Più che far ripartire i consumi, frase che continuiamo a sentire da tempo, anche se non capiamo bene quali manovre chi ne avrebbe la responsabilità intenda fare perché ciò avvenga, bisognerebbe far ripartire la scuola.
È
vero. Una ripresa dei consumi avrebbe effetti immediati sulla nostra
economia e potrebbe risollevarci dalle condizioni miserevoli in cui ci
dibattiamo. Ma, abbracciando una visione più a lungo raggio, anche una
boccata di ossigeno alla scuola pubblica avrebbe effetti incredibilmente
positivi sui singoli, sulla collettività e persino sull’economia. Il rapporto annuale dell’Istat ne è una conferma. I dati relativi alla popolazione italiana parlano chiaro. Si chiamano Neet (Not in Education, Employment or Training):
giovani non più inseriti in un percorso scolastico/formativo, ma
neppure impegnati in un’attività lavorativa. Non studiano e non
lavorano. Hanno dai 15 ai 29 anni e nel 2012 sono arrivati a 2 milioni
250mila, pari al 23.9%. Vuol dire che in Italia un giovane di quella
fascia di età su 4 si trova in quella terribile condizione. Si tratta
della quota più alta in Europa, quell’Europa che ci chiede sempre
qualcosa, Invalsi compreso; così almeno nella manipolazione di politici e
amministratori. Che posizione ha l’Europa davanti a questo dramma?
Oltre a “obbligare” all’Invalsi, non esige un intervento concreto per
affrontare una simile situazione?
Questi
numeri costituiscono innanzitutto tragedie individuali: destini
(socialmente ed economicamente determinate) che confermano, attraverso
il proprio percorso, nascite svantaggiate e che non hanno trovato nella scuola il luogo della rimozione degli ostacoli
che si sono frapposti tra loro e l’espressione della loro personalità.
Il futuro che li attende difficilmente sarà positivo. Ma costituiscono
anche tragedie sociali ed economiche. I costi della mancanza di
educazione; quelli dell’emarginazione sociale; l’assenza della
frequentazione di un ambiente votato alla determinazione di pratiche di
legalità e di sollecitazione di competenze di cittadinanza; infine la
debolezza di apprendimenti fondamentali (si pensi al fenomeno dell’analfabetismo di ritorno,
sul quale recentemente è ritornato Tullio De Mauro, sottolineandone i
costi anche in termini di democrazia) ricadono drammaticamente su tutta
la collettività.
Quei 2 milioni e 250mila cittadini italiani
hanno davanti a sé un destino probabilmente non positivo. Come
individui e come cittadini la loro esistenza sarà purtroppo condizionata
dal gap incolmabile di un abbandono della scuola troppo precoce. Finché
il Paese non riconoscerà davvero questa come una priorità inderogabile,
sulla quale definire strategie di carattere culturale, amministrativo,
ordinamentale – e cioè una vera “riforma” della scuola – che parta
realmente dalla fotografia dell’esistente (fatta di donne e uomini, di
diritti, di bisogni) e non da alchimie ragionieristiche, i costi della
descolarizzazione ricadranno sull’erario, sulle nostre tasse e sui
destini individuali. Renderanno la nostra società più povera non solo di
danaro, ma anche di libero pensiero ed esercizio consapevole della
cittadinanza. Si perderà definitivamente la sfida dell’inclusione dei nuovi italiani, privandoli di quegli strumenti emancipanti di una condizione, comunque e il più delle volte, di marginalità e di diversità.
Serve una riforma che faccia dell’innalzamento dell’obbligo scolastico
(l’obbligo di tutti ad andare a scuola per tutto il biennio delle
superiori) in una scuola diversa, in grado di accogliere e mantenere
responsabilmente al proprio interno tanto i capaci e meritevoli quanto
chi arranca, chi non vuole e, soprattutto, chi non può.
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