domenica 25 giugno 2023

Libro. L’importanza dell’ideologia: a proposito del rapporto tra Rossana Rossanda e il Pci.

Non è una Rossana Rossanda “eretica” quella che viene fuori dalle belle pagine di Rossana Rossanda e il Pci: Dalla battaglia culturale alla sconfitta politica 1956 -1966 (Carocci editore) di Alessandro Barile, semplificazione finora ampiamente abusata che l’autore disfa collocando nella dimensione che le è propria l’attività politico culturale della dirigente comunista. 


minimaetmoralia.it Nazareno Galiè 

Prendendo in considerazione gli anni in cui Rossanda è stata dapprima responsabile della Casa della cultura di Milano e in un secondo decisivo momento a capo della Sezione culturale del Pci, Barile indaga le ragioni del conflitto tra la ragazza del secolo scorso e gli altri funzionari di punta del partito, in quegli anni impegnati ad organizzare le masse sulla via italiana al socialismo. Occorre, tuttavia, precisare che nel libro di Barile coesistono molti temi di carattere storico-culturale, che non rimandano ad un unico filo conduttore. Nondimeno, i molteplici snodi problematici vengono riflessi dal caleidoscopio della politica culturale del Pci, l’altro vero argomento del libro oltre che Rossanda. In ogni modo, attraverso il volume è possibile seguire, in controluce, l’evoluzione delle vicende politiche italiane (l’egemonia politica democristiana dopo il 18 aprile del 1948, la crisi del fronte popolare, l’avvio, a tratti contrastato, del centrosinistra) e soprattutto quelle svolte, innescate in ultima analisi dal miracolo economico – presupposto logico di quel “neocapitalismo” che tanto spazio trova nel libro – che hanno cambiato radicalmente la società italiana rispetto a come si era strutturata alla fine della guerra. È un libro, potremmo dire, che tematizza i cambiamenti, o meglio le crisi che mettono in discussione l’ideologia e, quindi, la prassi nella sostanza riformista del Pci. È anche una riflessione sul nesso tra politica e cultura, che richiama, ovviamente, anche l’attualità.

Sullo sfondo, emergono i grandi dirigenti del Pci: Amendola, Alicata, Scoccimarro, Chiaromonte, Longo (per citarne alcuni) e soprattutto Palmiro Togliatti, l’artefice e lo stratega del partito nuovo. Anche Rossanda ne fu partecipe e beneficiò, in una certa misura, della fiducia del segretario comunista, che mostrò, è bene ricordarlo, un profondo e sofisticato interesse culturale, benché tese quasi sempre a subordinare la cultura agli obiettivi perseguiti dalla prassi politica. Giustamente Barile pone l’accento sulla differenza tra Togliatti e tanti (ma non tutti) suoi epigoni, ossia sullo scarto tra Togliatti e il togliattismo, che di lì a poco, più che di doppiezza, divenne sinonimo di realismo o, come si sarebbe detto allora, di opportunismo. Tuttavia, il tema del libro non è politico stricto sensu. Inoltre, credo che sia da mettere l’accento anche sul valore interdisciplinare del testo, in quanto consente di rivisitare una serie dibattiti letterari, storiografici e perfino filosofici, di cui, immaginiamo, si è persa non tanto la memoria quanto piuttosto sia i termini che la posta in gioco allorché furono formulati. Per inciso, è un libro che può interessare studiosi di differenti discipline, come l’italianistica, la storia della filosofia, la sociologia, la politologia etc., oltre che, ovviamente, gli storici. Infatti, nel testo si troveranno, per fare qualche esempio, le polemiche e discussioni letterarie sul neorealismo, su Pasolini, su Il Gattopardo, così come gli sviluppi della celebre polemica su «Il Politecnico» tra Vittorini e Togliatti e il caso editoriale, prima ancora che letterario, Pasternak. Non è in ogni caso un libro su questi temi, tuttavia ne restituisce la dimensione e l’impatto che ebbero tanto sul dibattito del partito quanto, per osmosi, più in generale sulla cultura italiana. Ancora a livello letterario, ad esempio, sono presenti le riflessioni sui nessi e gli scarti tra le vecchie e le nuove avanguardie. Trovano spazio anche le discussioni sul cinema e la cultura musicale degli italiani, in quegli anni sbilanciata sul melodramma. Sono presenti le aperture e più spesso le inquietudini provocate dalla diffusione della cultura di massa. Molti naturalmente i temi di carattere filosofico: Gramsci, lo storicismo e la sua crisi, il marxismo “in combinazione”, la recezione, naturalmente contrastata dal partito, della scuola di Francoforte con Marcuse, Horkheimer e Adorno. Una vera e propria miniera utile a contestualizzare i movimenti e in definitiva la crisi della cultura italiana da quel punto di osservazione privilegiato che è stata la Sezione culturale del Pci guidata da Rossanda. Col tempo quest’ultima venne percepita malgré soi un corpo estraneo dalla dirigenza del partito. Barile ne indaga a fondo i motivi.

Come rileva l’autore, infatti, se le strada tra Rossanda e Pci si separò (anche se il libro non si attarda sulla nota vicenda de il manifesto) non fu tanto, come si è detto, per la presunta “ereticità” o peggio ancora per un malinteso estremismo, da cui la dirigente comunista era sicuramente immune, ma per una inconciliabile maniera di leggere la società entrata nel frattempo in fibrillazione. Un tema quantomeno attuale, se si pensa alla crisi che vive la sinistra, si potrebbe dire da allora, anche a causa dell’incapacità di sistematizzare i fenomeni a partire da un nucleo concettuale che, spesso, è rimasto indifferente all’evolversi non solo del capitalismo ma anche delle sue configurazioni ideologiche, cui si è dato il nome di industria culturale. Non è una “eretica”, quindi, ma forse una revisionista, benché quel termine nel dibattito politico-filosofico marxista abbia un preciso significato che male si adatta a Rossanda, giacché presuppone un moderatismo e un riformismo di principio che fu sempre estraneo alla dirigente istriana. Nondimeno, Rossanda poneva in discussione non tanto la politica del partito – in effetti la dirigente comunista non propose compiutamente una strategia alternativa alla linea della democrazia progressiva da raggiungere attraverso opportune riforme di struttura, senonché tese a mettere l’accento sul significato di quest’ultime, che nella visione di Rossanda avrebbe dovuto essere innanzitutto politico e trasformativo e quindi teso al superamento (perlomeno tendenziale) del capitalismo. Al contrario, la dirigente istriana chiedeva una revisione delle basi culturali del Pci con il fine di renderlo più adatto a situarsi di fronte a fenomeni inaspettati, vale a dire estranei alle previsioni storiciste teleologicamente orientate proprie dell’ideologia del Pci, ancorché dirompenti: il neocapitalismo, la cultura di massa, l’integrazione della classe operaia – sul punto è notevole il dibattito tra Rossana e Calvino discusso nel libro -, il ribellismo giovanile e l’incipiente contestazione.  Tutte articolazioni che in qualche modo resero incerte quelle magnifiche sorti e progressive che lo storicismo marxista gramsciano del partito nuovo non solo, come era naturale che fosse, non aveva previsto, ma che perfino si rifiutava anche di studiare e capire. Il partito le subiva sminuendone il significato e rimanendo fermo nella tattica impostata sui principi della modernizzazione e le riforme. D’altronde, come nota Barile (p.181), «Che il Pci fosse una forza politica d’alternativa sistemica era però un punto di confusione forse presente nella stessa Rossanda».

Nodi che, tuttavia, vennero al pettine negli anni ’70, allorché si configurò una frattura insanabile se non una vera e propria inimicizia tra il Pci, che nel frattempo aveva imboccato la via indicata dalla “destra” amendoliana con l’appoggio decisivo del “centro” longhiano, e la composita galassia della Nuova sinistra, che sulla base di diverse e, a tratti, confliggenti interpretazioni del marxismo indicava pratiche del tutte aliene e, sovente, inconciliabili alla prassi del Pci. Esito forse non scontato di cui Barile ricostruisce bene le cause.

Il libro si struttura in tre parti di differente ampiezza. Alla fine del testo, inoltre, il libro contiene un’appendice di interessanti interviste realizzate dallo stesso autore ad alcuni protagonisti del dibattito politico, filosofico e culturale di quegli anni, tutti gravitanti a sinistra e con passaggi più o meno lunghi – se non unici – nel Pci e che sono stati a stretto contatto con Rossanda: Giuseppe Vacca, Luciana Castellina, Aldo Tortorella, Filippo Maone e Mario Tronti.

La prima parte, che segue l’introduzione in cui l’autore offre una densa panoramica dei temi che poi troveremo nel libro, è quella più incentrata su Rossanda, in quanto è attraverso di lei che vengono riflessi molti degli assunti che verranno comunque ripresi e ampliati nella seconda parte, dove protagonista diviene la Sezione culturale del Pci sotto la direzione sempre di Rossanda. In questo modo viene reso intelligibile lo scarto tra gli intenti maturati dalla dirigente istriana nel campo delle politiche culturali e la loro recezione, che, come si è accennato, fu contrasta dalla dirigenza del Pci, benché non tanto nel merito ma per le possibili ricadute sulla linea politica.

Nella prima parte viene ricostruita l’esperienza animata da Rossanda nell’alveo della Casa della cultura milanese, che la giovane comunista diresse fino a quando non venne chiamata a Roma nel 1962 a guidare la Sezione culturale del partito su invito abbastanza tacito di Togliatti. Che probabilmente, riflette Barile, era consapevole della necessità di uno scarto. In questa sezione del libro, l’autore delinea anche il profilo culturale di Rossanda, sicuramente diverso – se non distante – da quello degli altri dirigenti del partito nuovo, legati alla dimensione nazionale e, dunque, già predisposti ad accogliere la cosiddetta “operazione Gramsci”. In quegli anni, invece, Rossanda era a contatto con importanti maître de pensée del marxismo europeo, tra cui Lukacs, Brecht e Sartre. Era, quindi, naturalmente più aperta anche a suggestioni non storiciste. L’autore ricorda l’apprendistato di Rossanda con il filosofo Antonio Banfi e, quindi, tutte quelle esperienze che le avevano dato modo di interagire con filoni differenti e, a tratti, alternativi del marxismo. Sono temi che Barile ricostruisce con perizia e che vengono sottratti da qualsiasi riduzione schematica. Sempre in questa prima parte è presente il tema centrale del rapporto tra intellettuali e partito, o tra cultura e classe operaia. In questo senso, il 1956 è l’anno decisivo e Barile lo rileva come svolta, senonché giustamente non ne amplifica a dismisura il significato, come, soprattutto per polemica politica, è stato un po’ sbrigativamente fatto. Anche Rossanda comprende la necessità di un ripensamento del nesso tra politica e cultura e comincia contestualmente a riflettere sulle insufficienze del paradigma storicista, ancorché con le consuete cautele tipiche dei dirigenti comunisti del periodo. Altri temi presenti in questa sezione sono quelli della riflessione comunista dinanzi all’avvio del centrosinistra e, più in generale, la questione del neocapitalismo, cui l’autore dà giustamente grande risalto. Su questo tema, interessante è lo scambio di analisi, se non la maturazione di differenti e inconciliabili chiavi interpretative tra Rossanda e la dirigenza del Pci, epitomata quasi sempre da Amendola. Se per la dirigente istriana il neocapitalismo è uno scarto qualitativo, con cui fare i conti, e che in definitiva chiama ad un aggiornamento dell’ideologia del Pci, per il dirigente romano, chiaro e coerente nel ribadire la linea riformista del partito, benché attento a non chiamarla mai in quel modo, il neocapitalismo è un concetto che non trova giustificazioni. Secondo Amendola, il capitalismo italiano, nel suo complesso, continua ad essere arretrato e incapace di modernizzare il paese. Non è, dunque, in grado di integrare (almeno in parte) la classe operaia, cioè a rimuovere quella contraddizione che sola può inverarne il superamento. Con il senno di poi, è evidente una certa miopia di Amendola, ma allora la sua posizione appariva realistica e anche più spendibile per la dirigenza del partito.

La seconda parte del libro tratta il periodo in cui Rossanda dirige la Sezione culturale, dopo essere stata nominata, come si è accennato, contro i desiderata della dirigenza romana e con l’appoggio sotterraneo di Togliatti. Ritroveremo ancora i riferimenti e le problematiche collegate all’emergente cultura di massa, funzione del neocapitalismo. Fenomeni riflessi anche dalla critica francofortese, che non convince perlomeno nella pars construens Rossanda, allorché spiega (p. 181) «il semplice rifiuto, la negazione totale della realtà politico-sociale, quando non è accompagnata da processi organizzativi che sedimentano la critica e la strutturino, “si rivela come l’altra faccia dell’integrazione, come lo hippie è l’altra faccia dell’uomo dell’organizzazione, l’uno e l’altro prodotti da un meccanismo sociale che nessuno dei due riesce a scalfire». Barile pone, quindi, in evidenza come Rossanda non prenda mai le distanze dal partito, giacché (idem) «anche, dunque, nella fase più critica del rapporto tra Rossanda e il Pci, sembra non venire mai meno nella (ex) dirigente comunista la convinzione di fondo della necessità non solo, o non tanto, di un partito – qualsiasi esso sia -, ma del Pci come soggetto politico in grado potenzialmente di realizzare contenuti presenti nella protesta, sia essa operaia o studentesca (che, per Rossanda, sono la stessa cosa: anche questa è un’altra intuizione fondamentale). Un partito che, però – prosegue Barile – non ceda alla cogestione riformista del governo, ma acceleri nella transizione al socialismo». Su questo punto, la dirigenza del Pci e Amendola mai avrebbero potuto essere d’accordo. Eppure, quella di Barile, è una Rossanda tutta interna alla storia del Pci.

Senonché (pp. 181-183) «la battaglia di Rossanda in favore di un aggiornamento dei presupposti teoretici del partito» incontrò grandi resistenze. Innanzitutto, il partito temeva di perdere il controllo sulla linea politica a favore dell’elaborazione degli intellettuali, che, a giudizio di Rossanda, non doveva essere pedissequamente vincolata alla direzione politica. Eppure, ribadisce Barile, in lei «mai è presente un astratto problema di “libertà” della cultura nei confronti della politica. Sempre, invece, vi è un tentativo di stimolare un effettivo aggiornamento del marxismo in seno al corpo intellettuale». Si trattava, però, di un problema ampio se (idem) «il problema della dismissione dei rapporti era più generale e investiva il Pci al di là della contingente linea politica».

La terza parte presenta, infine, un titolo molto eloquente: Verso il non essere (p. 123). Un titolo che riteniamo assai indovinato, soprattutto se si guarda all’eredità del Pci. Questione che Barile non problematizza direttamente, anche se lascia comprendere le ragioni della sua dismissione.  Ad un certo punto, il Pci non fu più capace, nonostante gli avvertimenti di alcuni, tra cui Rossanda, di comprendere la società e le trasformazioni in seno al capitalismo. Quindi, il “non essere” non fu tanto del partito, che continuò al contrario ad esistere e a mietere grandi successi elettorali. Piuttosto, a venire meno fu il nesso della riflessione, che la dirigente istriana cercava di mantenere in piedi, tra momento culturale e politico. La Sezione culturale non sparì – infatti (p. 25) coloro che la diressero dopo Rossanda furono comunque sempre dirigenti di peso (Bufalini, Napolitano, Tortorella) -, ma dileguò la sua funzione di pungolo e critica politica. Infatti, spiega l’autore, «il Pci pensa ad altro e di fatto abbandona il terreno, ritagliandosi un compito più circoscritto […] La politica culturale, intesa come direzione culturale, tramonta perché a ridursi è la contesa ideologica. Sembrerebbe, e in parte lo è, un fisiologico processo di crescita e di adeguamento ai caratteri liberali della società italiana. Eppure, c’è anche un’ammissione di impotenza e forse un cambio di pelle mai pienamente esplicitato: da partito della trasformazione a partito della buona amministrazione (idem)». Secondo Barile (p. 213), «la morte di Togliatti e la fine della doppiezza sanciscono anche la sconfitta di Rossanda». Infatti, è quella stessa eredità a frammentarsi. Certamente Rossanda ne può rivendicare una parte – conclude l’autore – l’altra parte, quella che dal migliorismo declinò nell’ineffabilità delle successive formazioni postcomuniste, poteva essere raccolta da altri.

Nessun commento:

Posta un commento