martedì 21 aprile 2020

Primum vivere, non sopravvivere.

Un gruppo di donne con diverse competenze lancia alcune proposte per una «fase 2» di riapertura rivolta ai bisogni sociali e non solo produttivi. Per una politica che provi a immaginare un mondo possibile e non solo ad amministrare le emergenze.



Come donne prendiamo parola. Siamo di fronte a una situazione di stallo in cui non riceviamo risposte da una politica che si è dimostrata incapace di agire con tempestività prima per contenere il problema sanitario che ha investito il nostro paese e ora in direzione di una pianificazione delle strategie da adottare per i prossimi mesi. 
La politica che si riduce ad azione nell’emergenza non è politica.
Se si riduce a controllo poliziesco dei comportamenti dei singoli la politica abdica alla sua funzione primaria, quella di garantire a tutte e tutti non solo la sopravvivenza ma una vita degna, in cui le relazioni con gli altri e le altre siano al centro. Non esiste uno Stato fatto di singoli, una comunità si costruisce a partire dalle relazioni.
Si è trasformato un problema sanitario in una guerra contro un nemico invisibile, alimentando non solo paura e panico nella popolazione, ma anche sfiducia, mettendo con ciò a rischio il fondamento stesso della democrazia, la fiducia nell’altro, nell’altra.
Abbiamo qualcosa da dire ma soprattutto qualcosa da proporre, rispetto alla gestione dell’emergenza Covid-19 e per la cosiddetta «fase 2» della riapertura e ricostruzione della nostra società, perché come donne sappiamo che le relazioni fanno la politica e che le differenze contano, le differenze nei bisogni e anche nei desideri.

Questo testo nasce dal desiderio di iniziare uno scambio condiviso per rimettere al centro la vulnerabilità ma anche la libertà di ciascuna e ciascuno. Si tratta di rilanciare sul piano della «cura» intesa come protezione sapiente delle nostre vite, ma anche come attenzione alla tessitura delle nostre relazioni. Occorre rimettere in campo la fiducia tra le abitanti e gli abitanti di questo paese, come linfa per recuperare il tempo perso fin qui e imparare a convivere, con il virus e con gli altri e altre.

Cosa proponiamo?

  • Bisogna centralizzare il meno possibile negli ospedali e cercare di curare a casa il più possibile chi ha problemi meno gravi, e che quindi non ha urgente bisogno di terapia intensiva. I servizi territoriali devono essere rafforzati e si deve investire per personale e strutture a domicilio nuove e tecnologicamente avanzate, per le urgenze attuali e per il futuro, così che si possa attuare davvero una politica sanitaria adeguata ai bisogni della popolazione. Bisogna tornare a privilegiare la dimensione territoriale dei presìdi sanitari (tutt’altra cosa dal potere dei «governatori» regionali). Come scrivono 100mila tra medici e odontoiatri il trattamento precoce sul territorio può arginare, fino a sconfiggere la pandemia.
  • È fondamentale investire nella ricerca scientifica, per trovare test affidabili, capire quali sono le caratteristiche che rendono la malattia aggressiva in qualcuno ma non in tutti, per stimare quanto può durare l’immunità, per trovare trattamenti efficaci e vaccini a prezzi ragionevoli. È urgente investire di più anche nei tamponi, ricordandosi che non risolvono del tutto il problema perché all’inizio il soggetto è infettivo ma il tampone non lo rileva. Occorre una collaborazione internazionale e trasparente, perché non prevalgano gli interessi privati, guidati solo dalla logica del profitto e di potere.
  • Le differenze sono importanti: le donne, i bambini, gli adolescenti, gli anziani da soli nelle case o nelle Rsa non corrono gli stessi rischi e non hanno le stesse esigenze. Bisogna investire in un piano di educazione sanitaria e scientifica sui media mainstream per tutta la popolazione, che tenga conto delle differenze e non punti sulla paura ma sull’informazione
  • Si sa chi sono le persone che hanno maggiori possibilità di sviluppare forme gravi di malattia e sono le prime a dover essere tutelate. Tutte le persone a rischio (primi fra tutti gli uomini dai 65 anni in sù e sotto i 65 ma con patologie concomitanti) devono ricevere spiegazioni e indicazioni, principalmente dai propri medici di base, sui rischi che corrono e sui modi corretti di usare i dispositivi di protezione e sulle situazioni più a rischio (ove cioè non sia possibile il distanziamento sociale).
  • A tutte le persone che devono stare a casa, perché contagiate, deve essere garantito un servizio gratuito di fornitura di medicine e viveri e assistenza domiciliare medica. Per esempio la grande distribuzione dovrebbe dare loro degli slot di accesso alla spesa a casa mentre adesso in molte città faticano a fare ordini perché tutte le consegne sono occupate. Deve essere chiaro che tutelare non vuol dire rinchiudere, restare a casa è una possibilità che – se scelta liberamente – va sostenuta con servizi a domicilio (rifornimento di articoli alimentari e farmaceutici).  
  • Dobbiamo lavorare per favorire una partecipazione il più possibile «comunitaria», per organizzare in modo responsabile le uscite, ad esempio garantendo a tutti/e – a turno – l’uso di spazi pubblici, con particolare attenzione alla fruizione da parte dei bambini e degli adolescenti, particolarmente penalizzati da questa situazione. Anche l’informazione e la sensibilizzazione può passare attraverso gruppi partecipativi auto-organizzati. È sacrosanto poter scegliere di morire a casa propria, con i propri familiari, e non in ospedale da soli. Ovviamente ci deve essere sostegno a domicilio anche per quanto riguarda le cure palliative. 
  • È urgente discutere su come riaprire le scuole a settembre. Il diritto dei bambini a frequentare le scuole e i propri compagni è un diritto a cui non possiamo rinunciare. Ci vorrebbero scuole con meno alunni per classe. Migliorerebbero contemporaneamente le condizioni igieniche, il livello di apprendimento e ci sarebbero anche più insegnanti occupati: investire nei servizi pubblici, educativi e sanitari. Bisogna assumere insegnanti per sfoltire le classi, assumere educatrici ed educatori per garantire servizi di pre e doposcuola, investire su educatori ed educatrici e sulle strutture a disposizione al mare, campagna o montagna per consentire a bambine e bambini di andare per un periodo via dalla città con i propri coetanei durante l’estate. Lavorare a soluzioni per gli «insegnanti a rischio», cioè quelli over 65 o con altre patologie.
  • È fondamentale tenere conto delle differenze regionali, e pensare a una riapertura graduale differenziata per regione di alcuni settori produttivi e negozi per salvare il paese da una crisi economica senza precedenti, perché la crisi economica ha delle ricadute pesanti anche sulla salute pubblica del paese. 
  • Bisogna tenere conto delle differenze di rischio per professione. È necessario che le condizioni di lavoro dei medici e personale assistenziale, all’interno delle fabbriche, così come in tutte le attività produttive, vengano riviste in base a protocolli che garantiscano la salute dei lavoratori (occorre garantire le distanze e i dispositivi di protezione). Le forze dell’ordine e i vigili invece di controllare runner e passeggiatori, dovrebbero esercitare attività di controllo nelle fabbriche e negli esercizi commerciali, perché vengano rispettate le misure di sicurezza.
  • Va implementata la rete dei trasporti in special modo nelle grandi città. Più mezzi di trasporto pubblici per evitare sovraffollamento e limitare l’inquinamento. 
Concludiamo sollecitando una discussione che sappia rilanciare in avanti, ben oltre i prossimi mesi, una riflessione ambiziosa che coinvolga scienziati, filosofi, sociologi, e tutti coloro che vogliano far  sentire la propria voce, e riporti la politica alla sua dimensione più vera e più alta, una politica che non si accontenta cioè di governare e amministrare ma sia anche capace di immaginare un mondo possibile in cui gli ideali non siano parole svuotate che, alla prima emergenza, vengono spazzate via.
*Tristana Dini è insegnante di scuola ospedaliera a Napoli, Ilaria Durigon fa la libraia a Padova, Barbara Buoso è direttrice operativa a Padova, Sara Gandini è epidemiologa e biostatistica a Milano.

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