuttosto facile capire che se il consumo di hamburger deve crescere ogni anno di un tot, e questo è il segnale della salute dell’economia, cresceranno anche gli allevamenti che deforestano il mondo, producono gas serra e, all’occasione, scatenano virus stanati dalle nicchie ecologiche aggredite: la “sostenibilità” è una chimera.
Ma perché non è venuto in mente, a chi ha compilato la lista della “task force” il nome di un climatologo, per esempio uno come Luca Mercalli, che tutti conoscono per le sue presenze in televisione e di cui nessuno ha mai messo in dubbio la serietà scientifica? La risposta ovvia è che è un rompiscatole, e va bene. Ma c’è molto di più.
E si torna alla domanda di partenza. Perché, nel nostro paese, la questione cruciale dell’ambiente è pressoché assente nella politica, nei media e, va da sé, nel pensiero collettivo dell’economia, dalle università alle aziende? Sui giornali, se compare qualcosa, è in forma di “strano ma vero”, curiosità interessanti, oppure in forma compatibile. La vera compatibilità, da decenni, è quella di chi dovrebbe interpretare e promuovere questi argomenti.
Ho partecipato, quasi quarant’anni fa, alla nascita della Lega per l’ambiente. Il primo promotore era Enrico Testa, detto Chicco, mio compagno di liceo a Treviglio, provincia di Bergamo, paese divenuto noto, per un momento, a causa della moria di anziani. Venne da me, ero redattore del manifesto, a illustrarmi una sua idea molto anticipatrice: lascio la Federazione giovanile comunista (di cui era dirigente) e fondo una associazione ambientalista. Io dissi: bella idea. E cominciammo a scrivere sul giornale cose di quel tipo, mentre nel frattempo l’Arci metteva a disposizione una stanza e mezzo a lui e al suo più fedele seguace: Ermete Realacci. La Lega (che poi cambiò nome in Legambiente per non confondersi con la Lega di Bossi) vivacchiò fino a Chernobyl. Subito prima, il congresso del Partito comunista aveva votato, con una maggioranza di 13 voti, a favore dell’energia nucleare e contro una mozione presentata da Chicco. Poi ci fu appunto il disastro nucleare in Urss, e il referendum, in Italia, vinto dagli avversari del nucleare. E nacque, in varie forme che poi si unificarono, il partito dei Verdi, con il quale divennero deputati varie persone che venivano dall’estrema sinistra, come il mio direttore dell’epoca, Mauro Paissan, e Luigi Manconi (che ora fa una associazione ottima, “A buon diritto”, che aiuta detenuti, migranti, ecc.), e Edo Ronchi, che divenne ministro dell’ambiente con il primo governo Prodi (Edo è anche lui di Treviglio, pare un destino).
Vi risparmio la storia bizantina del partito dei Verdi, che ancora si trascina alle urne, ad ogni elezione, ottenendo tra uno e due per cento. Legambiente è diventata un ente parastatale, cui si ricorre quando si va al mare (analizza le acque) e di cui si apprezzano i rapporti sulle ecomafie, insomma un ottimo lavoro, quasi una funzione “tecnica”. Ma nessuna voce in capitolo in questa e altre emergenze ambientali. Greepeace non ha mai attecchito davvero. Il WWF aiuta meritoriamente a proteggere “oasi” di natura “incontaminata”. Eccetera. Ma nessuno di questi soggetti riesce o vuole davvero bucare la cortina di fumo delle necessità economiche. Lo stesso Edo Ronchi è a capo di una associazione per lo “sviluppo sostenibile” (rieccolo). Tutti compatibili. Diciamo che ciascuno, politico verde o accademico o associazione, si è scavato la sua nicchia, dacché Chernobyl ha scoperchiato la questione e dopo che il clima ha cominciato a dare calci, in generale in accordo con ministeri, fondazioni, grandi imprese. Al punto che ci sono quelli che promuovono le energie rinnovabili e allo stesso tempo difendono il “carbone pulito” delle centrali e fanno i consulenti dell’Enel perfino in Nigeria, dove le industrie petrolifere hanno distrutto l’ambiente, o in Egitto, il cui governo ha distrutto Giulio Regeni. E nel frattempo Chicco Testa ha intrapreso una lunga camminata che l’ha portato in vetta: capo della campagna filo-nucleare in vista di un nuovo referendum, senonché un reattore ha avuto la cattiva idea di esplodere, in Giappone, radendo al suolo i filonucleari.
L’esito di tutto questo è che la questione ambientale è divenuta marginale e, nella cultura di sinistra, l’ultima voce della lista a cui, negli anni settanta, erano stati aggiunti “i giovani” e “le donne”, ora si dice “e l’ambiente”. Infatti Nicola Zingaretti, che certe volte sembra, come diceva mio padre, l’asino in mezzo ai suoni, si è congratulato per la nomina di Colao a capo della “task force”, dicendosi sicuro che si possa, con il consulente del fondo d’investimento americano General Atlantic, “costruire insieme un nuovo modello di sviluppo” (sinonimo di “sviluppo compatibile”).
Ma è inutile prendersela con il governo o i politici di centrosinistra o di destra. Qualche settimana fa, grazie a qualcuno nel ministero dell’ambiente, filtra una ricerca di due università e un autorevole istituto pubblico, da cui risulta che gli indizi sul fatto che lo smog, il particolato fine che tutti respiriamo, sia un “vettore”, un veicolo per il virus, sono molto forti. Viene offerta, questa ricerca molto documentata (che riporta anche i risultati in tutto simili di una ricerca simile fatta in Cina) a un sito di estrema sinistra. Che lo rifiuta, perché non si fidano e perché, penso io, questa faccenda dell’ambiente non li solletica. Gli assessori all’ambiente di Emilia e Lombardia fanno lo stesso: sbagliato diffondere tali ipotesi perché spargono il terrore. Eppure, questa ricerca compare (per pochi istanti) al TG1, che subito se ne pente, sul principale quotidiano belga e infine su Report, la trasmissione di Rai3, che ci costruisce mezza puntata, pur riferendo le perplessità di altri istituti di ricerca. Vicenda istruttiva assai.
Nel frattempo, all’inizio del secolo, erano accadute due cose. La prima è che “il movimento dei movimenti”, contrario alla globalizzazione neoliberista, difendendo l’acqua e la natura in genere, assume una postura in un certo modo ambientalista, favorito anche dall’ispirazione zapatista e dei popoli indigeni del Sud America, che dicono: guardate che il “progresso” che ci volete imporre, la deforestazione e le monoculture, le grandi opere, la privatizzazione dei beni comuni naturali e i brevetti che privatizzano la natura, tutto questo “progresso” (o sviluppo) è un male.
Ad affiancare questa corrente c’è il movimento della decrescita, fondato da Serge Latouche e di cui Carta, il settimanale che facciamo in quel periodo, diventa il principale portatore sano, grazie anche al fatto che tra i soci principali del giornale compare uno come Alfredo Salsano, che aveva pubblicato i libri di Latouche (e che è purtroppo scomparso).
Si apre il dibattito, tra le battute di cattivo gusto e la derisione della sinistra “economicista”, benché il tema si diffonda, si fanno scuole per la decrescita, incontri e dibattiti in giro per il paese, e a Venezia, infine, un convegno molto affollato. Ma la crisi finanziaria del 2008 spegne tutto, la decrescita diventa l’oggetto di un manipolo di persone.
La verità è che i veri animatori della critica allo sviluppo (e alla crescita) sono i movimenti il cui capostipite sono i No Tav della Valle di Susa, che contestano l’invasione dell’ambiente della valle, il disprezzo per le conseguenze di un tunnel di cinquanta chilometri, l’idea appunto che il trasporto di merci e di persone debba per forza diventare sempre più veloce e massiccio. La Cgil è dalla parte dei fautori del tunnel, la Fiom no, ma questo non basta a far cambiare rotta al transatlantico sindacale, che ormai segue la rotta automatica che lo dirige verso l’iceberg. Nel mio piccolo, nel 2012, mi pare, produco un libro (tra le centinaia sulla Tav), che si intitola “No Tav d’Italia”: perché movimenti simili di difesa del territorio dagli insulti dello sviluppo, dalle trivelle in mare alle grandi navi di Venezia e moltissimi eccetera, sono diventati endemici: eppure, non riescono, a loro volta, né a darsi qualche forma di coordinamento (democratico, orizzontale, ma sintetico: noi lottiamo contro un’economia vandalica, in varie forme), né a diradare la nebbia di calunnie e menzogne, sul loro conto, che viene sparsa sui media e nella politica. Il libro, scritto letteralmente da decine di questi movimenti, è un grande insuccesso.
E ora? Torniamo all’inizio: la questione ambientale (il clima, l’inquinamento, la desertificazione e la siccità, la distruzione di ecosistemi da cui sprizzano virus, eccetera) non c’è, semplicemente. Nessuna forza politica, la quasi totalità degli intellettuali (con rare eccezioni, come Guido Viale), di sicuro il governo, gli industriali che reclamano a gran voce “si deve riaprire subito tutto, se no il Pil precipita”, gli stessi sindacati, hanno facile gioco nell’ignorare l’essenziale. Perfino in Francia, in vari modi, si propongono progetti di “ripartenza” del tutto nuovi, il governo studia come promuovere la bicicletta per evitare a chi torna al lavoro i mezzi di trasporto affollati, i Verdi strepitano contro il fatto che il governo vuole non solo finanziare ma entrare in aziende che producono inquinamento, come quelle dell’automobile e della aviazione. E qui da noi sono così mimetici, gli amanti dell’economia, da diffondere ora il motto “una nuova normalità”, che stava diventando la parola d’ordine di chi si oppone alla vecchia normalità. Va da sé che la loro è tutt’altro che una normalità “nuova”, se non per il fatto che gli operai dovranno indossare la mascherina. Ma chi potrebbe dire basta? C’è da sperare che i ragazzi di Fridays for future, nati proprio per contenere la crisi del clima, e altri giovani o meno giovani, come il movimento Extinction Rebellion, riescano a gettarsi alle spalle la brutta storia ormai inutile dell’ambientalismo (e della sinistra) e ricominciare da zero. Considerato anche che in effetti siamo qui, allo zero della vita civile.
Se queste due premesse sono reali, e mi pare difficile contestarle, allora è lecita la domanda: perché un pensiero ambientalista, o una opinione pubblica vigile, ad esempio, su quel che aumenta ulteriormente il riscaldamento climatico, sono così deboli, in Italia, da risultare assenti dal dibattito pubblico su come convivere con il virus ecc.? Tanto assenti che, nel formare la famosa “task force” per la cosiddetta “fase due”, il governo non ha nemmeno pensato a qualcuno che studi e rappresenti questa urgenza, che è per altro la principale. In quel gruppo, diretto da un manager finanziario che abita a Londra, ci sono docenti di economia, manager e dirigenti d’azienda, potenti dell’economia nazionale (come il capo della Cassa depositi e prestiti), un grande fiscalista che aiuta imprese come l’Enel a pagare le tasse in Olanda, più, in forte minoranza, persone che si occupano di psichiatria, psicologia sociale, disabilità, diritto del lavoro.
Il massimo che si può trovare, in quella task force, è qualcuno che promuove lo “sviluppo sostenibile”, cioè una economia compatibile con la crisi ambientale, e, direi soprattutto, lo studio su come far diventare occasione di produzione e vendita e profitti anche quel che serve per arginare le molte emergenze: la desertificazione, il riciclaggio (della plastica, per esempio), le energie rinnovabili al posto del petrolio, ecc. Insomma, la tecnica e gli investimenti che dovrebbero “risanare” il mondo. Ma “sviluppo sostenibile” è un ossimoro, come dire “un amore omicida”, almeno finché non si chiarisce che è la crescita infinita il vero motore dell’economia capitalista e il vero assassino dell’ambiente: non farò troppi esempi, è piuttosto facile capire che se il consumo di hamburger deve crescere ogni anno di un tot, e questo è il segnale della salute dell’economia, cresceranno anche gli allevamenti che deforestano il mondo, producono gas serra e, all’occasione, scatenano virus stanati dalle nicchie ecologiche aggredite: la “sostenibilità” è una chimera.
Ma perché non è venuto in mente, a chi ha compilato la lista della “task force” il nome di un climatologo, per esempio uno come Luca Mercalli, che tutti conoscono per le sue presenze in televisione e di cui nessuno ha mai messo in dubbio la serietà scientifica? La risposta ovvia è che è un rompiscatole, e va bene. Ma c’è molto di più.
E si torna alla domanda di partenza. Perché, nel nostro paese, la questione cruciale dell’ambiente è pressoché assente nella politica, nei media e, va da sé, nel pensiero collettivo dell’economia, dalle università alle aziende? Sui giornali, se compare qualcosa, è in forma di “strano ma vero”, curiosità interessanti, oppure in forma compatibile. La vera compatibilità, da decenni, è quella di chi dovrebbe interpretare e promuovere questi argomenti.
Ho partecipato, quasi quarant’anni fa, alla nascita della Lega per l’ambiente. Il primo promotore era Enrico Testa, detto Chicco, mio compagno di liceo a Treviglio, provincia di Bergamo, paese divenuto noto, per un momento, a causa della moria di anziani. Venne da me, ero redattore del manifesto, a illustrarmi una sua idea molto anticipatrice: lascio la Federazione giovanile comunista (di cui era dirigente) e fondo una associazione ambientalista. Io dissi: bella idea. E cominciammo a scrivere sul giornale cose di quel tipo, mentre nel frattempo l’Arci metteva a disposizione una stanza e mezzo a lui e al suo più fedele seguace: Ermete Realacci. La Lega (che poi cambiò nome in Legambiente per non confondersi con la Lega di Bossi) vivacchiò fino a Chernobyl. Subito prima, il congresso del Partito comunista aveva votato, con una maggioranza di 13 voti, a favore dell’energia nucleare e contro una mozione presentata da Chicco. Poi ci fu appunto il disastro nucleare in Urss, e il referendum, in Italia, vinto dagli avversari del nucleare. E nacque, in varie forme che poi si unificarono, il partito dei Verdi, con il quale divennero deputati varie persone che venivano dall’estrema sinistra, come il mio direttore dell’epoca, Mauro Paissan, e Luigi Manconi (che ora fa una associazione ottima, “A buon diritto”, che aiuta detenuti, migranti, ecc.), e Edo Ronchi, che divenne ministro dell’ambiente con il primo governo Prodi (Edo è anche lui di Treviglio, pare un destino).
Vi risparmio la storia bizantina del partito dei Verdi, che ancora si trascina alle urne, ad ogni elezione, ottenendo tra uno e due per cento. Legambiente è diventata un ente parastatale, cui si ricorre quando si va al mare (analizza le acque) e di cui si apprezzano i rapporti sulle ecomafie, insomma un ottimo lavoro, quasi una funzione “tecnica”. Ma nessuna voce in capitolo in questa e altre emergenze ambientali. Greepeace non ha mai attecchito davvero. Il WWF aiuta meritoriamente a proteggere “oasi” di natura “incontaminata”. Eccetera. Ma nessuno di questi soggetti riesce o vuole davvero bucare la cortina di fumo delle necessità economiche. Lo stesso Edo Ronchi è a capo di una associazione per lo “sviluppo sostenibile” (rieccolo). Tutti compatibili. Diciamo che ciascuno, politico verde o accademico o associazione, si è scavato la sua nicchia, dacché Chernobyl ha scoperchiato la questione e dopo che il clima ha cominciato a dare calci, in generale in accordo con ministeri, fondazioni, grandi imprese. Al punto che ci sono quelli che promuovono le energie rinnovabili e allo stesso tempo difendono il “carbone pulito” delle centrali e fanno i consulenti dell’Enel perfino in Nigeria, dove le industrie petrolifere hanno distrutto l’ambiente, o in Egitto, il cui governo ha distrutto Giulio Regeni. E nel frattempo Chicco Testa ha intrapreso una lunga camminata che l’ha portato in vetta: capo della campagna filo-nucleare in vista di un nuovo referendum, senonché un reattore ha avuto la cattiva idea di esplodere, in Giappone, radendo al suolo i filonucleari.
L’esito di tutto questo è che la questione ambientale è divenuta marginale e, nella cultura di sinistra, l’ultima voce della lista a cui, negli anni settanta, erano stati aggiunti “i giovani” e “le donne”, ora si dice “e l’ambiente”. Infatti Nicola Zingaretti, che certe volte sembra, come diceva mio padre, l’asino in mezzo ai suoni, si è congratulato per la nomina di Colao a capo della “task force”, dicendosi sicuro che si possa, con il consulente del fondo d’investimento americano General Atlantic, “costruire insieme un nuovo modello di sviluppo” (sinonimo di “sviluppo compatibile”).
Ma è inutile prendersela con il governo o i politici di centrosinistra o di destra. Qualche settimana fa, grazie a qualcuno nel ministero dell’ambiente, filtra una ricerca di due università e un autorevole istituto pubblico, da cui risulta che gli indizi sul fatto che lo smog, il particolato fine che tutti respiriamo, sia un “vettore”, un veicolo per il virus, sono molto forti. Viene offerta, questa ricerca molto documentata (che riporta anche i risultati in tutto simili di una ricerca simile fatta in Cina) a un sito di estrema sinistra. Che lo rifiuta, perché non si fidano e perché, penso io, questa faccenda dell’ambiente non li solletica. Gli assessori all’ambiente di Emilia e Lombardia fanno lo stesso: sbagliato diffondere tali ipotesi perché spargono il terrore. Eppure, questa ricerca compare (per pochi istanti) al TG1, che subito se ne pente, sul principale quotidiano belga e infine su Report, la trasmissione di Rai3, che ci costruisce mezza puntata, pur riferendo le perplessità di altri istituti di ricerca. Vicenda istruttiva assai.
Nel frattempo, all’inizio del secolo, erano accadute due cose. La prima è che “il movimento dei movimenti”, contrario alla globalizzazione neoliberista, difendendo l’acqua e la natura in genere, assume una postura in un certo modo ambientalista, favorito anche dall’ispirazione zapatista e dei popoli indigeni del Sud America, che dicono: guardate che il “progresso” che ci volete imporre, la deforestazione e le monoculture, le grandi opere, la privatizzazione dei beni comuni naturali e i brevetti che privatizzano la natura, tutto questo “progresso” (o sviluppo) è un male.
Ad affiancare questa corrente c’è il movimento della decrescita, fondato da Serge Latouche e di cui Carta, il settimanale che facciamo in quel periodo, diventa il principale portatore sano, grazie anche al fatto che tra i soci principali del giornale compare uno come Alfredo Salsano, che aveva pubblicato i libri di Latouche (e che è purtroppo scomparso).
Si apre il dibattito, tra le battute di cattivo gusto e la derisione della sinistra “economicista”, benché il tema si diffonda, si fanno scuole per la decrescita, incontri e dibattiti in giro per il paese, e a Venezia, infine, un convegno molto affollato. Ma la crisi finanziaria del 2008 spegne tutto, la decrescita diventa l’oggetto di un manipolo di persone.
La verità è che i veri animatori della critica allo sviluppo (e alla crescita) sono i movimenti il cui capostipite sono i No Tav della Valle di Susa, che contestano l’invasione dell’ambiente della valle, il disprezzo per le conseguenze di un tunnel di cinquanta chilometri, l’idea appunto che il trasporto di merci e di persone debba per forza diventare sempre più veloce e massiccio. La Cgil è dalla parte dei fautori del tunnel, la Fiom no, ma questo non basta a far cambiare rotta al transatlantico sindacale, che ormai segue la rotta automatica che lo dirige verso l’iceberg. Nel mio piccolo, nel 2012, mi pare, produco un libro (tra le centinaia sulla Tav), che si intitola “No Tav d’Italia”: perché movimenti simili di difesa del territorio dagli insulti dello sviluppo, dalle trivelle in mare alle grandi navi di Venezia e moltissimi eccetera, sono diventati endemici: eppure, non riescono, a loro volta, né a darsi qualche forma di coordinamento (democratico, orizzontale, ma sintetico: noi lottiamo contro un’economia vandalica, in varie forme), né a diradare la nebbia di calunnie e menzogne, sul loro conto, che viene sparsa sui media e nella politica. Il libro, scritto letteralmente da decine di questi movimenti, è un grande insuccesso.
E ora? Torniamo all’inizio: la questione ambientale (il clima, l’inquinamento, la desertificazione e la siccità, la distruzione di ecosistemi da cui sprizzano virus, eccetera) non c’è, semplicemente. Nessuna forza politica, la quasi totalità degli intellettuali (con rare eccezioni, come Guido Viale), di sicuro il governo, gli industriali che reclamano a gran voce “si deve riaprire subito tutto, se no il Pil precipita”, gli stessi sindacati, hanno facile gioco nell’ignorare l’essenziale. Perfino in Francia, in vari modi, si propongono progetti di “ripartenza” del tutto nuovi, il governo studia come promuovere la bicicletta per evitare a chi torna al lavoro i mezzi di trasporto affollati, i Verdi strepitano contro il fatto che il governo vuole non solo finanziare ma entrare in aziende che producono inquinamento, come quelle dell’automobile e della aviazione. E qui da noi sono così mimetici, gli amanti dell’economia, da diffondere ora il motto “una nuova normalità”, che stava diventando la parola d’ordine di chi si oppone alla vecchia normalità. Va da sé che la loro è tutt’altro che una normalità “nuova”, se non per il fatto che gli operai dovranno indossare la mascherina. Ma chi potrebbe dire basta? C’è da sperare che i ragazzi di Fridays for future, nati proprio per contenere la crisi del clima, e altri giovani o meno giovani, come il movimento Extinction Rebellion, riescano a gettarsi alle spalle la brutta storia ormai inutile dell’ambientalismo (e della sinistra) e ricominciare da zero. Considerato anche che in effetti siamo qui, allo zero della vita civile.
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