Siamo ancora nel pieno della tempesta, con l’emergenza sanitaria che continua a mordere. Ma problemi almeno altrettanto drammatici sono all’orizzonte, poiché si apre una fase di crisi economica
in cui serviranno tantissime risorse per finanziare le misure di
sostegno al reddito, di supporto all’occupazione e di rilancio
dell’economia necessarie ad evitare un disastro sociale.
coniarerivolta.org
Una domanda
sorge spontanea: come paghiamo il conto e chi lo deve pagare?
Una delle possibilità ventilate è quella di un’imposta patrimoniale.
Ma questa opzione è davvero possibile dentro il quadro istituzionale europeo? Cerchiamo di capirci qualcosa.
Un’imposta patrimoniale è una tassa che colpisce non il reddito delle persone, bensì la loro ricchezza accumulata.
L’idea
è quella di prendere i soldi lì dove stanno, nelle tasche dei ricchi,
anziché sbattere il muso sul muro di gomma che le istituzioni europee
hanno posto alla possibilità di ricorrere alla leva del debito.
La patrimoniale viene dipinta come la soluzione ideale per risolvere
una vera e propria emergenza, evitando di scontrarci con i problemi
sistemici che ci impongono dall’alto la scarsità delle risorse: sfuggire
al ricatto del debito
evitando di contrarre debito, e andando a prendere quelle risorse, in
tempi brevissimi, direttamente a casa dei ricchi, o meglio sul loro
conto in banca.
Un’opzione che avrebbe il doppio effetto positivo di
supplire al fabbisogno finanziario necessario e, allo stesso tempo,
praticare una redistribuzione delle risorse dall’alto al basso: un
potente strumento di gettito fiscale immediato e, contemporaneamente, di
giustizia sociale.
Purtroppo, i ricchi sono ricchi anche perché non si lasciano prendere così facilmente e, come ci insegna anche la storia recente del nostro Paese, le imposte patrimoniali implementate fino ad oggi sono ricadute regolarmente sulla testa della classe lavoratrice.
Proveremo a spiegare che ciò avverrebbe verosimilmente anche in questo
frangente, e principalmente in virtù della particolare architettura
istituzionale dell’Unione Europea. Insomma, come vedremo, l’idea della patrimoniale disegnata per colpire i ricchi si scontra con una cornice istituzionale
che è stata costruita esattamente per mettere i ricchi al riparo da
qualsiasi rivendicazione: se vogliamo promuovere una giusta
patrimoniale, capace di redistribuire risorse dall’alto verso il basso,
non possiamo esimerci dal chiamare in causa i massimi sistemi, cioè quei
Trattati europei che appaiono oggi, nel dramma dell’epidemia, come una
vera e propria camicia di forza imposta al corpo sociale.
Una giusta patrimoniale è
un’imposta disegnata in modo da colpire i grandi patrimoni, perché
opererebbe una redistribuzione del reddito, sottraendo risorse ai grandi
proprietari e restituendole alla collettività attraverso opere e
servizi pubblici, a partire dalla sanità.
La ricchezza netta presente in Italia
ammonta a 9.300 miliardi di euro, circa quattro volte il debito pubblico
del Paese. Questa ricchezza si può suddividere in due categorie
principali: la ricchezza finanziaria, consistente in denaro depositato
su conti correnti, azioni e obbligazioni, che ammonta a circa 4.300
miliardi di euro; e la ricchezza non finanziaria, essenzialmente
patrimonio immobiliare, che rappresenta i restanti 5.000 miliardi.
Per
immaginare una giusta patrimoniale dobbiamo analizzare la distribuzione
di questa ricchezza, perché vogliamo levare ai ricchi per dare
ai poveri, e non possiamo permetterci di colpire quel briciolo di
ricchezza diffusa tra la classe lavoratrice.
Un recente Rapport Oxfam
sulle disuguaglianze mette in luce un dato inequivocabile: il 10% più
ricco della popolazione detiene più della metà di quella ricchezza.
Questo significa che la ricchezza nel nostro Paese è pesantemente
concentrata nelle tasche di una classe agiata, e dunque esiste un
potenziale, circoscritto bersaglio di una giusta patrimoniale.
La base
imponibile di tale patrimoniale, cioè il patrimonio di questa classe
agiata, ammonterebbe a circa 5.000 miliardi di euro.
Concentriamoci, in
quanto segue, sulla sola parte finanziaria di questa ricchezza, pari a
circa 2.000 miliardi di euro tra denaro e titoli: si tratta di quella
quota del patrimonio che è già liquida o è immediatamente liquidabile, e
dunque è idonea a fornire una fonte di gettito fiscale immediato e
certo.
Al contrario, il coinvolgimento del patrimonio immobiliare appare
molto più farraginoso, perché il valore degli immobili non è
immediatamente aggredibile: non si può pagare l’imposta con il
patrimonio stesso, e dunque può essere necessario prima liquidare, cioè
vendere quel patrimonio, e questo potrebbe generare una serie di
ricadute economiche negative, con la corsa alla svendita da parte dei
grandi proprietari, lo scoppio di una bolla immobiliare che
danneggerebbe anche i piccoli proprietari di prime case ed infine il
rischio di una successiva maggiore concentrazione del patrimonio
immobiliare (con le grandi banche pronte, passata la patrimoniale, a
fare incetta di immobili svalutati, mentre le famiglie che hanno
contratto un mutuo si troverebbero tra le mani una casa dal prezzo
sensibilmente inferiore al valore del debito).
Dunque, guardiamo a quei
2.000 miliardi di conti correnti e titoli di proprietà del 10% più ricco
del Paese, che appaiono immediatamente aggredibili, e chiediamoci: come
andarli a prendere?
Nel rispondere a questa domanda, ci renderemo conto che una giusta patrimoniale appare impraticabile dentro all’Unione europea, perché la libertà di movimento dei capitali, uno dei pilastri del processo di integrazione europea, consente alla grande maggioranza di quei patrimoni di sfuggire a qualsiasi tentativo di redistribuzione
della ricchezza operato tramite la leva fiscale. L’impalcatura
ideologica dell’Unione europea vuole che i capitali siano liberi di
muoversi, poiché poggia sull’idea che solo il libero agire delle forze
di mercato possa condurre alla migliore allocazione delle risorse,
generando crescita e benessere.
Dietro questa patina di teoria economica
dominante si cela l’interesse del capitale a muoversi
liberamente per cercare gli impieghi più profittevoli e fuggire
qualsiasi forma di tassazione. Se dunque ci proponessimo di
imporre una patrimoniale capace di colpire i più ricchi, saremmo
praticamente certi di arrivare ai loro conti quando i buoi sono già
usciti, diretti magari non verso località esotiche, ma verso i porti
certi dei paradisi fiscali interni all’Unione europea quali il
Lussemburgo, l’Olanda o l’Irlanda, Paesi che hanno incentrato il loro
equilibrio economico sul continuo afflusso di capitali esteri attratti
proprio dal trattamento favorevole garantito alle grandi ricchezze
finanziarie.
Viviamo in un’epoca in cui basta un click per spostare milioni di euro
da un capo all’altro del pianeta: una persona qualsiasi può, in pochi
minuti, aprire un conto corrente in qualsiasi Paese del mondo e
trasferirvi il proprio denaro. Tuttavia, ciò non basterebbe ad eludere
l’imposta, dal momento che il fisco colpisce chiunque abbia la residenza
fiscale in Italia: la persona qualsiasi di cui sopra si sarebbe
liberata del malloppo senza modificare la base fiscale, procedura
articolata e complessa che impone di fornire prove circa il
trasferimento all’estero del proprio baricentro economico o sociale
(lavoro, impresa, famiglia).
Una strada davvero impervia per una persona
qualsiasi, appunto, ma il problema è che noi non stiamo parlando di
persone qualsiasi, bensì delle circa 2,5 milioni di famiglie più ricche
d’Italia, che hanno – solo per la parte finanziaria, cioè pur escludendo
oltre metà del loro patrimonio, costituito da beni immobili – una media
di 800.000 euro tra conti correnti e titoli azionari e obbligazionari
(dati Banca d’Italia). Bene, a meno di credere che queste persone
abbiano vinto tutte la lotteria, o abbiano accumulato pian piano questi
risparmi con umili lavoretti – cioè a meno di credere alle favolette
borghesi che le classi agiate amano raccontare – è del tutto evidente
che stiamo parlando, per la grande maggioranza, di persone radicate nel mondo degli affari, e dunque già abbondantemente inserite in una fitta rete di società estere, holdings
e altre complesse forme di schermatura del patrimonio che sono
l’ecosistema naturale delle grandi ricchezze.
Anche assumendo che una
piccola parte di queste famiglie danarose sia rappresentata da
risparmiatori particolarmente ‘fortunati’ e poco avvezzi a manovre
finanziarie, e non quindi da speculatori e squali pronti a sguazzare
alla ricerca di paradisi fiscali, non si tratterà in generale di persone
qualsiasi.
A loro basterà davvero un click per trasferire fondi da uno
dei loro conti, aperto in Italia, ad una società lussemburghese a loro
collegata. Giusto per fare un esempio, la cassaforte della famiglia
Agnelli è una società olandese denominata Giovanni Agnelli BV, una scatola (asset mangement company) che controlla la holding Exor,
che a sua volta controlla FCA, Ferrari e decine di altre imprese e
fondi di investimento, anch’essi ramificati in nodi societari
distribuiti in Europa e nel mondo.
Non appena si profilasse
all’orizzonte l’ipotesi di un’imposta patrimoniale, pensate che gli
Agnelli in persona dovranno mettersi a spostare la loro residenza
fiscale altrove? Evidentemente no, gli basterà muovere le loro ricchezze
da una scatola societaria all’altra in modo da eludere l’imposizione
fiscale.
Insomma, i veri ricchi non hanno bisogno di imbarcarsi su un cargo battente bandiera liberiana per sfuggire al fisco:
il loro capitale ha già una rete di conti e società più o meno fittizie
su cui muoversi alla velocità di un click per eludere qualsiasi tipo di
imposizione patrimoniale.
Pertanto, la stragrande maggioranza di quelli
che vorremmo raggiungere con la giusta patrimoniale e
che si trovano al di sopra della parte più bassa della piramide dei
ricchi sono esattamente gli unici ad avere i mezzi necessari a schivare
il colpo.
La loro ricchezza, cioè proprio l’obiettivo su cui è puntata
l’imposta, è essa stessa la chiave per eludere il fisco senza alcun
ostacolo.
Si tratta di una chiave capace di aprire tutte le porte?
La risposta a questa domanda chiama in causa il contesto entro cui è organizzata la nostra economia.
Infatti, la
possibilità di eludere l’imposta patrimoniale dipende in maniera
cruciale dall’assenza di qualsiasi limite al movimento dei capitali.
I ricchi avranno pure la loro rete di conti esteri, ma la possibilità
di portare il denaro fuori dall’Italia verso una di quelle destinazioni
dipende dalla cornice di libera circolazione dei capitali che è stata
definitivamente sancita, nel nostro Paese, con il Trattato di Maastricht
(1992), dopo un percorso già definito e avviato all’inizio degli anni
’80.
Il Trattato sul Funzionamento dell’Unione
Europea (TFUE) fornisce la disciplina di dettaglio, e prevede
esplicitamente, all’art. 63, il divieto di qualsiasi restrizione alla libera circolazione dei capitali
e ai pagamenti internazionali, una regola accompagnata da alcune
eccezioni specificate nel successivo art. 65.
Proviamo a capire se tali
eccezioni forniscono agli stati strumenti utili ad impedire che i grandi
patrimoni sfuggano ad un’imposta patrimoniale.
La prima deroga alla libera circolazione
dei capitali è prevista al comma 1, lettera a), laddove si consente agli
Stati membri “di applicare le pertinenti disposizioni della loro
legislazione tributaria in cui si opera una distinzione tra i
contribuenti che non si trovano nella medesima situazione per quanto
riguarda il loro luogo di residenza o il luogo di collocamento del loro
capitale”.
Partiamo male, insomma, perché questa norma serve esattamente
agli scopi opposti rispetto a quelli che ci interessano: garantisce
infatti “agli
Stati membri la possibilità di praticare una tassazione agevolata per i
non residenti al fine di favorire l’afflusso nei loro territori di
capitali provenienti dall’estero”.
In pratica, la norma stabilisce
la legittimità dei regimi fiscali agevolati per non residenti che hanno
garantito a Paesi come il Regno Unito, l’Irlanda e l’Olanda ingenti
flussi di capitali esteri.
La seconda deroga è contenuta, sempre al
comma 1 dell’art. 65 del TFUE, nella successiva lettera b), e ci dice
che sono consentite “tutte le misure necessarie per impedire le
violazioni della legislazione e delle regolamentazioni nazionali, in
particolare nel settore fiscale e in quello della vigilanza prudenziale
sulle istituzioni finanziarie, o di stabilire procedure per la
dichiarazione dei movimenti di capitali a scopo di informazione
amministrativa o statistica, o di adottare misure giustificate da motivi
di ordine pubblico o di pubblica sicurezza”. Sono individuate dunque
due distinte fattispecie entro cui appare possibile bloccare il
movimento dei capitali: i casi di “violazione” di leggi nazionali – e
qui si cita esplicitamente il settore fiscale – ed i casi in cui venga
compromesso l’ordine pubblico o la pubblica sicurezza.
Il primo caso, nonostante le apparenze,
non ci aiuta in alcun modo, perché colpisce solamente quei movimenti di
capitale operati per violare la normativa fiscale, cioè per evadere le
tasse. Vale qui la pena ricordare quale sia la distinzione tra evasione
ed elusione fiscale: sono entrambi metodi per sfuggire al fisco, ma
mentre l’evasione passa per la violazione delle leggi, l’elusione si
muove sul crinale della legalità, consistendo in tutte quelle manovre
che sfruttano le pieghe della legge per sottrarre base imponibile al
fisco.
Ecco, i Trattati europei ci dicono che possiamo fermare i capitali che stanno fuggendo dopo essere stati dichiarati base imponibile, cioè dopo essere stati oggetto di un’obbligazione a pagare.
Ma la stragrande maggioranza dei nostri ricchi, veri gentleman
che non vogliono certo sporcarsi la reputazione, si muovono più che
agevolmente dentro alle regole, e hanno tutti gli strumenti per spostare
il denaro in maniera perfettamente legittima e ben prima che
arrivi la cartella del fisco.
I grandi patrimoni finanziari tagliano la
corda non appena sentono l’odore di una patrimoniale in lontananza.
Si
pensi che tra il giugno 2011 e il giungo 2012, cioè quando l’Italia fu
investita dalla crisi del debito pubblico che portò al Governo tecnico
presieduto da Mario Monti, il Fondo Monetario Internazionale ha stimato un deflusso di capitali dall’Italia pari a circa il 15% del Pil, circa 235 miliardi di euro: non si trattava certo di un governo socialista, ma bastarono un dibattito su una Mini-Patrimoniale
pari all’1 per mille della ricchezza finanziaria e sentori di
instabilità finanziaria per dare il via alla fuga.
Immaginatevi cosa
potrebbe accadere se si parlasse dell’1 per cento, o addirittura di
un’aliquota più alta, quale quella che ci piacerebbe poter introdurre
per operare un po’ di sana redistribuzione dei redditi.
Per questo, i movimenti di capitali che
vorremmo bloccare noi non rientrano nella prima fattispecie del comma 1,
lettera b) dell’art. 65 del TFUE, ma si muovono agevolmente dentro al
quadro normativo europeo, anche perché spesso e volentieri assumono la
veste di investimenti diretti esteri (IDE). Questi sono investimenti
volti all’acquisizione di partecipazioni ‘durevoli’ (di controllo) in
un’impresa estera o alla costituzione di una filiale all’estero, che
comporti un certo grado di coinvolgimento dell’investitore nella
direzione e nella gestione dell’impresa partecipata o costituita.
Nella
maggior parte dei casi, gli IDE sono destinati alla costituzione di holding companies
nei paradisi fiscali: nessun investimento in una reale attività
industriale, ma mere scappatoie per i patrimoni in fuga dal fisco.
Prendiamo un dato che vale più di mille parole: le statistiche
di Banca d’Italia mostrano come Lussemburgo, Olanda e Regno Unito siano
le mete preferite dei capitali in uscita dal nostro Paese.
Nel 2018 lo stock
di investimenti diretti era pari a 48 miliardi verso il Lussemburgo, 73
miliardi verso l’Olanda contro soltanto 32 miliardi diretti negli Stati
Uniti.
Pensate forse che il Lussemburgo o l’Olanda abbiano una
struttura produttiva capace di attrarre più investimenti produttivi
degli Stati Uniti? Ovviamente, dietro agli IDE si celano meri
trasferimenti di fondi, tutt’altro che investimenti produttivi: le
autostrade create dall’Unione europea per far viaggiare i capitali in
libertà hanno molte corsie e non ammettono ostacoli agli interessi dei
più ricchi.
Per quanto riguarda l’ultima deroga, si
parla dei casi in cui sia compromessa la pubblica sicurezza o l’ordine
pubblico.
Si tratta di una fattispecie creata per arginare i movimenti
di denaro delle organizzazioni terroristiche e criminali, oppure per
tutelare la stabilità finanziaria di un Paese (e dunque dell’intera
Unione monetaria, in virtù delle forti interconnessioni tra le
economie), come è avvenuto nei casi di Grecia e Cipro.
Nulla che possa favorire l’applicazione di una giusta patrimoniale.
In sintesi, i capitali in fuga dalla
patrimoniale non starebbero violando alcuna legge, né starebbero
compromettendo l’ordine pubblico o la sicurezza pubblica, e quindi
avrebbero – come sempre è avvenuto – il semaforo verde da parte delle
istituzioni europee.
Eccoci giunti alla conclusione che, purtroppo,
nessuna patrimoniale giusta, come nessuna forma di sostanziale
redistribuzione, è possibile nel contesto di libera circolazione dei
capitali imposto dai Trattati europei.
Tornando
all’oggi, promuovere l’introduzione di un’imposta patrimoniale per
raccogliere le risorse necessarie e fronteggiare l’epidemia è un nobile
segnale del desiderio di provare ad invertire una tendenza che vede la
ricchezza concentrarsi sempre di più nelle mani dei pochi.
Rischia,
tuttavia, di essere poco più che una lodevole enunciazione di principi, a
causa dell’architettura istituzionale dell’Unione europea: se
opportunamente disegnata in modo tale da colpire solo i ricchi,
l’imposta finirebbe per raccogliere poco o nulla a fronte di una rapida
ma ordinata fuga dei capitali. Per questa ragione, è altamente probabile
che si opti per una patrimoniale ben diversa da quella che sogniamo, e
cioè per la solita patrimoniale che ricade sulla testa dei lavoratori,
sulla quota di ricchezza diffusa tra i piccoli e piccolissimi
risparmiatori, quelli che non hanno i mezzi per eludere il fisco.
Lavoratori e pensionati che pagano il conto della crisi: è la ricetta
dei nostri nemici, non ci stupiamo se il PD la mette sul tavolo, ma evitiamo di portare acqua a quel mulino.
La lotta per una patrimoniale giusta è una necessità, un dovere politico. Per poter condurre questa lotta in maniera coerente e non solo testimoniale, siamo però costretti a muoverci oltre i confini del possibile che ci sono imposti dall’Unione europea.
Siamo costretti a mettere in discussione i Trattati, la libera
circolazione del capitale e tutti i vincoli che impediscono ai
lavoratori di ambire ad una vita migliore.
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