giovedì 23 aprile 2020

«L’inquinamento favorisce il virus» Intervista. Intervista a Francesca Dominici, alla guida del team dell’Harvard data science che ha studiato la possibile correlazione tra le polveri sottili e il Covid-19. Una ricerca che può spiegare l’epidemia in Pianura Padana


 il manifesto 
Di una possibile correlazione fra l’epidemia di Corona virus e l’inquinamento atmosferico si è molto parlato. Ricerche che hanno mostrato come il particolato atmosferico possa fungere da vettore al virus o come il virus attacchi preferibilmente i polmoni dei fumatori hanno sollevato il dibattito, ma non tutta la comunità scientifica si è trovata d’accordo con un’ ipotesi che spiegherebbe, almeno in parte, i maggiori livelli di diffusione del virus nell’inquinatissima Val Padana.

Sono necessari altri studi per confermarla, dicono alcuni: quello appena concluso dall’Harvard Data Science va in questa direzione. La ricerca si è posta l’obbiettivo di capire il possibile effetto dell’esposizione alle polveri sottili, in particolare le PM2.5 ( le polveri di dimensione inferiore a 2.5 µm), sul tasso di mortalità del Coronavirus negli Stati Uniti. I ricercatori hanno preso in esame dati raccolti in circa 3mila contee degli Usa, coprendo il 98% della popolazione statunitense. I risultati hanno dimostrato che anche solo un piccolo aumento (1 μg/m3) nell’esposizione a lungo termine all’inquinamento da PM2.5 porta a un grande aumento (15%) del tasso di mortalità da Covid-19. A capo del team di studiosi,la ricercatrice Francesca Dominici, che dell’Harvard Data Science è co-direttrice.
Di cosa si occupa l’Harvard Data Science? Questa ricerca sarebbe stata possibile in Italia?
Harvard è una delle università più grandi mondo e negli ultimi anni ha capito, come altre università ed enti di ricerca, che quella dei dati è una scienza di grandissima potenza, perchè attraverso i satelliti, i telefoni cellulari, le interazioni con il computer, i social media, abbiamo la possibilità di raccogliere informazioni in un modo che prima non era possibile. Questo istituto è nato con l’obiettivo di applicare la scienza dei dati a tutte le discipline: quelle scientifiche, la biologia, la medicina, l’ingegneria, ma anche quelle umanistiche , come la storia. Questo è il nostro ruolo: rispondere alle grandi domande della scienza e della società utilizzando i dati. Io ci sono arrivata dopo una laurea in statistica in Italia e la conclusione del dottorato qui negli Stati Uniti. Ho una grande passione per la ricerca e sono rimasta perché mi sono resa conto che qui avrei potuto aver un impatto scientifico e possibilità di carriera che in Italia non avrei avuto. Secondo me l’Italia ha fatto enormi passi avanti con l’esplosione della tecnologia, io anche per questo lavoro sul Covid-19 mi sono confrontata molto con i colleghi in Italia. Purtroppo ci sono ancora troppo pochi fondi per la ricerca nel nostro paese.
Questa ricerca ha dei precedenti simili? Vi siete basati su qualche studio preliminare?
Nel corso della mia carriera ho fatto tantissimi studi epidemiologici sugli effetti del particolato sottile sui ricoveri ospedalieri e la mortalità di malattie respiratorie e malattie cardiovascolari. Questa è la prima volta che ho fatto uno studio specifico sull’effetto del particolato sottile sulla mortalità da virus. Per quanto riguarda gli Stati Uniti, avevamo già i dati relativi ai livelli di contaminazione e tutta l’informazione demografica e socio-economica degli ultimi 20 anni, quindi abbiamo potuto fare questo studio in modo accelerato perché avevamo già a disposizione una nutrita banca dati .
Lo studio è relativo a una specifica categoria di particolato atmosferico, il PM 2.5: perché proprio questo e quali sono le principali fonti di inquinamento?
Man mano che imparavo cose su questa epidemia diventava sempre più chiaro che la co-presenza di patologie derivanti dall ‘esposizione al PM2,5 peggioravano gli effetti del coronavirus. Le PM 2.5 sono particelle microscopiche, molto pericolose perché non le riusciamo a filtrare. È abbastanza accertato che finiscono in profondità nei polmoni, scatenando una reazione infiammatoria. Inoltre possono entrare nel torrente circolatorio causando malattie cardiovascolari. I dati delle ospedalizzazioni che venivano dall’Italia e dalla Cina confermavano questa forte impressione. Quindi mi sono chiesta se le persone esposte a lungo al PM 2.5, che hanno già un’infiammazione in corso, potessero subire degli effetti più gravi dal contagio. Le fonti di queste particelle sono tutti gli appartai industriali, gli inceneritori e in qualche misura anche l’allevamento intensivo, a seconda dei macchinari che vengono utilizzati. E, naturalmente, il traffico.
Voi avete trovato un’associazione fra mortalità da Covid-19 e inquinamento atmosferico, che in statistica ha un significato più forte di correlazione. Qual è la differenza? Vi aspettavate un risultato del genere?
Abbiamo utilizzato un modello statistico che riesce a isolare l’effetto del PM2.5 sulla mortalità per Covid-19 e a separarlo da tutte le altre cause. Una correlazione dice solo se c’è un legame ma senza escludere altri fattori, per esempio quelli sociali. L’associazione è una relazione più precisa. Il risultato non ci ha stupiti, ma non ci aspettavamo dei numeri cosi alti. Vuol dire che c’è un’interazione molto forte fra l’infiammazione sofferta da chi è esposto a lungo alle polveri sottili e il virus. L’arrivo del Covid-19 corrisponde a versare benzina sul fuoco. Spiega conseguenze che abbiamo visto come il blocco respiratorio, la necessità di ricorrere alla ventilazione. Sono dati nuovi che vanno studiati ancora più in profondità, possiamo aver magari ottenuto un risultato superiore al reale. Ma dal punto di vista clinico tutto torna.
I risultati di questa ricerca possono aiutare a spiegare i livelli di mortalità che si sono registrati in Italia e in Lombardia durante l’epidemia di Coronavirus? E se si che tipo di indagine andrebbe svolta?
Uno dei motivi per cui mi sono interessata a questo tema è che conosco bene la Lombardia per motivi familiari, ci vado spesso. Ho sempre notato che la qualità dell’aria era tremenda, mi provocava tosse e attacchi d’asma. Ovviamente per rispondere a questa domanda è necessario fare uno studio scientifico: quello che noi abbiamo fatto per gli Stati Uniti sarà possibile estenderlo anche in Italia, abbiamo sviluppato tutto il metodo e abbiamo messo a disposizione il codice statistico per poter collaborare con gli scienziati : a questo scopo proprio nei prossimi giorni parteciperò a un forum on line con dei ricercatori italiani. Dopodiché secondo me questa relazione c’è, per il semplice e motivo che se uno per tutta la vita respira dell’aria inquinata, ne risulta che è molto più suscettibile ad un virus che attacca i polmoni.
Che indicazioni possiamo trarre rispetto a questo virus di cu sappiamo ancora così poco?
Nel contesto di questa pandemia è importantissimo essere consapevoli del fatto che regioni, province, città che hanno livelli di inquinamento più alti sono più a rischio, le conseguenze del virus sono peggiori. In questi luoghi quindi le misure di distanziamento sociale vanno applicate con ancora più rigore. Quindi questi sono i posti dove le misure tipo quelle del distanziamento sociale vanno applicate con più rigore, le conseguenze del virus sono peggiori. Questo va tenuto presente anche per quelle aree dove il virus non è arrivato o è arrivato in misura minore: il sistema sanitario le deve considerare aree a rischio. Poi c’è da affrontare la questione a monte: abbiamo un motivo in più per tenere sotto controllo le emissioni inquinanti, non sforare i limiti. Il Coronavirus non se ne andrà ed altri virus potranno arrivare. Ridurre l’inquinamento è un modo per prevenire e non farci trovare impreparati.

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