La parte «giusta del mondo» non ha fatto nulla per aiutarli e ora non gli resta che sparire. Lottiamo contro lo zar russo «fino a quando sarà necessario» ma perdoniamo subito Aliyev.
(DOMENICO QUIRICO – lastampa.it)
Novantatremila son già fuggiti in Armenia portandosi dietro un calvario di miseria disperazione tragici racconti di violenze stupri ladrocini, umiliazione: l’Artsakh, chiamavano così la loro disgraziata enclave vittima di una Storia contorta, non esiste più. Smacchiata dalle carte geografiche, hanno annunciato gli azeri vincitori. L’alternativa concessa agli armeni: la valigia, ma in qualche caso non è concessa neppure quella, o vivere da minoranza, che vuol dire sparire più lentamente. A loro si aggiungeranno forse gli abitanti della regione armena di Suynik: Baku dice che fu un errore di Stalin, un corridoio perfetto per riunirsi ai fratelli turchi.
Così gli armeni del Nagorno sono diventati l’assenza dei nostri sguardi, la pausa nei nostri impegnati discorsi da parte giusta del mondo, la omertà, questa si davvero mafiosa, del nostro silenzio. Gli armeni di questo frammento insanguinato e derelitto del Caucaso sono la nostra omissione. Che spesso è peccato più grave dell’azione, dell’atto. Non abbiamo fatto nulla per salvarli o alleviare in parte il loro destino. A meno di non considerare qualcosa i cento dollari che l’Unione europea ha regalato a ogni profugo. Una elemosina vergognosa per far che? Qualche pasto, trovare un albergo di fortuna, ubriacarsi e dimenticare? Bruxelles e la sua Commissione: una volta di più un tempio in mano a una congrega di mercanti, capaci di ragionare solo su quanto occorre pagare per scansare i guai e sorreggere la ipocrisia di essere quello che diciamo di essere e non siamo. Per ottusità viltà interesse.
«È tutta colpa di Putin, era lui che doveva difenderli’»: così abbiamo giustificato la nostra voluta impotenza. Traendone anche soddisfatte e sconclusionate conferme del fatto che il presidente russo è indebolito perfino nel suo cortile di casa.
Attendete ancora qualche giorno e questi armeni saranno uno dei tanti nomi che dimenticheremo, quasi ci fosse uno strano destino che ci regala opportune smemoratezze. Saranno gli eterni assenti al nostro comodo banchetto dei diritti umani, gli invitati che non invitiamo, il vuoto che non riempiamo. In cui si installerà invece tronfio e gaudente l’ennesimo lestofante, l’emiro azero, che ci serve, che ci dà una mano energetica e petrolifera. Che custodiamo nelle foto di famiglia con il suo sguardo da baffuto Caliostro negli album dei presidenziali uffici di Bruxelles, di Roma o di Washington: autocrate ma collaborativo, aggressore ma disponibile a ben pagati rifornimenti di emergenza…
Il cerchio si chiude. Chiese e cimiteri si copriranno di erbacce, spariranno sotto il peso dell’incuria, i centoventimila armeni del Nagorno diventeranno rapidamente profughi, rifugiati e poi migranti e clandestini da qualche parte, niente paura sono già milioni, in qualche modo ai “flussi secondari” si provvederà. La loro ombra cala su di noi, non sugli azeri soddisfatti e gesticolanti nel tripudio, ci ricoprirà tutti e poi tornerà a regnare il silenzio più forte delle dichiarazioni, dei disappunti, dei discorsi laici e delle preghiere della domenica, delle religioni e delle rivoluzioni. Lo riempiremo a poco a poco con il nostro presente intatto, a tutto tondo, ben rifinito di danza e di baldoria. E di gravi preoccupazioni, il rialzo delle temperatura, l’inflazione che erode… Dovremmo parlarne agli armeni di tutto questo: tra cinquanta anni saremo tutti morti di clima, altro che il Nagorno e le vostre beghe di un mondo che non sembra cambiato dalla Genesi e che solo il mito può avvicinare, l’esilio, le bombe… Ne trarranno, essendo cristiani, amplissima consolazione nel loro sciagurato presente.
Gli armeni ci sono abituati ad attraversare la vita come scorticati. Dai tempi del criminale triunvirato Talal, Enver e Cemal autori del primo genocidio del Novecento, la loro storia di popolo è piena di punti di sospensione, nei loro silenzi ci sono pieghe tragiche, sfumature orrende, nuvoloni, minacce decifrabili e rari arcobaleni. Per questo sanno rendersi invisibili, farsi passare inavvertiti senza rinunciare mai al loro essere. Ci sono popoli interi nel mondo dominato degli Alyiev, dei Putin, degli Erdogan, ma ahimè! Anche dei Biden e dei Borrell che sono obbligati a contrarsi, a diventare ombre e fantasmi, flebili eco. Non marciano sgusciano, non urlano piangono a bassa voce per non far rumore. Per questo, a furia di soffrire, uomini e donne armeni sono diventati invulnerabili e stoici. E forse è per invidia che non li sopportiamo, per la loro capacità di resistere alla sofferenza. Che noi non abbiamo più. Siamo egoisti anche nel dolore.
Dollari, milioni di dollari miliardi sepolti nelle steppe desolate, nascosti sotto le sabbie sporche di nafta del Caspio che il petrolio uccide lentamente da secoli. In attesa paziente nelle sacche turgide di gas. È con questo tesoro che Aliyev, un satrapo figlio illegittimo del bolscevismo, ho potuto regolare i conti con la fastidiosa spina armena ereditata dalla Storia. Tra i mercanti russi dell’inizio del Novecento circolava questo proverbio: «Chi ha vissuto un anno tra i proprietari di petrolio di Baku non può ridiventare una persona per bene».
Ilham Aliyev ha ereditato dal padre Haydar, che si era fatto le ossa alla Lubianka ai tempi di Andropov, il potere e il gusto per l’intrigo, la abilità nello sfuggire alle congiure, la pazienza per le vendette implacabili e silenziose.
Mettiamo a confronto due personaggi: Putin e Aliyev. Le somiglianze sconcertano: autocrati, discendenti diretti o indiretti del Kgb, strateghi di “operazioni speciali” per smontare popoli molesti, ucraini e armeni, protetti da complici potenti, la Cina e la Turchia, ricchi di gas e petrolio. E poi: Suynik fu un “errore” staliniano, la Crimea ucraina un “errore” di Kruscev…
Perché allora lottiamo contro Putin «fino a quando sarà necessario» e perdoniamo le aggressioni di Aliyev?
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