giovedì 29 giugno 2023

DANIELA RANIERI. Il coltello della satira, il burro del potere e gli “umili servi”.

“Che cosa vieta di dire la verità ridendo?”, chiedeva Orazio nelle Satire. La lista dei responsabili oggi comprenderebbe le querele dei potenti, il comune senso del pudore, l’autocensura, l’indignazione dei social.  

 

(DANIELA RANIERI – ilfattoquotidiano.it)

Gli sforzi che il potere compie per silenziare chi dice la verità ridendo ne testimoniano la potenza; la retorica anestetizzante e le strategie manipolatorie del potere hanno un solo antidoto, quando l’indignazione risentita e l’impegno morale sono impotenti: la satira, appunto (da “satura”, la composizione di stile vario di epoca romana).

Perciò il potere, che da secoli fornisce materiale a questo genere nobile per via della sua inclinazione alla corruzione, al vizio, all’abuso e all’ipocrisia, la teme e cerca di imbavagliarla. Il sarcasmo, il cui etimo rimanda all’atto di dilaniare le carni, e l’ironia, la più socratica tra le arti retoriche, discoprono l’inconsistenza dei potenti, con ciò sminuendone la figura, togliendo loro autorevolezza. Il potere è burro e la satira è un coltello caldo che trae legittimazione dal suo stesso esistere: se il potere reagisce alla satira che lo attacca, esso non è invincibile, cioè non è vero potere. Il rovescio della sorte è la vera fobia del potente che si sa transeunte: da una battuta che lo smitizza può scaturire una frana; la liberazione dell’umorismo attorno alla sua figura può diventare un’energia critica collettiva capace di precipitarlo nel fango. Ciò che è inedito nella Storia è che negli anni recenti a questo tentativo di soffocamento dall’alto concorre anche la cosiddetta pubblica opinione.

Tra querele e provvedimenti disciplinari (se il satirista è un giornalista), oggi non avrebbero vita facile gli epigrammi di Marziale o le trivialità di Rabelais, che pure venne condannato dai teologi della Sorbona per aver messo alla berlina la monarchia coi due re crapuloni Gargantua e Pantagruel. E così Molière, o gli scurrili teatrini di strada in cui la regina veniva sodomizzata dal cardinal Mazzarino, fino ai pamphlet e alle caricature contro la monarchia durante la Rivoluzione francese che hanno contribuito a rovesciare il trono. Il taglio della testa non fu che la materializzazione di quell’atto supremo che è la derisione del tiranno (nel 1831 il disegnatore Charles Philipon finì in prigione per aver rappresentato Luigi Filippo d’Orléans con la testa a pera); il sogno dei surrealisti del potere acefalo è una fantasia anarcoide. Durante i Lumi, non solo i caricaturisti deridevano il potere: Diderot, autore dell’Enciclopedia, fece parlare i genitali femminili, testimoni di invereconde vicende alla corte di Versailles.

Quasi certamente oggi i corsivi che Fortebraccio firmò su L’Unità tra il ’67 e l’82, alcuni di ferocissima ruvidità, sarebbero disapprovati dai nostri “liberali” e sottoposti a quotidiani processi social condotti dai servi volontari dei potenti.

Ma come sta la satira oggi?

Dal 7 gennaio 2015, quando 12 componenti della redazione di Charlie Hebdo furono trucidati dai jihadisti per il Maometto disegnato, si è consolidato un doppio movimento: da una parte, siamo tutti Charlie e ci battiamo per la libertà di satira; dall’altra, abbiamo accettato che ci siano dei limiti di decenza, rispetto e suscettibilità dei leader (politici e religiosi) che non bisogna oltrepassare. Nel 2016 la cancelliera Merkel diede l’assenso al processo per “offesa a capo di Stato straniero” chiesto da Erdogan contro il comico Jan Böhmermann, che in uno show del canale tedesco Zdf lo aveva ritratto come uno zoofilo e picchiatore di curdi. L’argomentazione su cui si basano queste posizioni è solo una: che essere rispettosi è meglio che non essere rispettosi. Ma questa non può essere una legge di civiltà, perché la categoria del “rispettoso” è arbitraria e culturalmente determinata; le sono superiori il pensiero critico, la libertà creativa, la contemplazione di livelli del discorso più profondi di quelli immediati.

Il potere addurrà sempre motivi per dirsi offeso (vedi il caso della vignetta di Natangelo, comicamente incriminata in quanto vignetta “contro Arianna Meloni”, sorella di Giorgia, e non contro il marito, ministro cultore della purezza etnica). A indebolire la satira concorrono l’autocensura, per cui i satiristi potrebbero evitare di affrontare temi controversi per timore di ritorsioni, e la scarsa discontinuità nel gradiente di grottesco tra caricatura e realtà, per cui la satira fatica a stagliarsi su uno sfondo di assurdo normalizzato. Come ridicolizzare un politico che si ridicolizza da solo? La popolarità di Donald Trump, il più tragicomico e insieme il più satirizzato dei leader, non è intaccata più di tanto dalla critica intelligente. Ma d’altra parte, se Aristofane caricaturizzava pure Socrate ne Le nuvole deridendone la sofistica, cosa si dovrebbe dire delle misere ideologie dominanti e dei loro ridicoli araldi?

Alcuni satiristi si vantano di non aver fatto mai arrabbiare nessun politico e di “colpire” tutti alla stessa maniera (vedi l’autore di meme Osho, che ha dichiarato di essere amico di “Giorgia” e di non apprezzare le vignette su di lei e i suoi familiari), come se la satira fosse un’attività anodina fatta di blandi rimbrotti bipartisan e non un aperto schierarsi per questa o quella visione del mondo. In alcuni casi l’autore satirico supplisce al ruolo di critico sociale proprio dei giornalisti (Burckhardt riteneva Pietro Aretino, l’autore rinascimentale delle pasquinate che scuotevano i Papi e la Curia, il padre del giornalismo moderno), molti dei quali però, pur capaci di incidere di più sulla pubblica opinione perché magari editorialisti di testate prestigiose, sono totalmente proni al potere e contigui all’establishment di cui sono emanazione i loro editori.

I social danno a utenti comuni l’opportunità di prendere di mira bersagli politici, e comici e satiristi spesso faticano a stare al passo della sferzata fulminea in tempo reale con l’attualità. Tra i più attivi c’è Andrea Zalone, co-autore dei programmi di Maurizio Crozza.

“Ho iniziato a leggere i tweet per informarmi e sono preso dalla necessità, quando leggo fesserie o fake news, di rispondere. Lo considero un gioco di società che non ha alcun impatto sulla vita reale. Alimenta solo il tifo da stadio”.

Ma viviamo un’epoca in cui il tweet di un politico viene commentato per giorni sugli altri media. “Purtroppo spesso ciò che accade su Twitter diventa titolo di giornale che fa credere a tutti che stia succedendo qualcosa. È il canovaccio del teatrino della politica”.

Ma conta il posizionamento politico di un comico? Secondo Zalone, “se è onesto intellettualmente, no. Perché il suo scopo non è fare propaganda”. Una posizione opposta a quella, per esempio, di Sabina e Corrado Guzzanti, che hanno fatto del loro punto di vista sulla politica un elemento centrale della loro poetica. E le querele? “Rientrano nella ricerca di visibilità e nel tentativo di imbavagliare. È difficile imbavagliare la satira perché sul web ne circola. In tv è praticamente sparita. Per qualunque editore, figuriamoci la Rai, la satira è una rogna. Ci vuole coraggio”. Per i satiristi sembra valere quel che Adorno e Horkheimer scrissero degli artisti: “Un tempo essi firmavano le loro lettere, come Kant e Hume, ‘servo umilissimo’, e intanto minavano le basi del trono e dell’altare. Oggi danno del tu ai capi di governo (Silvio, Giorgia, Matteo, ndr) e sono sottomessi, in tutti i loro impulsi artistici, al giudizio dei loro principali illetterati”.

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