Nel 1951, uno studente senegalese, Cheikh Anta Diop (nella foto), sfidò il mondo accademico sostenendo che la civiltà dell’Antico Egitto era profondamente neroafricana. Demolì il mito della superiorità dei bianchi, restituì all’Africa il passato che le appartiene.
Un radicale dislivello di civiltà
Ora, i “due bacini (berceaux, in italiano culle, nel lessico francese, ugualmente pertinente, adottato dall’autore) geograficamente distinti” a cui fa riferimento Cheikh Anta Diop sono il Nord e il Sud del pianeta.
Questa distinzione, geografica ma eminentemente culturale e societale, investe tutta la formulazione discorsiva del sapiente nato a Thieytou ed in particolare la concezione di un radicale dislivello di civiltà tra gli abitanti dei due emisferi.
Questo è l’aspetto che interessa particolarmente, dato che l’irruzione dei Sud nella decomposizione del mondo monocentrico si presenta, per le sue valenze culturali e i suoi risvolti epistemologici, come un fenomeno dirompente di “decolonialità”. Si tratta finalmente, dopo cinque secoli a senso unico, inaugurati dalle avventure delle « scoperte », della destrutturazione delle gerarchie planetarie tra i popoli stabilite nel divenire di rapporti di dominazione coloniale che non sono scomparsi nelle decolonizzazioni precedenti.
Per approfondire il discorso sulle due culle, grosso modo corrispondenti ai due emisferi boreale e australe, ed entrare nel vivo della speculazione storico-antropologica di Cheikh Anta Diop al fine di estrapolarne il nucleo essenziale, mette conto situare la posizione de l’Unité culturelle de l’Afrique Noire nell’evoluzione del suo pensiero e nell’insieme della sua opera.
Nel 1954, Cheikh Anta Diop pubblica Nazioni negre e cultura -il suo primo testo in cui espone tre delle tematiche basilari della sua proposta teorica : l’indipendenza dell’Africa, l’origine negro-africana dell’umanità e i presupposti della creazione di uno Stato federale continentale africano.
La sua tesi sull’origine negro-africana della civiltà egitto-nubiana suscito’ all’epoca una forte oppositione da parte della comunità scientifica occidentale, par la quale gli antichi Egiziani erano “bianchi” o al massimo “orientali”, secondo le classificazioni razziali in vigore negli anni ‘50.
Lo storico senegalese apportò una serie di dimostrazioni scientifiche a prova delle sue affermazioni. Scoprì che le procedure di mummificazione dei morti praticate dagli Egiziani non distruggevano l’epiderme fino al punto da rendere impossibile il test di melanina che avrebbe permesso di conoscere il grado di pigmentazione della pelle. Lui stesso pratico’ questi test su dei campioni prelevati dalle mummie del laboratorio d’antropologia fisica del Museo dell’Uomo a Parigi. Sottoposti ai raggi ultravioletti osservati al microscopio, questi campioni non lasciarono dubbi sull’origine negro-africana degli antichi Egizi.
“I contemporanei della nascita dell’egittologia moderna sapevano perfettamente che l’Egitto era una civiltà negro-africana, ma hanno volutamente falsificato la storia”, dichiarò Cheikh Anta Diop trenta anni dopo alla televisione francese.
Alla sua morte, il poeta e uomo di lettere martinichese Aimé Césaire, uno dei padri del movimento della Negritudine, constatò che “gli storici hanno da sempre considerato l’Egitto come un fatto a parte in Africa, dimenticando che si trattava di una nazione africana. Restituendo all’Africa il suo passato, Cheikh Anta Diop ha reso il suo passato all’umanità”.
Rottura epistemologica
Qualche anno dopo, tra il 1959 e il 1960, Cheikh Anta Diop editava due opere intitolate L’Afrique Noire precoloniale e L’Unité culturelle de l’Afrique Noire.
La prima è un’analisi comparata dei sistemi politici e sociali dell’Europa e dell’Africa Nera dall’Antichità fino alla formazione degli Stati moderni. L’eminente storico, egittologo e linguista della Repubblica del Congo-Brazzaville, Théophile Obenga, si espresse in questi termini al momento della sua pubblicazione: “La storia africana è nata al termine di una ricerca scientifica estenuente e ricca in prospettiva per l’umanità, condotta con disinteresse e nella solitudine durante 10 anni, sottoposta a prove di tutti i tipi. La sua originalità fu riconosciuta come momento e passaggio di rottura epistemologica con le visioni etnografiche ufficiali e i paraocchi della storia africanista superficiale e aneddotica. Il quadro generale delle idée e delle conoscenze definito da Cheikh Anta Diop è stato rapidamente assunto a punto di riferimento dei giovani ricercatori africani”.
Certo, la storia africana era nata intorno all’ottavo millennio avanti Cristo con l’avvento in forma embrionale di una civiltà agrario-acquatica nella regione dei Grandi Laghi. Ma Obenga volle sottolineare, con un’affermazione paradossale, la sua irruzione tardiva ma salutare nei laboratori esclusivi della comunità scientifica occidentale che ne aveva, fino ad allora, negato l’esistenza. E va probabilmente riconosciuto che, se il dibattito e il processo della decolonialità si sono aperti nel cuore degli anni ’90, i loro prodromi possono essere datati 40 anni prima con i lavori du Cheikh Anta.
La seconda opera pubblicata all’inizio degli anni ’60, L’unité culturelle de l’Afrique Noire, su cui focalizziamo la nostra attenzione, è un saggio appassionato che lo scienziato senegalese sviluppa sui piani storico e antropologico per contestare la tesi -difesa nell’aeropago degli specialisti in Occidente- di una forma di matriarcato universale dominante nelle strutture primordiali della famiglia nella fase che precede le grandi civiltà.
Un paradigma cognitivo originale
Quello che si rivela nella sua esposizione è il paradigma cognitivo adottato nello studio di un’era dell’Antichità distante tra gli otto e i dieci millenni dalla nostra epoca.
Cheikh
Anta Diop elabora una griglia interpretativa duale, costituita da un
mondo nordico indo-europeo e un mondo meridionale, le cui differenze
ambientali e climatiche avrebbero prodotto dei sistemi sociali diversi.
In sintesi: se la culla settentrionale era caratterizzata dal nomadismo, dal patriarcato e dalla cremazione, la culla meridionale lo era per la sedentarietà, il matriarcato e l’inumazione.
Si deve anche insistere anche sul fatto che, se i suoi lavori sono consacrati all’Africa Nera, Cheikh Anta si riferisce qui sistematicamente al suo continente come parte del bacino meridionale e alle « società meridionali » in generale, di cui non mancano osservazioni e digressioni sull’Asia, l’Oceania e l’America del Sud. Non sarà vano sottolinearlo poiché, se è vero l’emergere del Sud Globale nella definizione di nuovi rapporti di forza planetari, la rilettura dell’« Unité culturelle de l’Afrique Noire » è strumento indispensabile e stimolante. Nell’esporre la sua teoria riccamente argomentata della “doppia culla”, lo storico di Thieytou implica tutte le regioni meridionali del globo senza limitarsi all’Africa ed iscrive la sua prassi discorsiva nel divenire del Gran Meridione.
D’altra parte, alcuni momenti tematici dell’”Unité culturelle de l’Afrique Noire” sono ripresi ed approfonditi nell’opera successiva Antérioritè des civilisations nègres. Mythe ou vérité historique? (Anteriorità delle civiltà negro-africane. Mito o verità storica ? Pubblicato in francese da Présence Africaine), uscito nel 1967. Nell’ultimo capitolo del testo, un nuovo elemento d’analisi storica è introdotto, esplicitato nel titolo: “Trasmissione dei valori culturali e delle conoscenze dell’Egitto alla Grecia, e dalla Grecia al mondo”.
Il contributo dell’Egitto negro-africano al mondo classico occidentale, qui storicizzato nel dettaglio, è stato poi ripreso dal sinologo inglese Martin Bernal nella sua opera in 4 volumi intitolata Atena Nera. Le radici afroasiatiche della civiltà classica (1987), pubblicata in italiano da Pratiche Editrice (1991). I lavori di Bernal si inseriscono in una corrente di pensiero anglo-americana chiamata Black Studies, che si propone di “sminuire l’arroganza culturale europea”. Nel suo avvento, è difficile non vedere l’impronta, in quanto pioniere-precursore, di Cheikh Anta Diop, d’altronde largamente citato da Bernal.
Il Buen Vivir e l’Ubuntu
La proiezione dell’unità culturale dell’Africa nera nella più vasta unità culturale del Sud Globale è tutt’altro che arbitraria, al contrario. Bisogna allora individuarne alcuni elementi basici, mentri gli addetti alla comunicazione dei media mainstream occidentali cercano di esorcizzarne la portata.
Pour l’Opinion – quotidien conservateur français – du 3 mai 2023, il Sud resterebbe “introvabile” e nessun modello alternativo all’Occidente avrebbe fin qui fatto le sue prove in maniera coerente e credibile. Secondo RFI (Radio France International) del 15 settembre, il Sud Globale resterebbe “un concetto ideologico imperfetto”.
Quello che i fabbricanti dell’opinione occidentale fingono di non capire è che, nell’attuale battaglia politica per un mondo pluripolare, non si tratta di opporre un nuovo modello al vecchio in perdizione. L’idea del Gran Meridione che s’invera nella realtà delle relazioni internazionali potrà imporsi se, aldilà delle dinamiche statuali, sarà in grado di portare a buon fine la decolonizzazione del pianeta.
E’ nostra convinzione che il Sud Globale sarà il Sud Globale dei popoli o non sarà. Le sue culture vanno situate di conseguenza al primo posto, mettendone in evidenza l’unità profonda nelle diversità feconde. Il “riconoscimento delle forme di vita dei popoli originari”, che Vasapollo e Martufi sottolineano nell’introduzione all’opera collettiva Futuro Indigeno. La sfida delle Americhe (Jaca Book, 2009), è la prima operazione necessaria per individuare le sorprendenti consonanze delle cosmovisioni e della vita pratica di tutti i Sud.
Valga per tutti, l’esempio della stretta empatia tra le culture andine del Buen Vivir – principio dell’armonia degli umani con la Madre Terra – e la filosofia bantù dell’Ubuntu (Io sono perché tu sei), che stabilisce l’ordine immutabile dell’equilibrio di tutti gli esseri viventi e non con le leggi della natura.
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