martedì 26 settembre 2023

Ma la Bce, in che mondo vive?

Vivere nel terremoto sembra ormai il destino del capitalismo occidentale (ce ne sono anche altri, per chi non l’avesse notato…), e in primo luogo per quello europeo colpito in rapida successione dalla pandemia e dalla guerra in Ucraina, che ha tagliato fuori buona parte delle sue forniture a buon mercato (il gas russo, per esempio) e dei suoi mercati di sbocco (Russia, Cina, ecc).


 

Una congiuntura molto complicata, certamente, ed aggravata dall’azione distruttrice messa in campo da quello che teoricamente – e militarmente – dovrebbe essere il suo principale alleato. Ma anche una situazione aggravata da istituzioni comunitarie tanto potenti quanto ottuse.

Non è solo una nostra valutazione. Oggi, per esempio, MilanoFinanza – non proprio un organo del movimento comunista… – dedica un fondo feroce contro la politica della Bce sui tassi di interesse. Aumentati dieci volte consecutive – l’ultima, dello 0,25%, pochi giorni fa – fino a portarli al 4,5%. Erano a zero ancora a luglio 2022, poco più di un anno fa…

Una stretta violenta al credito decisa per contrastare l’inflazione, è la motivazione ufficiale. Una stretta prevista nei manuali di macroeconomia liberista, ma che soffre di tutti i problemi pratici che si creano quando vengono applicate ricette astratte senza tener conto di tutti i fattori reali.

Roberto Sommella, nel suo editoriale, si chiede – papale papale – “La Bce da che parte sta?”, accusandola niente meno che di vivere altrove, non in Europa.

La ragione è semplice: il comunicato con cui la Bce motiva il suo ultimo rialzo dei tassi esprime una “soddisfazione” per il serio rallentamento dell’economia causato dalle proprie decisioni, che ora sta diventando recessione nei principali paesi dell’Eurozona (la Germania, in primo luogo).

Peggio ancora: garantisce che l’attuale alto livello dei tassi sarà mantenuto a lungo, fin quando il livello dei prezzi non rientrerà nel range considerato (dai manuali) “ottimale”: il 2%.

E qui si innesta l’attacco critico alla Bce, con argomentazioni incontestabili: “I manuali d’economia spiegano che in presenza di un aumento del tasso d’inflazione, dovuto alla domanda, una risposta delle banche centrali debba essere la riduzione della circolazione monetaria.

Ma siamo sicuri che il tasso d’inflazione odierno in Eurozona ancora al 5,6% sia tutto dovuto a un eccesso di domanda e non anche agli effetti della fiammata sui prezzi delle materie prime in conseguenza della guerra in Ucraina?”

Ovvio che no. La domanda (i consumi in generale, delle imprese come dei lavoratori o pensionati) non era affatto salita prima della guerra. Tensioni sui prezzi già venivano registrate già prima dei combattimenti, ma sono esplose in modo incontrollato con la raffica di “sanzioni” contro la Russia decise da Nato, Usa e Unione Europea, moltiplicandosi ulteriormente con l’attentato che ha interrotto i flussi del gasdotto Nord Stream (messo in atto da Usa, Gb e Ucraina).

Dunque è evidente – anche secondo i manuali del neoliberismo – che questi aumenti dei tassi di interesse potranno certamente limitare la domanda presente e futura (si paga di più per i prestiti, i mutui, le rate, ecc), ma sicuramente avranno effetti molto limitati sull’inflazione da prodotti energetici, che dipende invece dall’improvvisa restrizione del ventaglio dei “fornitori”. Russia in primo luogo.

Fin qui l’argomentazione di MilanoFinanza (MF) è inappuntabile e condivisibile.

Come sempre, però, è la “ricetta” proposta che rivela gli interessi in gioco. MF fa infatti presente che la Federal Reserve statunitense, che pure ha aumentato anche di più i tassi di interesse, ha mostrato una maggiore cautela nel prospettare le mosse future, subordinandole ai dati complessivi dell’economia americana e quindi alla verifica empirica (non “da manuale”) degli effetti provocati dalla propria azione.

Il “buon senso” della Fed diventa perciò una indicazione anche per la Bce, da parte del mondo delle imprese europee che MilanoFinanza certamente rappresenta con molta consapevolezza.

Sfugge però, sia nella critica che nelle indicazioni, l’aspetto “strutturale” che rende la politica della Bce costantemente fuori asse rispetto all’andamento dell’economia.

A regolare la Fed, infatti, non è soltanto – o non tanto – il “buon senso”, ma lo Statuto istitutivo, che fissa gli obiettivi per cui una banca centrale esiste.

E’ qui che si tocca con mano la reale differenza tra Fed e Bce. Quella statunitense, infatti, deve navigare tra due obiettivi: il livello dell’inflazione (ovviamente…) e il tasso di disoccupazione.

La Bce, al contrario, ha un solo obiettivo: tenere bassa l’inflazione. Anche a costo di uccidere l’economia e far dilagare la disoccupazione.

Ne derivano due linee di comportamento molto diverse, ma soprattutto di diversa efficacia economica. La prima, pur restando totalmente neoliberista nell’impianto, deve preoccuparsi dell’andamento complessivo dell’economia (condizioni di credito, occupazione, livello dei consumi, ecc). La seconda se ne può – anzi se ne deve – fregare altamente.

L’errore, insomma, è stato fatto quando è stato costruito l’impianto regolatorio delle varie istituzioni europee, Bce in primo luogo. E non sembra un caso che le “istituzioni” pensate per costruire un futuro di alti profitti e relativa “pace sociale” si stiano rivelando un killer perfetto per entrambi i mondi: quello delle imprese e quello dei lavoratori.

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La Bce si bea di aver frenato l’economia: ma da che parte sta?

Roberto Sommella – MilanoFinanza *

La Bce da che parte sta? A leggere alcuni documenti ufficiali dell’Eurotower viene il dubbio che i suoi vertici vivano sul serio in Europa. Leggere per credere.

«I passati incrementi dei tassi di interesse decisi dal Consiglio direttivo continuano a trasmettersi con vigore. Le condizioni di finanziamento si sono inasprite ulteriormente e frenano in misura crescente la domanda, che rappresenta un fattore importante per riportare l’inflazione all’obiettivo.

Alla luce del maggiore impatto di tale inasprimento sulla domanda interna e dell’indebolimento del contesto del commercio internazionale, gli esperti della Bce hanno rivisto significativamente al ribasso le proiezioni per la crescita economica, che si porterebbe nell’area dell’euro allo 0,7% nel 2023, all’1,0% nel 2024 e all’1,5% nel 2025».

Quei segnali di recessione incombente sottolineati da Christine Lagarde

È uno stralcio del comunicato della Banca centrale europea il 14 settembre scorso, giorno in cui è stato annunciato il decimo aumento consecutivo dei tassi, arrivati ora al 4,5%.

Se i mercati in un primo momento hanno reagito positivamente restando però comunque in tensione, stupisce oltremodo l’affermazione apodittica, al limite della soddisfazione, che le condizioni di finanziamento si siano «inasprite ulteriormente» tanto da frenare la domanda e dunque, in ultima analisi, ponendo le basi per l’avvento della recessione, come peraltro confermato dalle stesse previsioni di Francoforte sulle riduzioni delle aspettative di crescita.

E persino le ultime dichiarazioni di Christine Lagarde prendono atto della recessione incombente, causata dalla politica restrittiva di Francoforte.

I manuali d’economia spiegano che in presenza di un aumento del tasso d’inflazione, dovuto alla domanda, una risposta delle banche centrali debba essere la riduzione della circolazione monetaria.

Ma siamo sicuri che il tasso d’inflazione odierno in Eurozona ancora al 5,6% sia tutto dovuto a un eccesso di domanda e non anche agli effetti della fiammata sui prezzi delle materie prime in conseguenza della guerra in Ucraina? Il prezzo del gas, ad esempio, è oggi ancora il doppio del livello raggiunto prima dell’invasione russa.

La differente linea della Fed sui tassi

Non tutti si sono comportati allo stesso modo. L’approccio della Fed al problema dell’inflazione è stato completamente diverso. Anche nella comunicazione.

Lo ha notato Francesco Ninfole su queste pagine. Le due maggiori banche centrali del mondo sono andate in direzione opposta sui tassi. Se Bce ha scelto di alzare ancora i tassi di 25 punti base chiarendo che il picco potrebbe essere stato raggiunto, Fed si è fermata facendo capire che potrebbe varare un’altra stretta quest’anno.

La spiegazione l’ha fornita il suo presidente, Jerome Powell: «Considerando i progressi compiuti, possiamo procedere con cautela mentre valutiamo i dati in arrivo e l’evoluzione di prospettive e rischi».

Tradotto: verifichiamo che la stretta non produca una frenata dell’economia, proprio quello che invece constata già oggi Bce: gli americani vogliono evitare una stasi delle attività produttive, gli europei la inducono.

Chi delle due ha ragione? E cosa è più importante salvaguardare: l’occupazione, come avviene negli Usa dove anche l’antitrust pensa al benessere dei consumatori o la lotta all’inflazione, stella polare nell’Ue?

Senza volersi sostituire ai banchieri centrali, viene da chiedersi se personaggi della statura di Guido Carli, Carlo Azeglio Ciampi e Mario Draghi avrebbero avuto il coraggio di spiegare a famiglie e imprese che la restrizione del credito e della loro capacità di reddito rappresenta un dato positivo e financo l’amaro calice da bere per evitare l’inflazione.

L’unico modo per battere l’aumento dei prezzi e in alcuni casi della speculazione sugli stessi – le bollette non si sono ridotte come ha fatto il costo del gas – è davvero indurre una recessione generalizzata, che già si sta registrando in Germania?

Nei prossimi mesi magari l’inflazione verrà sconfitta ma si scoprirà che sono spariti dai radar crescita e milioni di posti di lavoro. Una sconfitta che si potrebbe evitare usando il buon senso, come dimostra il caso americano.livello dell’inflazione

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