lunedì 20 aprile 2020

Casa dolce casa… e giù botte

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Per molte donne, soprattutto in questo periodo di segregazione forzata, la casa, invece di essere un luogo sicuro, sta diventando la sede di piccole e grandi violenze fisiche, psicologiche ed economiche.
I delitti, la rabbia, la gelosia, la violenza contro le donne sono commessi quasi esclusivamente da padri, mariti, partner, familiari e conoscenti. Non si tratta solo di stalking o revenge porn, si tratta di botte, di pugni, di schiaffi e calci, di sedie tirate in testa, di lividi, di costole ammaccate, di occhi neri, di denti rotti, di fratture, di violazioni sessuali.
A causa del confinamento coatto, Lele, una donna cinese di 26 anni, della provincia di Anhui, nella Cina orientale (nytimes.com), è stata costretta dal marito ad affrontare discussioni e polemiche continue. Conosciamo bene la situazione. Siamo tutti arrivati sull’orlo in cui la deduzione logica, quasi pedagogica, o il sillogismo forzato e la guerriglia retorica, reclamano il passaggio all’azione.

Il primo marzo, Lele era in cucina, con il figlio di 11 mesi in braccio, il marito ha iniziato a colpirla con un seggiolone. Alla fine una gamba ha ceduto ed è caduta a terra, sempre tenendo il figlio stretto al petto. Una foto della scena mostra le assi di metallo del seggiolone spezzate, e le gambe di Lele completamente coperte di lividi ed ematomi.
Durante l’epidemia, racconta Lele, non potevo uscire, i conflitti sono diventati sempre più grandi e sempre più frequenti. Anche telefonare era impossibile, ero sorvegliata a tutte le ore.

Nel Regno Unito le telefonate alla hotline nazionale per segnalazioni di abusi e violenze sono aumentati del 65% (bbc.com).
Negli USA, Kai, un’adolescente abusata dal padre, viveva a New York con la madre. La donna sbarcava il lunario come commessa in un negozio. Quando il negozio è stato chiuso, e la donna è rimasta senza  assicurazione sanitaria, ha cominciata a soffrire di disturbi mentali. La figlia è stata costretta a trasferirsi dal padre. Pensavo, dice Kai, che le cose con il virus si sarebbe messe a posto in pochi giorni, e invece non passa.

Solo pochi mesi prima Kai aveva iniziato una terapia per riprendesi da anni di abusi fisici e sessuali da parte di suo padre, abusi iniziati da quando era bambina. Adesso che le cose stavano andando bene, e la terapia stava cominciando a funzionare, ecco arrivato l’incubo della ritorno con il padre, aggravato dal confinamento.
In tutto il mondo i centri di sostegno alle donne vittime di violenza sono stati costretti a ridurre a zero i contatti fisici. In Francia, che ha uno dei più alti tassi di violenza domestica, 219 mila donne subiscono violenze fisiche e sessuali da parte dei partner.
Secondo quanto ha dichiarato il Ministro dell’Interno (Euronews), nella fase di lockdown, l’intervento della polizia a seguito di segnalazioni per violenza domestica è aumentato del 32% fuori Parigi, e del 36% a Parigi.
Nel 2018 il CADOM (Centro Aiuto Donne Maltrattare) di Monza ha accolto 274 donne maltrattate, ha fornito accoglienza volontaria per 5150 ore, più 670 ore di incontri sul territorio. Le violenze e i maltrattamenti provenivano per l’89% dal partner o ex-partner, per l’8% da familiari (genitore, fratello, figlio), e solo per il 3% da estranei. Il 31% delle donne è dovuta recarsi in pronto soccorso. Non c’è da stare allegri.
Per effetto della segregazione il CADOM ha dovuto sospendere i colloqui individuali con le donne. È rimasto attivo solo il soccorso telefonico. Ma per una donna segregata, telefonare è un problema. Mandare un messaggio o un vocale è un problema. Il telefono è una mano tesa a chi sta fuori. Ma il fratello grande, più spesso il marito, sono lì a sorvegliare e punire, a menare le mani, mani nodose, pesanti, reali, di quella realtà dura e feroce a cui tanti benpensanti vorrebbero che ritornassimo presto.

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