martedì 26 settembre 2023

Occidente predone: tramonto finale

SULLA PELLE DEGLI ALTRI – L’ascesa delle potenze “classiche” avvenne grazie alle razzie delle ricchezze nelle colonie, le stesse da dove partono i migranti; ma in questa fase stiamo assistendo a un riequilibrio globale.


(DI FRANCO CARDINIilfattoquotidiano.it) 

Quando cominciano, nel mondo, le ere nuove? È un vecchio problema, e non solo di periodizzazione.

Certo, le “ere” storiche sono una convenzione; e ancor più lo sono gli avvenimenti che noi prendiamo volta per volta a simbolo del chiudersi o dell’aprirsi di un’epoca. La presa della Bastiglia del 1789 e la battaglia di Valmy del 1792 continuano tuttavia a occupare, nel nostro immaginario, un ruolo analogo alla conquista di Granada e alla scoperta del Nuovo Mondo del 1492. 

Sappiamo bene che si tratta di simboli e di convenzioni: tuttavia, non è solo per abitudine scolastica che restiamo intimamente fedeli all’idea schematica che l’età moderna sia sorta nel 1492 e tramontata, appunto, nel 1789-1792 per dar luogo all’età contemporanea. 

Quelle due età sono entrambe tuttavia da ascrivere al più ampio e complesso momento della storia di un “Occidente” che rappresenta l’espansione dell’Europa fuori di se stessa, l’imposizione della sua supremazia e l’avviarsi di un’economia-mondo: di quel processo che ormai siamo abituati a definire “globalizzazione” o “mondializzazione”. 

Tale lungo momento, durato all’incirca mezzo millennio, è forse correttamente o comunque plausibilmente definibile appunto nel suo complesso come “Modernità”: per contro, il da troppi celebrato “Postmoderno” permane in realtà nell’indefinita e indefinibile bruma dei concetti ardui a comprendersi. E si apre un problema destinato a ricevere complesse, contraddittorie risposte: “Occidente”, “egemonia dell’Occidente sul mondo” e “Modernità” sono dimensioni considerabili come sinonimiche?

(…) Nella seconda parte del XX secolo presero ad affermarsi, in parallelo con l’avanzare dei processi di “decolonizzazione” politica e di “neo colonializzazione” finanziaria, diplomatica e tecnologica, varie forme di rivendicata o di dissimulata supremazia di movimenti neo cristiani o postcristiani successori del colonialismo storico nei confronti d’indigeni “pagani” o “infedeli” o neo convertiti o rimasti sinceramente e più o meno solidamente cristiani. Ciò era destinato a non rimanere privo di risposte da parte né di alcune componenti del panorama del fondamentalismo religioso africano, né di gruppi religioso-politici negli altri continenti. I crimini del colonialismo in tempi sia lontani sia prossimi sono successivamente tornati o stanno tornando a galla: e insieme con essi la realtà che sia stato in buona parte grazie a quei crimini, ben noti almeno alle nostre classi dirigenti, che il mondo occidentale (…) ha potuto permettersi, giovandosi del controllo da parte delle lobby finanziarie e imprenditoriali statunitensi ed europee nonché sovente con la complicità degli stessi governi locali, di gestire la sistematica spoliazione degli interi continenti africano e latinoamericano: da qui, fra l’altro, l’esodo massiccio di migranti indigeni che fuggono da quelle immense aree depresse il suolo e il sottosuolo delle quali rigurgita peraltro di ricchezze drenate. Dalla Bolivia all’Africa occidentale, la gente più miserabile del mondo lascia i suoi paesi dal suolo e dal sottosuolo ricchissimi, al pieno possesso delle cui risorse avrebbero pur diritto secondo la Carta dell’Onu, per cercare asilo e lavoro in Paesi divenuti opulenti grazie alla secolare rapina di quegli stessi sventurati popoli. E la rapina continua: non ci sono conferenze internazionali, né denunzie all’Onu, né appelli all’opinione pubblica internazionale, né patti intergovernativi bilaterali, né progetti di sviluppo che tengano.

(…) La violenza, la frode, la corruzione sono stati gli ingredienti strutturali del colonialismo; e il colonialismo una delle colonne portanti della vita, della potenza, della prosperità dell’Occidente; e l’abolizione dello schiavismo, da un certo momento in poi della nostra storia sette-ottocentesca, è stata del tutto funzionale e compatibile con la dinamica dello sviluppo delle nostre classi dirigenti e addirittura con le dinamiche e i costi della produzione. Questo atroce non-senso, questo scandalo senza nome, i signori di Wall Street e della World Trade Organization nonché gli elitari frequentatori dei meeting di Davos lo conoscono perfettamente. Esso ha provocato e continua a provocare, ha prodotto e continua a produrre guasti immani, comprese le ricorrenti epidemie di terrorismo, le carestie, le guerre e la tragedia senza fine dei boat people, quelli che noi chiamiamo – con un’espressione da disinvolto turismo balneare – “gommoni”. La casistica dei misfatti coloniali riempirebbe intere grandi biblioteche e quel poco che se ne sa o che se ne potrebbe sapere anche solo informandosene senza sforzo grida da solo vendetta al cospetto di Dio. Ma non parlano mai o quasi mai seriamente di queste cose né la nostra educata e schizzinosa società civile, né i media asserviti alle lobby e ai tanti think tank transnazionali che nel loro complesso costituiscono il deep government cui rispondono Paese per Paese, i governi e i partiti che ospitano nel loro seno o tra i finanziatori membri dei “comitati d’affari” lobbistici, né la società civile e la scuola che ne sono degne e magari inconsapevoli complici con il conformismo uso a distribuire patenti di democrazia e di dittatura a comando e a sbattere mostri in prima pagina in modo da coprire mostri ancor peggiori che si nascondono dietro essi.

(…) Non abbandoniamoci a ipotesi di complotto universale o a fantasie dietrologiche coperte dal pretesto di un qualche ingegnoso paradigma indiziario. Il “grande complotto”, si può esserne (quasi) certi, non esiste; non c’è alcuna Tavola (né rotonda, né di altre forme geometriche) attorno alla quale seggano “Superiori Sconosciuti”. Ma disegni e programmi formulati per conseguire interessi particolari di lobby e di corporation da personaggi e da gruppi che contano al di fuori e al di sopra della legalità interna e internazionale, questi sì, ce ne sono parecchi. E le sedi delle corporation, dei club, delle banche, delle imprese, dei pool in cui essi vengono progettati sono ben fornite di stanze dei bottoni, di tavoli, di poltrone e di computer, sia pur non immuni dagli attacchi degli hacker. (…) È troppo presto per comprendere dove sta andando la politica di questi ultimissimi anni; una politica che, peraltro, si trova a far fronte a una crisi climatica che di qui a non molto, complice la desertificazione del sud del mondo, rischia di aumentare i flussi migratori verso i Paesi benestanti, oltre a creare disastri dei quali si stenta a valutare la portata. Se ancora un ventennio or sono le avventure militari Usa sembravano imporli come potenza egemone, oggi lo scenario è diverso. Il governo italiano ha un po’ in sordina ma con decisione definitivamente abbandonato qualunque interesse per il progetto One Belt, One Road egemonizzato dalla Cina: la sua decisione – certo “suggerita” dal nostro potente alleato d’oltreoceano – è stata però giudicata da molti imprenditori della penisola come “in controtendenza”, se non inopportuna per non dire autolesionista. I Brics (…) non sono ancora un’unione militare con esiti paragonabili a quelli della Nato: ma le esercitazioni congiunte di alcuni fra quegli Stati sono ormai sempre più frequenti. La guerra in Ucraina ha spazzato via dalla Russia l’idea che un collegamento politico-economico con l’Europa fosse possibile, così come le bombe hanno spazzato via il Nord Stream tanto voluto dalla Germania e dalla Russia stessa. Oggi la Russia è sempre più “asiatica”, rinforzando la partnership economica con Cina e India, ma anche con altri Paesi asiatici, mentre in Africa le milizie mercenarie Wagner rubano spazio alle vecchie potenze coloniali (Francia, Germania); al contempo, la “Nuova Via della Seta” cinese affronta battute d’arresto in un’Europa sempre più appiattita sulle scelte statunitensi, ma per questo in grave crisi economica, mentre si espande sul suolo africano. È difficile fare la storia del presente, si è detto, soprattutto dinanzi a mutamenti che appaiono con tutta evidenza di portata epocale. Per cui non facciamo previsioni sul domani, neppure su quello prossimo, ma auspichiamo ora più che mai un linguaggio della storia che riesca a narrare la pluralità più di quanto non abbia fatto fino a oggi.

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