Dieci anni di arsenico. La condanna non è stata decretata da un tribunale ma dalla cattiva amministrazione. Il balletto delle deroghe per consentire l’uso di un’acqua potabile con una quantità eccessiva di arsenico è cominciato nel 2003 e non si è ancora concluso.
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Siamo arrivati al gennaio 2013 e questa volta l’allarme viene lanciato dal commissario europeo per l’Ambiente Janez Potocnik che, in una lettera indirizzata “ai miei amici italiani preoccupati per il contenuto di arsenico nelle acque destinate al consumo umano in alcune regioni italiane”, spiega la situazione: “Tutte le deroghe concesse dalle due decisioni della commissione sono scadute il 31 dicembre 2012. Ora tutte le zone di approvvigionamento idrico devono rispettare la direttiva sull’acqua potabile”. Dunque “le autorità italiane sono tenute a presentare una relazione entro la fine di febbraio 2013 per illustrare i progressi nei loro interventi di bonifica”.
A scanso di equivoci è bene precisare che il pericolo di cui stiamo parlando non è immediato. Anche se la parola “arsenico” evoca una minaccia fulminante, l’Unione europea prevede la possibilità di deroghe, cioè periodi in cui è ammesso il consumo di un’acqua con una percentuale un po’ superiore di arsenico, perché il rischio sanitario nasce dall’accumulo, cioè dal consumo prolungato. Ma questi periodi devono essere limitati: una cosa è evitare l’allarmismo, una cosa è chiudere gli occhi per 10 anni.
Anche perché il problema è risolvibile. L’arsenico può finire nell’acqua per molti motivi. In parte per cause naturali, cioè perché è contenuto nel terreno. In parte per episodi di inquinamento che possono anche essere collegati a smaltimento abusivo di rifiuti tossici. In entrambi i casi non è una condanna senza appello: eliminarlo dagli acquedotti è possibile. Ma occorre farlo. Il tempo è scaduto.
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