sabato 30 settembre 2023

Una notte con il Doge della Mala del Brenta: “Cosa Nostra è finita, Saviano ha insegnato la Camorra ai ragazzi”

Abbiamo invitato a casa Giampaolo Manca, il Doge della Mala del Brenta, per vedere assieme il docufilm sulla sua vita: A Portrait of Redemption in Five Acts. 

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“Hai voluta farla apposta con le sbarre di fianco? Alla fine è anche simbolico dai”. Venezia, 2023.

(di Cosimo Curatola – mowmag.com) 

Prodotto con la regista Gianna Isabella Magliocco, è il racconto di una vita dura, violenta. Manca a cena ordina una pizza margherita e parla di tutto, dagli omicidi al traffico di stupefacenti (“L’eroina è stata la cosa peggiore”), arrivando anche agli aneddoti sul carcere: “Vallanzasca voleva rapire Van Basten, e una volta a Rimini…”. Ora il Doge aiuta come può i bambini autistici, vuole costruire loro una casa e, quando vede cosa ha fatto della sua vita, finisce in lacrime.

Sei nella cucina di casa tua, è lunedì sera, siedi a capotavola. Di lato hai la tua compagna e di fronte a lei una regista canadese che ha imparato il dialetto che si parla a Venezia meglio dell’italiano. Di fronte, dall’altro lato del tavolo, c’è Giampaolo Manca, trentasei anni e otto mesi di carcere, di cui dodici in regime di 41-bis. Per qualcuno è il Doge, per lo Stato è uno dei componenti di spicco della Mala del Brenta: furti, droga, omicidi, rapine.

Veste di un’eleganza che si usava al suo tempo ma gli abiti sono impeccabili, usati solo un po’. Sessantanove anni, tutto sommato portati bene. Il Doge ha una certa allure. Quando entra in casa, verso le sette e mezza di sera, saluta i tuoi figli che stanno andando a letto, chiede scusa per non essersi tolto subito il cappello. “Mi raccomando studiate”, dice loro. “Avete visto dove è arrivato papà”. Inutile provare a contraddirlo. Manca osserva la casa, piccola ma antica, alla fine del giro si dice soddisfatto. “Eh sì, hai tanti libri vecio, ma ti mancano i miei. Dovevi leggerli”.

Telefoniamo per quattro pizze, lui e Gianna, la regista, ordinano una margherita. Mangiamo chiacchierando di Venezia, che in qualche modo unisce me e Giampaolo. Venezia, se ci sei nato e cresciuto, è come una religione, anzi di più: è l’unico vera idea di patria che potrai mai avere. “Mia madre era una contrabbandiera, invece mio padre un finanziere”, racconta lui prima di cominciare a mangiare. “Nascondeva le stecche di sigarette nel passeggino, ho fatto reati prima ancora di parlare”. Giampaolo Manca è venuto a casa mia per mostrarmi il suo docufilm, A Portrait of Redemption in Five Acts. Non si fidava di mandare un link via mail e così eccoci, uno davanti all’altro. Da quando è stato scarcerato nel 2019 ha scritto tre libri e ora che ha appena finito di girare il documentario sente il bisogno di mandarlo in giro, “Perché i ragazzi devono capire”. Parte dei suoi guadagni li dedica ai bambini autistici. Vuole costruire loro una casa. Vediamo il docufilm: intenso, bianco e nero, praticamente nulla di recitato. “Ecco”, dice alla fine, “Stasera hai visto piangere il Doge. Ma non scriverlo”.

Giampaolo Manca è affacciato alla finestra, fuma Winston blu. Gli porto da bere, accendo il registratore, gli chiedo di sedersi. «Stai registrando? Bene, così si lavora onestamente. Mi hanno fatto un’intervista quelli del Giornale una volta, a loro ho raccontato che la questura ti sparava e io sparavo. Il giorno dopo viene fuori il titolo: “Il Doge godeva a sparare ai poliziotti”. Ma ti sembra giusto? Noi avevamo le armi, loro lo sapevano e ci sparavano, noi rispondevamo. Ma non puoi scrivere che godevo a sparare ai poliziotti. Ho telefonato a Feltri quella volta, mi ha detto che avevano voluto un titolo sensazionalistico. E a me sono arrivate centinaia di minacce, gente che voleva spaccarmi la testa a sassate».

Chi è Giampaolo Manca?

«Oggi è un uomo pieno di rimorsi».

È per questo che sei qui?

«Anche per questo. Per poterlo dire a tutti. Sai, non riesco a perdonarmi, è più forte di me. Me lo porterò dietro fino alla fine. No se pol, ne ho fatte troppe di brutte. No so bón a guarir. Sono un uomo di sessantanove anni con le sue fragilità. Combatto, cerco di fare il forte. Poi alla fine viene fuori tutto. Però bisogna andare avanti».

Tu hai accettato le tue colpe, più che conviverci ti ci sei sposato.

«È una espiazione questa, ed è giusto che sia così».

Quand’è che hai deciso che accettare il passato e cambiare il futuro poteva essere la maniera più intelligente, o forse più umana di a vivere?

«Dio ha salvato la vita a Fabio (il gemello, ndr) e da quel momento sono cambiato radicalmente. Pagando. Però eo ribadisco: è giusto che io pianga».

Che ricordo hai dei primi tempi, dei primi furti, di Kociss (Silvano Maestrello, l’ultimo bandito veneziano, ndr), insomma di quando non era un lavoro ma un divertimento?

«Ah… Il primo furto me lo ricordo, ero appassionato di musica e suonavo in un complesso. Me piaseva ea batería a mi. L’avevo chiesta tanto, tutti i giorni, ma niente. Però mia mamma aveva un albergo e io il passepartout per entrare in tutte le camere, no? Così na volta entro, prendo cinque traveller’s chèque dalla stanza degli americani. Poi ho trovato il modo di cambiarli in banca e sono andato da Regazzo in Campo San Polo a comprarmi una Premier bianca, beissima. Ancora prima io e mio fratello abbiamo rubato con altri amici delle scatole di gelati da una barca frigo, puoi immaginarti la festa. Na roba da matti, incredibile. Il problema è che sto qua dei gelati riforniva anche l’attività dei miei genitori e andò da mio padre per fargli pagare tutto. Ne presi tante, veramente tante».

E rubare ti è sembrata la maniera più facile per vivere? O era voglia di rivalsa?

«Questa vita non mi ha attirato, le circostanze di non essere accettato dalla famiglia di mia madre, non lei, ha contribuito alla nostra ribellione. Ci sentivamo respinti. Io dicevo: voglio diventare cattivo così perché i miei famigliari gabbia paura de mi. Pensa te. Pensa che stupido potevo essere. Questa è stata la motivazione vera. Sì, papà violento, tutto quello che vuoi. Però alla fine… Io sono riuscito a perdonarlo, nonostante tutto mi ha dato la vita. E io ho dato la vita a mio figlio che l’ha data a James (il nipote di Manca, ndr). Quelle botte che ho preso le prenderei ancora, ben vengano».

Rifaresti la vita che hai fatto, con i suoi alti e bassi, o preferiresti un’esistenza anonima?

«Io ho apprezzato appoggiar i pie su l’erba sensa calsetti. Gò guardà una montagna da libero, il cielo. Tutta roba che per voialtri sono normali, quotidiane. I me gà scarcerà nel 2019, fine pena. Mi a prima roba so nda a magnar na pizza, impensabile. Ma una vita piena non vale tanta sofferenza. Tra fare il bandito e una vita di merda sceglierei una vita di merda. Non è meglio il Doge, il Doge ga coppà ea gente, ga trafficà ea droga. Piuttosto ‘ndavo a far el postin, el spassin. Non me ne fregherebbe più niente de i schei. Avere tutto sì, ma a che prezzo? Per i danni che abbiamo fatto? Per la gente che ha pianto per causa nostra? No, mi spiace».

Sono quindici anni che la televisione propone serie tv sulla malavita italiana: Romanzo Criminale è stato il primo, poi Faccia d’Angelo sulla Mala del Brenta, su di voi, e poi Gomorra, Narcos, ora c’è Mare Fuori. Come ti fa sentire tutta questa narrativa sulla malavita?

«La gente è affascinata dal male. C’è una morbosità. In tantissimi vogliono sapere le rapine che ho fatto. E io mi domando: ma sono deficienti? C’è gente di sessant’anni che mi dice che avrebbe voluto fare la mia vita. Solo un matto pol dir ste robe qua. Delle volte le mie incazzature… se parlo di un bambino malato forse mi ascoltano, ma quando parlo di criminalità è un’altra roba. Il male attira. Nel docufilm ci sono scene potenti, ma le abbiamo volute mettere per far capire dov’ero caduto, ma anche che chi come me ha toccato il fondo, la melma, il fango… comunque sia c’è sempre un fià de ben. Quella fiammella che va alimentata».


A te non fa un po’ incazzare questa spettacolarizzazione della malavita?

“Assolutamente sì. A, b, c, d… Saviano con Gomorra ha insegnato ai ragazzi a diventare camorristi. Non sono chiacchiere: ragazzi di sedici, diciassette anni uccidono a Napoli. Hanno visto la serie. Tanti se ga ispirà a diventar delinquenti. I se ga esaltà”.

Stessa cosa nella musica, adesso funziona molto la trap: pistole, rapine, soldi. Tutto finto però. Come ti senti ad ascoltare questa roba?

«Tutto finto, è vero. Quando sento queste canzoni dico ‘vabbè, sti qua non sanno niente’. Non sanno cosa voglia dire delinquere. Sparemo, tiremo ea cocaina… Ma hanno milioni di visualizzazioni. Ci siamo perdendo, oggi ho visto dei ragazzi che prendevano il treno finita la scuola. Sono il futuro, ma sempre col telefonìn. Anche io ce l’ho, ma lo uso come un ufficio. L’ho capito quando sono uscito e mi sono forzato per imparare ad adoperarlo».

Come è stato uscire dopo 36 anni? 

«Sono salito in macchina con mio figlio che era venuto a prendermi… avevo il terrore. Quando facevamo le curve mi tappavo gli occhi. Questo perché quando mi trasferivano nelle carceri o nei processi usavano il blindato, ed era un loculo piccolissimo, non potevo vedere fuori. Quindi l’occhio non era più abituato alle strade… pfff. Immagina: la prima volta che so andà al mercà so scampà fora… A casa ho chiesto se potevo fare una doccia: mi hanno guardato e mi hanno detto ‘è casa tua, fai quello che vuoi».

Come sei sopravvissuto mentalmente al carcere?

«Ci sono tre strade. L’evasione in grande stile…»

Con l’elicottero.

«Bravo (ride, ndr). Oppure seghi le sbarre, poi c’è la terza possibilità che è quella di fare il collaboratore di giustizia. Io non l’ho voluto fare perché è come sfuggire dalle tue responsabilità. Mi sarei sentito ancora più vigliacco. Go avuo quea luce che me ga ditto stop. Ma come potevo diventare un infame…».

La storia della Mala del Brenta è un po’ la storia di Maniero che vi manda tutti in galera. Cose che nella ‘Ndrangheta o nella Camorra non sarebbe mai successa.

«È diverso. Non c’era il controllo del territorio, ma è proprio il tradimento… ascolta, i ga tradio Gesù, ea persona più bona dea terra. Io non mi meraviglio più di niente, ma perché dovrei mandare in galera gli altri. Uno mi ha detto che se avessi collaborato avrei potuto fermare il male: non è vero niente. Io ho pagato, ho scontato la mia pena e fatto qualche anno in più: l’articolo 78 dice non più di 30 anni e io ne ho fatti 36 e qualcosa».

È morto Matteo Messina Denaro. Che opinione hai di lui?

«Sono d’accordo col generale Mori. Lui sarebbe diventato il capo di Cosa Nostra. E sono convinto che Cosa Nostra sia finita. Tutti i collaboratori che ci sono stati gli hanno distrutti. Io lo so perché sono stato in galera con loro per trent’anni e sentivo i discorsi. Sì, ci potrebbe essere ancora qualcosa, ma sono poveri disgraziati. Hanno ancora quella mentalità ma dopo tre giorni che sono fuori tornano in galera. Cosa Nostra come la intendiamo noi non c’è più, sono passate più ere. I giovani non hanno quel modo di fare, non c’è stato un riciclo – e menomale – quelle erano mentalità arcaiche».

Perché Matteo Messina Denaro è stato preso sotto casa?

«Penso che sapeva di essere vicino alla fine. E secondo me non voleva soffrire, perché nessuno vuole. A tutti fa paura soffrire. Secondo me è così, ma è solo una mia idea. Magari si è consegnato con la certezza di avere le cure, loro hanno accettato sperando che collaborasse e lui quello non l’ha voluto fare. Ma poi… anche se soffrisse…i morti tornano indietro? No. Parliamo di vendetta? Dove ti va’ co ea vendetta? Magari resuscitassero, ma non è così».

Daresti la vita per tutta la gente che hai ammazzato?

«Sì, penso proprio di sì. Non è facile, perché ammazzarsi non è semplice. Mi go provà una volta. Mi ha fermato solo l’idea di avere una famiglia a casa».

Il potere, il denaro, la fama: c’è un momento in cui diventa una droga questa idea di fare quello che vuoi? Voglio qualcosa e la prendo. Voglio una donna, viene da me.

«Sì, certo. Ero questo, io l’ho sempre detto».

In un certo senso eri un dio.

«Io dicevo mi coi schei fasso queo che vojo. Co i schei compri quasi tutto. È una droga, sì. Ed è un modo di vivere che se ti manca stai male. Se aprivo la cassetta e se non c’erano 200 milioni mi incazzavo. Perché con 200 milioni sapevo di poter fare quel cazzo che volevo. È vero. Dopo aver superà quea linea demarcatrice che me ga porta ai inferi…».

Dove la metti quella linea demarcatrice che ti ha portato agli inferi?

“Quando cominci a usare le armi. Quando togli la vita alle persone non c’è ritorno”.

E poi?

“Mi sono chiesto perché Dio non mi abbia fermato. Lì è stata la mia fine come essere umano. Quando fai questo non puoi tornare indietro. Ricordo al carcere di Rimini, l’ultimo anno e mezzo, un carcere comune. Mi ricordo che sono andato a messa e alla mia destra ghe gera Gesù in crose e a so mamma, la Maria, che lo guardava e piangeva. In quel momento ho visto la mamma di chi ho ucciso. Avrei mai pensato di fare questi ragionamenti? Mai. Lì ho capito che c’è stato un travaso dentro di me”.

Eri credente anche prima?

“Mah, io andavo a rubare nelle chiese. Anche se da piccolo non mi dispiaceva fare il chierichetto”.

Non tutti hanno avuto questa illuminazione. Silvano Maritan per esempio, altro componente della Mala del Brenta: esce dal carcere dopo trent’anni e uccide a coltellate il compagno della sua ex.

“Penso che abbia avuto paura. Ha preso un pugno da questo, da Sandrone, e aveva sto coltello in tasca. Se ci riprova cento volte non gli riesce più, ha avuto una gran sfiga. Poi è stato dipinto come un ras, ma era uno spacciatore, niente di che. Ma sai, i giornalisti”.

Lui al giudice dice così, che quell’omicidio non è stato intenzionale. Poi però aggiunge: ‘Dottor, ghe se una sola persona che coparia co e me man se o trovassi’.

“Parla di Felice Maniero. Lui lo odia, ma se muore Felice cosa cambia? Ti ridanno indietro gli anni di galera che hai fatto? No”.

Era quello di cui parlavamo prima: sei tra i pochi che invece di rivangare nel passato guarda avanti. Ti senti benedetto per questo?

“Io ho paura. Ho paura perché mi sento delle responsabilità, c’è gente che mi chiama per un aiuto… e non finanziario, con le mie parole. Mi hanno messo un vestito che mi go paura de chel vestito. Mi so un ex assassìn. Anzi no un ex, mi so un assassin. Qualcuno mi ha detto che dovevo essere quello per diventare questo”.

Come sei cambiato?

«Io non ho mai bastonato una donna, certamente mai violentato putei. Però ho vissuto con queste persone, quando ero in comunità, e ho voluto capire perché questa gente ha fatto così. Tutta gente di cui uno per strada ti dice che andrebbero bruciati vivi. Ma io ci ho parlato e ho capito, sono malati. Mi hanno raccontato certi episodi… Tipo ragazzi giovani che avevano violentato bambini ma a loro volta erano stati violentati anche loro. È tutta una catena. Pronti a dire bruciarli vivi, sparargli in testa. Sì, trent’anni fa lo spellavo vivo un pedofilo. Ma dopo bisogna capire le cose, se no cosa facciamo? La giungla? Non ci si ferma più, diventa una catena».

Per chi vota Giampaolo Manca?

«Per nessuno, perché non posso votare. Io sarei di sinistra, ma oggi come oggi no. Adesso c’è la sinistra coi maglioni di cachemire. Io ho vissuto la sinistra di Lotta Continua, adesso non c’è più, è tutto un puttanaio. A me nessuno rappresenta. Voterei un politico anche di destra se cercasse di mettere un po’ di uguaglianza tra i bambini. Che aiutasse quelli autistici con la terapia ABA per esempio».

Tu credi in Dio. Cosa gli dirai quando te lo troverai davanti?

«Io sono un miracolato. Gli chiederei di perdonarmi».

Cos’è la paura?

«Se non ce l’hai sei matto. Io avevo paura, ma cercavo di fare le cose bene. La paura può essere un piccolo momento, non tutto. I te pol sparar, i te pol copar. Mi no go mai avuo paura dea galera, mai. Avevo paura che magari dietro l’angolo ci fosse il padrone del negozio che mi sparava. E gli davano anche una medaglia. Eh, giustamente tra l’altro».

E la paura negli occhi degli altri?

«Io non avevo scrupoli. L’ho vista tante volte ma no me ne fregava un casso».

Cosa si prova ad uccidere qualcuno?

«Minchia». Giampaolo Manca si produce in un lunghissimo silenzio, poi riprende.

«È brutto. Sai quello che stai per fare, lo fai, però… è brutto. Vedi quello che succede in quel momento, vedi tutto. Senti l’ultimo respiro. Io non ho mai goduto ad ammazzare la gente. No se pol goder. Dopo però cominci a pensare ma se arrivano e accoppano me. Io non ero contento di uccidere, non diventavo forte. Tra gli altri… c’era anche chi godeva a farlo. Ma sono traumi anche per chi lo fa, e parlo di Giampaolo Manca». Cos’è la redenzione per Giampaolo Manca?

«Non lo so. Non lo so, voglio pulirmi da tutta la merda che ho tirato su. Sono stato una merda anche io, vorrei togliermela. Mi vojo star ben, fioi. Voio star in pace. E vojo che a gente me abraccia e me diga bravo vecio. In tanti mi credono, in tanti no. Dio mi vede. Poi subentra la gelosia, l’invidia. Invidia di cosa? Dei 37 anni di galera che ho fatto? O perché ho fatto un documentario? Ma io spero di farne dieci di film. Perché vorrebbe dire che riuscirei nel mio progetto, questo famoso progetto per i bambini autistici, no?».

Me lo ripeti?

«Voglio comprare una struttura che faccia da pensione ai ragazzi autistici quando saranno grandi e le loro famiglie non potranno prendersene cura. Questo ovviamente oltre all’assistenza ai bambini autistici. Però mi immagino una specie di casa-famiglia con diverse situazioni».

Domani mia figlia si sveglia e mi chiederà chi sei. Le dirò che è venuto a trovarci il Doge. Chi è il Doge?

«Era un ragazzo a cui hanno messo il nome Doge perché è andato a rubare in una chiesa dove erano sepoliti i Dogi. Un nome che mi è stato dato per scherzo. A chi mi chiama Doge oggi gli dico… no vecio, mi so Gianni».

Qualcuno da cui vorresti il perdono?

«Sono troppi. Ho toccato un po’ tutto. Soprattutto aver trattato l’eroina mi fa sentire male».

Quanta droga?

«Tonnellate. Ma era una roba esponenziale. Dopo i schei ti danno alla testa, non capisci più niente. È stato un male estremo, vado a fare il postino piuttosto».

Cosa scriverai sulla tua tomba?

«Ma io non voglio celebrarmi».

È una domanda per chiudere, se non ti piace ce n’è un’altra: l’ultima volta che hai fatto l’amore?

«Va bene, polvere siamo e polvere ritorneremo. Farei scrivere questo. Però sono argomenti che… io spero di vivere ancora tanti anni, non nella sofferenza, perché voglio fare tanto bene. Perché dopo sto bene io, perché ho bisogno di guarire. Per me è una medicina. E quando uno mi dice casso, che bravo, per me è tutto. Ma è possibile che ogni volta che vedo sto cazzo di docufilm mi viene da piangere? Mi no so miga un attor, anche se ho fatto teatro. Ma nella mia mente non c’è guarigione. Non ho fatto uso di farmaci, di psicologi. Dormo tre ore al giorno. Ho sempre quella infame di sigaretta, che se non ho quella vado via col cervello. Speriamo bene».

Giampaolo e Gianna si alzano, li accompagno fuori di casa e poi all’imbarcadero. Vanno al Lido, lui abita lì. C’è un’aria fresca fuori che è bella da respirare. Parliamo un po’, scattiamo due foto, lui racconta un aneddoto: “In carcere sono diventato amico di Vallanzasca, che devo dire è molto simpatico. Eravamo tutti e due milanisti, così un giorno Renato mi fa: ‘Oh, Doge. Secondo me dovremmo rapire Van Basten’. Io non ci potevo credere: ‘Ma sei matto? Ci serve per vincere, quello. E poi chi segna?’. E lui: “Eh, ma vuoi mettere 400 milioni?”. Prima di salutarci ci stringiamo la mano: “Mi raccomando, fai un ben lavoro”, dice lui. “Ma che te lo dico a fare, siamo appena stati a casa tua e mi hai fatto conoscere i tuoi figli”.

 

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