La
morale insegnata senza precauzioni diventa una cattedrale deserta che
[gli educati] temono, e di cui spaccano le vetrate, in spregio a questa
vita collettiva che li esclude
(F. Deligny)
Che sorpresa! La gente – repressa, isolata, stordita da droghe legali, inselvatichita dallo sfruttamento e da tre anni di reclusioni – è “tendenzialmente” più infelice e più violenta
chartasporca.it Andrea Muni
Sembra difficile negare che dal presunto ritorno alla normalità post-covid gli episodi di violenza siano in drammatico ed esponenziale aumento.
Dai dati Eurispes del 2022 sui crimini violenti a quelli di Federfarma sull’abuso diffuso di psicofarmaci (per tacere di alcol e droghe), arrivando fino alle aberranti notizie della recentissima attualità, sono fin troppi gli indicatori di una vera e propria escalation. Non si tratta di allarmismo, ma dell’urgenza di inquadrare un fenomeno che, purtroppo, non si esaurirà nel giro di qualche mese.
La violenza di genere, purtroppo sempre in auge, è senza dubbio l’ambito in cui ne vediamo emergere il lato più spaventoso, frequente e giustamente mediatizzato.
Un secondo importante ambito di esacerbazione della violenza riguarda invece la zona grigia delle lesioni personali – dai furti violenti alle estorsioni, dalla gelosia (non solo sentimentale, ma anche in famiglia, tra compagni di lavoro o tra amici) alle aggressioni per futili motivi, dalle risse al bar o in discoteca ai litigi tra vicini e automobilisti per precedenze o parcheggi “rubati”.
In terzo luogo troviamo il dato sugli omicidi volontari e preterintenzionali rilasciati dal Viminale il 23 luglio di quest’anno, che segnala un incremento del 4%.
C’è infine, trasversale, l’aumento della cyber-violenza, specie tra i giovani. Insomma, un ritratto desolante ed esplosivo, che potrebbe avere non poco a che fare con la violenza istituzionale, geopolitica, di classe e mediatica cui siamo tutti incessantemente sottoposti, e che negli ultimi tre/quattro anni ha visto a propria volta un’impennata straordinaria.
Una violenza discorsiva, mediatica e istituzionale diffusa e in esponenziale aumento (ormai pienamente interiorizzata dalle persone “normali”) che spesso viene assorbita, digerita e sintomaticamente ritradotta, specie dalle persone più fragili e in difficoltà, in atti violenti verso gli altri, o verso se stesse.
Dopo le chiacchiere sull’educazione, la repressione
Dove il disagio diffuso rende impossibile nascondere la polvere sotto il tappeto, come a Caivano, vediamo parallelamente riemergere nel suo tetro splendore la classica soluzione repressiva. Lo Stato infatti, dopo le solite chiacchiere sull’educazione, ha già dato il via a ben altri tipi di interventi per l’“educazione” dei marginali. Dalla profilazione dei mariuoli che non vanno scuola alle perquisizioni facili alla stretta in arrivo contro le “baby gang”, e fino al carcere per i genitori di minori che commettono reati, prosegue imperturbata la guerra dello Stato borghese e neoliberale (pseudo-progressista o liberal-conservatore che sia, cambia nulla), contro un sottobosco umano concepito come esercito industriale di riserva da sorvegliare, rieducare o punire. Un sottobosco in continua espansione, che converte quotidianamente la violenza e l’indifferenza istituzionali che subisce in un’estraneità, un odio e un’aggressività (sempre meno repressa) che tendono tristemente a sfogarsi poi a propria volta sempre sui più deboli, sui pesci ancora più piccoli di questa abominevole piramide darwinistico-sociale che ci ostiniamo a chiamare la nostra società. Anche perché, si sa, non c’è niente di più facile, e di tristemente umano, che prendersela coi più deboli… se i forti sono intoccabili e irraggiungibili. Mentre scrivo giunge per altro, fresca, la notizia di camorristi con mitra spianato che terrorizzano i residenti di Caivano in risposta alle misure repressive predisposte dal Governo.
L’odio degli ultimi per la società che li perseguita e reprime
Un coraggioso libro del rabbino Ariel Toaf, “Pasque di sangue”, ha indagato nel 2007 le origini storiche della celebre calunnia del sangue, ovvero la delirante dietrologia antisemita secondo cui gli ebrei da secoli compirebbero riti ematofagi (dilettandosi per di più nella simpatica pratica dell’omicidio rituale e periodico di bambini cristiani). Toaf – ebreo, rabbino, docente universitario emerito di storia medievale a Tel Aviv, nonché figlio dello storico rabbino capo di Roma Elio Toaf – ha sostenuto, scatenando diverse polemiche che lo hanno addirittura costretto a redigere una seconda versione del suo studio, che per un breve periodo nel tardo medioevo alcuni raccapriccianti episodi di tal genere (minoritari, folli, criminali e condannati dalle autorità ebraiche ufficiali) potrebbero anche essere effettivamente accaduti. Toaf ne riconduce le possibili cause – ed è per questo che tale vicenda ci interessa ora qui – alle persecuzioni anti-ebraiche esplose con violenza inaudita in centro-Europa con l’inizio delle Crociate (conversioni forzate e pogrom, cui spesso le famiglie ebree non potevano opporsi altrimenti che con raccapriccianti suicidi di massa). Tali persecuzioni avrebbero secondo Toaf acuito fino al parossismo il ressentiment anti-cristiano di alcune comunità ebraiche di area tedesca, aprendo la strada per un certo periodo (e solo in ristrettissimi gruppi deviati) a pratiche rituali segrete, violente e deliranti. Un po’ lo stesso discorso che vale per i riti violenti e raccapriccianti dei sabba delle streghe (riguardo alla cui reale esistenza storica una lunga e interessante storiografia ci lascia ancora in dubbio). Mentre a rovescio parrebbe dimostrato (almeno secondo lo studio condotto da Georges Bataille sulle documentazioni processuali originali) il reiterato sacrificio di bambini del popolo – a scopi rituali e alchemici – di cui si sarebbe macchiato nella prima metà del ‘400 il ricco e potente nobile Gilles de Rais, Maresciallo di Francia e compagno d’armi di Giovanna d’Arco. Esistono poi fatti storico-sociali oggettivi, come le feste dei folli, dell’asino e i carnevali cristiani ed ebraici medievali e rinascimentali, a testimoniare la plasticità e la dimensione simbolica dello sfogo (auto)aggressivo. In queste feste (come già nei Saturnalia romani) possiamo infatti rintracciare – anche se ormai già ritualizzate e sublimate nello “scherzo” e nella “maschera” – alcune forme classiche di sfogo che i sottomessi e gli abusati hanno inventato per rivoltarsi contro l’ordine normale delle cose, ovvero contro il discorso dominante che li relegava (e li relega ancora oggi), spietatamente, all’odioso rango di “ultimi”, di “paria” e “capri espiatori”.
Da sempre infatti la storia delle rivolte, delle rivoluzioni e persino quella dei grandi stravolgimenti culturali e religiosi ci insegna come non di rado persone appartenenti a gruppi particolarmente perseguitati e sofferenti siano state capaci – in casi eccezionali – di scatenare un odio feroce e aggressivo nei confronti dei valori e dei personaggi istituzionali più sacri alla cultura cui loro stessi appartenevano. Ma quanto più il dilagare del disagio e della rabbia sociale non trova sfogo in forme collettive e politiche, tanto più questo si rifrange inevitabilmente in una miriade di cieche micro-esplosioni individuali di efferata e indistinta violenza comune. Un fenomeno abbastanza tipico, che gioca a tutto vantaggio degli oppressori, che possono così negare il problema sociale e derubricare il problema della violenza a un'”epidemia” di fatti individuali (folli, dettati da ignoranza, criminali, anormali), da “curare” ed “educare” in modo individualizzato.
L’educazione, che dovrebbe insegnare la non violenza, non è forse al fondo essa stessa una pratica strutturalmente violenta e coercitiva?
Il petto si gonfia, lo sguardo si fa tagliente, il politicante da quattro soldi buono solo a schiamazzare e il pedagogo da tastiera a caccia di like si danno virtualmente la mano e sentenziano senza mezzi termini che la soluzione al problema della violenza, nel medio-lungo termine, è – non può che essere, per Dio! – l’educazione. Educazione all’affettività, all’emotività, all’empatia, alla relazione. Come non sottoscrivere una simile petizione di principio? Eppure il problema dell’educazione, sprecato il fiato per i proclami, rimane sempre lo stesso, ovvero: “Cosa vuol dire educare?”.
Come si abita quel lavoro impossibile che è educare qualcuno (per tacere di un’intera collettività) a fare o non fare una certa cosa, a essere o non essere in un certo modo, a provare o non provare certe emozioni? Educare, come governare e curare, era per Freud uno dei tre grandi impossibili dell’etica e dell’azione umana. Con questa celebre boutade Freud non intendeva certo dire disfattisticamente che non bisogna provarci, ma suggeriva piuttosto che governare, curare ed educare sono pratiche, arti, strategie ambigue, piene di trappole e doppi fondi. Mi chiedo quale consapevolezza abbiano di queste scabrosità i vari pedagoghi e filosofi da tastiera, i politichetti locali e i burocrati, i Presidenti e i Ministri, quando “scoprono” il pass par tout dell’educazione come panacea al dilagare della violenza nella nostra società.
Una grande “scoperta” davvero, non c’è che dire. Bravi! Ma del totale fallimento delle strategie finora messe in campo e sponsorizzate dalle istituzioni di ogni colore politico, vogliamo parlare? Vogliamo dirlo che, nonostante fiocchino i corsi, spesso profumatamente sponsorizzati da istituzioni nazionali e internazionali, su empatia, responsabilità, autocontrollo e violenza di genere, la violenza è in aumento? Vogliamo dire che è necessario porsi la domanda intorno al come lavorano questi progetti, e quella relativa a chi li porta avanti? Visto che spesso non incontrano l’interesse e la partecipazione di coloro a cui sarebbero specificamente rivolti? Tutto questo c’entrerà mica qualcosa con il disprezzo profondo e la sfiducia totale che le persone (la “famosa” gente comune) nutrono nei confronti dalle istituzioni del nostro Paese? Iniziamo allora ponendo in modo esplicito alcune domande “scomode” alla logica del discorso pedagogico-istituzionale dominante:
- Questo discorso si è mai interrogato davvero sul rapporto specifico che la storia (lontana e recente) della nostra società neoliberale intrattiene con la violenza?
- Ha provato, questo discorso, ad analizzare almeno – senza moralismi e scope nel culo – le molte e variegate cause concomitanti del recente aumento di violenza e aggressività?
- Ha mai affrontato di petto, questo discorso, il fatto increscioso che le istituzioni e la loro pedagogia moralistica sono percepite dalla maggior parte della gente, soprattutto dai più marginali e svantaggiati, come una violenta forma di colonizzazione culturale? Come un’estranea minaccia da rifrangere al mittente? Come un intero mondo di valori, dettati dall’alto, da rigettare e combattere sordamente con tutti i mezzi a disposizione: dalla parodia all’indifferenza, dall’apatia alle più plateali, vendicative e provocatorie trasgressioni.
Un resto inemendabile di (auto)aggressività, che siamo
Violenza e aggressività sono poste non solo a scuola, ma in generale in tutta la pedagogia implicita della nostra società (giornali, istituzioni, campagne di sensibilizzazione, istruzione professionale, famiglia) come qualcosa di letteralmente estraneo agli esseri umani sani e normali; una specie di “errore” che sarà un giorno possibile ridurre a zero senza scarti. Spiace dirlo, ma le cose non stanno così: esistono pulsioni (auto)aggressive ineliminabili, talmente plastiche che spesso sono capaci di camuffarsi da gesti filantropici, educativi e all’apparenza genuinamente altruistici. Come il mandare a morire centinaia di migliaia di poveri cristi al fronte, rifornendo indefinitamente i loro governi di armamenti, dichiarando (a volte persino in buona fede!) di farlo “per la pace” e “per la democrazia”; o come quando, seguendo un inveterato modello patriarcale, un uomo o un ragazzo si auto-incaricano della protezione delle “loro” donne; o ancora come nelle situazioni in cui un genitore o un insegnante, durante una giornata no, sfogano su una studentessa o su un figlio una frustrazione (di altra provenienza), camuffandola inconsciamente da intervento educativo.
C’è un elefante nella stanza. Noi esseri umani siamo degli strani ibridi biologico-culturali dotati di una malvagità, di un'(auto)aggressività e persino di una crudeltà fondamentali che ci rendono profondamente diversi dagli altri animali (nel bene e nel male). Questo elefante dobbiamo, per lo meno, cominciare a vederlo. Si tratta di un'(auto)aggressività tutt’altro che naturale, che è anzi l’effetto, il risultato sempre in divenire, delle rinunce pulsionali individuali che come specie abbiamo imparato culturalmente a imporci, per riuscire a convivere e sopravvivere. Ma è proprio per tale ragione che questo intero fascio di pulsioni umane non può essere semplicemente azzerato (nemmeno in prospettiva): deve piuttosto trovare il modo di sfogarsi. Se tali pulsioni non si sfogano rischiamo infatti di vederle riemergere incontrollate dove meno ce lo aspettiamo (ovvero – per esempio – nei luoghi più “morali” delle nostre istituzioni, o negli atti meno sorvegliati della coscienza). Le pulsioni (auto)aggressive necessitano di essere sfogate in modo diretto e consapevole, anche se ovviamente il più possibile costruttivo. Tutto ciò pone un grande problema, poiché appunto queste pulsioni oggi sono sempre meno assorbite dalle sublimazioni tristi offerte dalla società neoliberale (ovvero autoimprenditorialità, narcisismo estetico e virtuale, sport – che pure è importante, e consumi posizionali).
Non è stupefacente che il male, la violenza, l’aggressività siano ancora oggi considerati da molti come elementi non-umani, che è possibile ridurre tendenzialmente a zero, negli atti e nel pensiero, attraverso calcolati e risoluti progetti di ingegneria sociale catto-illuminista? E non è ancora più stupefacente realizzare che a ritenere davvero così semplice e a portata di mano questa soluzione siano spesso persone che ostentano pubblicamente posizioni e atteggiamenti ipermorali (un Ministro, una politica locale, un “esperto” di talk show, un’importante docente universitaria, ma anche soltanto chiunque eserciti, me compreso, quel soft power che concerne la presa in carico dell’educazione obbligatoria di altri esseri umani); le stesse che non di rado traggono la loro raffinata e sublimata parte di sfogo violento e aggressivo proprio dall’abitare ruoli di potere nella società e nelle istituzioni? Riusciamo, solo per un attimo, a immaginare – fuori dal nostro orticello, cosa significhi non avere questa (o nessun’altra) opportunità di sfogo pulsionale?
Il re è nudo
Segreto di Pulcinella, scotoma, elefante nella stanza: nella stragrande maggioranza dei casi, l’educazione non è affatto una pratica consensuale. L’educazione è obbligatoria, impartita, disciplinare. Dalla scuola dell’obbligo (formalmente fino ai sedici anni, ma che si protrae quasi sempre inevitabilmente per impulso delle famiglie fino ai diciannove), ai vari corsi e comunità in cui finiscono obbligatoriamente persone con dipendenze o problemi con la giustizia (e senza contare i vari corsi di formazione obbligatoria per i lavoratori), l’educazione si porta appresso una maledizione, un punto cieco, problematico al massimo grado, che deve essere risolutamente portato in superficie, ovvero:
Quando non è una risposta ad una richiesta diretta delle persone cui si applica, l’educazione è – essa stessa – una forma (forse la più capillare e la più invisibile) di violenza e coercizione. Una violenza e una coercizione istituzionalizzate, che prendono corpo e carne reale nella figura sfaccettata dell’educatore, che certo può essere più o meno buono, brillante, capace, senza poter però egli stesso cambiare di una virgola la dimensione strutturale di coercizione in cui l’educazione obbligatoria si dispiega. Digerire questo spiacevole dato di fatto (o provare a smentirlo, non chiedo di meglio), fare i conti con questo perturbante reale pedagogico, è il primo passo fondamentale per cominciare davvero a riflettere collettivamente su cosa potrebbe significare educare alla non violenza.
Un primo passo per capire come e dove mettersi al lavoro, non tanto per eliminare l’inaggirabile violenza e coercitività dell’educazione, quanto per cominciare a confessarcela tra educatori, ad ammetterla pubblicamente nei dibattiti e nei corsi di formazione istituzionali. Arrivare insomma, finalmente, a farla emergere come un problema politico da mettere in valore, includendo magari in questa impresa auto-critica anche gli educati, cercando cioè masochisticamente la loro complicità. Una complicità “masochista” che può costruirsi soltanto a partire da una messa in discussione del doppio gioco che l’educatore conduce tra l’incudine dei corpi degli educati e il martello “sadico-disciplinare” dell’istituzione.
Educare davvero alla violenza significa allora cominciare a familiarizzare tutti – educatori ed educati – con il modo cui la violenza si impasta intimamente alle pulsioni e alle istituzioni umane. Significa, insomma, metterla davvero in valore come doppio problema pratico, e intrecciato: la violenza (auto)aggressiva pulsionale individuale, la violenza disciplinare delle istituzioni. Nella seconda parte di questo intervento vedremo infatti come si potrebbe mettere in pratica tutto ciò. Anche gli educatori, d’altronde, hanno il loro quantum di (auto)aggressività da sfogare. Io ne ho sfogato un bel po’ scrivendo questo testo. Arrivati alla fine di questa prima parte, sarebbe già molto aver chiarito fino a che punto il modo e il verso in cui sfoghiamo questa (auto)aggressività ci interessa non solo intimamente, ma anche – e forse soprattutto – come agenti politici.
[CONTINUA]
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