Il centrosinistra ormai ha due vertici: quello ufficiale, che perde regolarmente, da Veltroni a Bersani. E quello ufficioso: i Marino, le Serracchiani, i Doria, i Pisapia, i Renzi. Che invece mobilitano gli elettori.
l'espresso di Marco Damilano
Contrordine amici e compagni, era stato tutto un abbaglio, tre mesi
di Parlamento e alè, riecco tutto come prima, centro-sinistra
contro centro-destra, Pd contro Pdl, gli amici di Silvio contro gli
anti-Berlusconi. Si respira un grande sospiro di sollievo, di
scampato pericolo, Grillo si è sgonfiato, bene, ora la festa può
ricominciare.
Inutile girarci intorno, è questo lo stato d'animo neppure tanto celato di tanti capi-partito questa mattina, scorrendo i risultati delle elezioni amministrative. A un anno di distanza da quel voto di Parma che segnò il primo exploit vincente del Movimento 5 Stelle sembra esaurirsi la spinta propulsiva della rivoluzione grillina.
Dodici mesi in cui è successo di tutto: lo scandalo della regione Lazio (proprio ieri Franco "Batman" Fiorito è stato condannato in primo grado per appropriazione indebita, per latrocinio, si direbbe in termini comuni). E poi lo tsunami tour, quella strana campagna elettorale invernale, le piazze piene sotto la neve a sentire l'ex comico, la piazza San Giovanni stracolma sotto la pioggia a due giorni dalle elezioni mentre Bersani si rinchiudeva in un teatro, quel voto del 24-25 febbraio strabiliante, mai visto. E ancora i primi mesi di legislatura, le elezioni del Quirinale, l'avvento delle grandi-piccole intese formato Letta-Alfano.
La partita sembra ritornare alle squadre in campo due anni fa: Pd contro Pdl. Colpa del movimento 5 Stelle e dei suoi eletti in Parlamento, innanzitutto, che in questi mesi sono rimasti in tribuna, hanno dato l'impressione di non voler giocare davvero. Avevano promesso di scoperchiare il Parlamento come una scatola di tonno, ricordo l'autentico terrore con cui il Palazzo aspettava la loro calata. E invece si sono messi a litigare tra di loro su chi doveva maneggiare l'apriscatole. Per ora sono stati peggio che inadeguati: ininfluenti, irrilevanti, innocui. Hanno lasciato che a giocare fossero gli altri: gli odiati partiti, i berlusconiani e gli scampoli del Pd. Eppure erano stati votati da otto milioni di elettori proprio per questo: non per aggiustare di qualche spicciolo la loro diaria, non per fare la lista dei giornalisti buoni e cattivi, non per decidere chi doveva andare in tv e chi no, dispute iper-politicistiche, altro che anti-politica, ma per rivoluzionare un sistema politico arrivato alla frutta, anche per conto di chi, magari, non li aveva votati ma si augurava che fossero uno shock salutare.
Colpa, naturalmente, del leader Beppe Grillo. E del vero nucleo ideologico, si sarebbe detto in altri tempi, del Movimento: l'idea che Uno vale Uno e dunque un portavoce vale l'altro, se Crimi e Lombardi si rivelano un disastro non importa, e un candidato-sindaco vale l'altro, inutile cercare il nome migliore da lanciare in competizione. Tutti possono fare il sindaco, chiunque può farlo, è questa l'ideologia Grillo-Casaleggio. Non è affatto vero, come dimostrano i risultati disastrosi di ieri. Le persone contano, contano le storie. E' il motivo per cui a Roma il primo turno è stato vinto da Ignazio Marino. Un candidato percepito come lontano dall'apparato e dalle correnti, al pari di Debora Serracchiani che vinse in Friuli nel momento più drammatico delle elezioni quirinalizie. A Roma la segreteria del Pd si era dimessa in blocco all'inizio della campagna elettorale, Marino ha corso nella più totale solitudine, senza avere una mano da nessuno. E ha vinto il primo turno alla grande nonostante questo. O forse, proprio grazie a questo.
Si può comprendere la soddisfazione dei politici di professione, finalmente una vittoria della vecchia guardia contro l'anti-politica, meno la malcelata esultanza di qualche commentatore che trae spunto dal flop di Grillo per tornare a nutrire il proprio cinismo. Ma non si può fare evitare di notare che, dal punto di vista del rapporto tra la politica e la società italiana, nulla, davvero nulla è cambiato. Non uno dei voti che sono andati al movimento di Grillo negli ultimi mesi è tornato al Pdl al Nord, per esempio a Treviso, o al Pd nelle zone centrali e nelle regioni rosse. Il Pd che oggi dichiara il suo trionfo a Roma con Marino ieri ha portato a casa in termini assoluti 267.605 voti, tre mesi fa alle politiche erano stati 458.637. In tre mesi a Roma il Pd ha perso per strada quasi 200mila voti. L'intera coalizione di Marino ha preso quasi 30mila voti in meno delle politiche, in presenza del disastro Grillo (287mila voti in meno tra febbraio e maggio).
Il bipolarismo Pd-Pdl che risorge nelle città dopo essere morto
nella Roma delle larghe intese è in apparenza identico a quello
della Seconda Repubblica, ma in realtà è in formato ridotto,
ristretto, bonsai. I due grandi si sono rimpiccioliti: sono gli
stessi, ma più fragili, più deboli, più minuscoli.Inutile girarci intorno, è questo lo stato d'animo neppure tanto celato di tanti capi-partito questa mattina, scorrendo i risultati delle elezioni amministrative. A un anno di distanza da quel voto di Parma che segnò il primo exploit vincente del Movimento 5 Stelle sembra esaurirsi la spinta propulsiva della rivoluzione grillina.
Dodici mesi in cui è successo di tutto: lo scandalo della regione Lazio (proprio ieri Franco "Batman" Fiorito è stato condannato in primo grado per appropriazione indebita, per latrocinio, si direbbe in termini comuni). E poi lo tsunami tour, quella strana campagna elettorale invernale, le piazze piene sotto la neve a sentire l'ex comico, la piazza San Giovanni stracolma sotto la pioggia a due giorni dalle elezioni mentre Bersani si rinchiudeva in un teatro, quel voto del 24-25 febbraio strabiliante, mai visto. E ancora i primi mesi di legislatura, le elezioni del Quirinale, l'avvento delle grandi-piccole intese formato Letta-Alfano.
La partita sembra ritornare alle squadre in campo due anni fa: Pd contro Pdl. Colpa del movimento 5 Stelle e dei suoi eletti in Parlamento, innanzitutto, che in questi mesi sono rimasti in tribuna, hanno dato l'impressione di non voler giocare davvero. Avevano promesso di scoperchiare il Parlamento come una scatola di tonno, ricordo l'autentico terrore con cui il Palazzo aspettava la loro calata. E invece si sono messi a litigare tra di loro su chi doveva maneggiare l'apriscatole. Per ora sono stati peggio che inadeguati: ininfluenti, irrilevanti, innocui. Hanno lasciato che a giocare fossero gli altri: gli odiati partiti, i berlusconiani e gli scampoli del Pd. Eppure erano stati votati da otto milioni di elettori proprio per questo: non per aggiustare di qualche spicciolo la loro diaria, non per fare la lista dei giornalisti buoni e cattivi, non per decidere chi doveva andare in tv e chi no, dispute iper-politicistiche, altro che anti-politica, ma per rivoluzionare un sistema politico arrivato alla frutta, anche per conto di chi, magari, non li aveva votati ma si augurava che fossero uno shock salutare.
Colpa, naturalmente, del leader Beppe Grillo. E del vero nucleo ideologico, si sarebbe detto in altri tempi, del Movimento: l'idea che Uno vale Uno e dunque un portavoce vale l'altro, se Crimi e Lombardi si rivelano un disastro non importa, e un candidato-sindaco vale l'altro, inutile cercare il nome migliore da lanciare in competizione. Tutti possono fare il sindaco, chiunque può farlo, è questa l'ideologia Grillo-Casaleggio. Non è affatto vero, come dimostrano i risultati disastrosi di ieri. Le persone contano, contano le storie. E' il motivo per cui a Roma il primo turno è stato vinto da Ignazio Marino. Un candidato percepito come lontano dall'apparato e dalle correnti, al pari di Debora Serracchiani che vinse in Friuli nel momento più drammatico delle elezioni quirinalizie. A Roma la segreteria del Pd si era dimessa in blocco all'inizio della campagna elettorale, Marino ha corso nella più totale solitudine, senza avere una mano da nessuno. E ha vinto il primo turno alla grande nonostante questo. O forse, proprio grazie a questo.
Si può comprendere la soddisfazione dei politici di professione, finalmente una vittoria della vecchia guardia contro l'anti-politica, meno la malcelata esultanza di qualche commentatore che trae spunto dal flop di Grillo per tornare a nutrire il proprio cinismo. Ma non si può fare evitare di notare che, dal punto di vista del rapporto tra la politica e la società italiana, nulla, davvero nulla è cambiato. Non uno dei voti che sono andati al movimento di Grillo negli ultimi mesi è tornato al Pdl al Nord, per esempio a Treviso, o al Pd nelle zone centrali e nelle regioni rosse. Il Pd che oggi dichiara il suo trionfo a Roma con Marino ieri ha portato a casa in termini assoluti 267.605 voti, tre mesi fa alle politiche erano stati 458.637. In tre mesi a Roma il Pd ha perso per strada quasi 200mila voti. L'intera coalizione di Marino ha preso quasi 30mila voti in meno delle politiche, in presenza del disastro Grillo (287mila voti in meno tra febbraio e maggio).
Una mela spaccata a metà: a Roma, la capitale della politica, il teatro di ogni corteo e di ogni nefandezza, ha votato un elettore su due.chi voleva il cambiamento, in parte, questa volta è rimasto a casa perché non ha trovato un'offerta politica adeguata. L'ha scritto Ilvo Diamanti: l'astensione è una forma di partecipazione. L'altra metà ha votato in gran parte per il ricambio, vedi il 42 per cento di Marino. Segno che c'è nel centrosinistra, nonostante tutto, c'è un elettorato lucido, intelligente, paziente, perfino ironico. Più capace di tollerare, di sopportare e di provare a vincere dei suoi rappresentanti e dirigenti.
Nel Pd c'è ormai una doppia nomenclatura: quella di largo del Nazareno, che monopolizza le direzioni e le assemblee, che organizza le conte sui segretari da innalzare e da abbattere, che ha nominato i gruppi parlamentari. E i newcomers, gli eletti nelle città e nelle regioni, che non sono più i Bassolino, Rutelli, Veltroni, Enzo Bianco, pesi massimi nei loro partiti, ma atipici e irregolari come Serracchiani, Doria, Pisapia, Emiliano, ora Marino. Con qualche eccezione: Fassino a Torino. E Renzi, naturalmente: politico di professione ma corpo estraneo nella foto di gruppo dei capicorrente nazionali. Tocca a loro ricostruire il Pd. Ai Renzi, ai Marino, nelle loro diversità, e a un personaggio come Fabrizio Barca che non può essere relegato ai dibattiti accademici, se si vuole tornare a vincere. Se si vuole fare tesoro di quello che è successo in questi tre mesi e intercettare davvero la domanda di cambiamento che arriva dalla società. Per il bipolarismo ridotto, ristretto, rattrappito, per sorvegliare una fettina di consenso sempre più esigua basta invece un Epifani. Sperando che gli altri, i delusi, gli arrabbiati, i senza-rappresentanza restino a casa, però: ambizione davvero modesta, per un partito che si propone di cambiare il Paese.
Ps Con la sconfitta al primo turno di Gianni Alemanno finisce una storia: la filiera post-fascista Msi-An. La destra aveva scelto il Campidoglio come ridotta della Valtellina, se il risultato fosse confermato al secondo turno gli eredi di Giorgio Almirante sarebbero tagliati fuori da tutto. Ora Alemanno farà di tutto per resistere, ma avrà bisogno di un Berlusconi al massimo della potenza di fuoco. Difficile che il Cavaliere voglia spendersi per salvare l'ex camerata Gianni.
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