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La recente sentenza della Corte Costituzionale invita il
Governo e il Parlamento a trovare una soluzione per porre fine, con
gradualità, al differimento del Trattamento di fine servizio per il
personale della Pubblica Amministrazione per sopraggiunti limiti di età o
di servizio. Viene tirato in ballo l’art 36 della Costituzione, che
merita di essere citato integralmente:
“Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla
quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad
assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa.
La durata massima della giornata lavorativa è stabilita dalla legge.
Il lavoratore ha diritto al riposo settimanale e a ferie annuali retribuite, e non può rinunziarvi”.
Questo articolo fu molto dibattuto dai Costituenti, che concordarono
tuttavia sulla necessità di porre fine al principio della austerità
salariale assunto come dogma nel ventennio fascista anche se, nel corso
degli anni, abbiamo appurato come alcuni principi guida possano essere
disattesi e aggirati da contratti nazionali e da regole sindacali
imposte dalla rappresentatività, regole che hanno portato a CCNL con
paghe orarie da fame e quell’intricato sistema di deroghe alla
contrattazione di primo livello che hanno indebolito il potere sindacale
rafforzando le istanze datoriali.
Dopo la pronuncia della Corte i tempi non saranno rapidi per porre fine
alla disparità di trattamento tra lavoratori del pubblico e del privato,
si si muoverà nel rispetto dei dettami di Bruxelles e dei piani
economici del Governo che hanno come faro guida il contenimento della
spesa pubblica. E stando ai dati Inps il prossimo anno andranno in
pensione circa 150 mila dipendenti pubblici (parliamo dei nati durante
il boom economico che sarebbero usciti dal lavoro già da anni se non
fosse arrivata la Fornero a posticipare l’età pensionabile), la spesa
ipotizzata è superiore a 10 miliardi di euro, da qui la possibilità che
il Governo lavori a una soluzione insoddisfacente e parziale dilatando i
tempi per equiparare il trattamento riservato alla forza lavoro del
privato.
Manca allora, davanti alla sentenza della Corte, una adeguata risposta
sindacale, se ci fosse saremmo davanti a una mobilitazione reale nei
luoghi di lavoro per imporre tempi rapidi nella erogazione del TFS
equiparando velocemente il trattamento riservato ai settori pubblici e
privati e magari restituendo gli interessi a quanti hanno percepito con
anni di ritardo la liquidazione.
Un tema importante, quello del TFS, che attira gli appetiti voraci della
previdenza integrativa e delle pensioni integrative in generale, un
colossale business che mette d’accordo sindacati rappresentativi e
istituzioni finanziarie.
Altro tema dibattuto, si fa per dire, ma assai attuale è quello della
precarietà, la cui nozione andrebbe profondamente rivista dacché
parliamo di circa 7 milioni di uomini e donne tra forza lavoro a
termine, disoccupati e inattivi alla ricerca di una occupazione.
Qui entrano in gioco anche le politiche attive in materia di lavoro e la
incapacità dello Stato e degli Enti locali di avere voce in capitolo
nei processi di formazione e di avviamento al lavoro, risultato di
scelte controverse e fallimentari come lo smantellamento delle Province e
dei vecchi centri di collocamento messi in ginocchio dalla Legge Del
Rio e dal ricorso sistematico agli appalti al ribasso attraverso il
variegato mondo delle cooperative.
Una soluzione, pur parziale, potrebbe essere quella di rendere più
onerosi i contratti a tempo determinato ma l’attacco sferrato dal
Governo Meloni al decreto Dignità evidenzia prospettive antitetiche.
Se guardiamo ai dati, due anni fa su oltre 8 milioni e cento mila nuove
assunzioni, solo il 17 per cento erano quelle a tempo indeterminato, la
precarietà ormai riguarda anche la forza lavoro che pur avendo un
contratto stabile presenta paghe irrisorie tra contratti part time e la
perdita di potere di acquisto sancita dai rinnovi a ribasso dei ccnl
sottoscritti anche dai sindacati rappresentativi.
Gran parte della forza lavoro con contratti a termine dovrebbe essere
stabilizzata e sono decine di migliaia i tirocini travestiti da
contratti a tempo che il passaggio al tempo indeterminato non vedranno
mai.
Il peso dei contratti atipici è decisamente cresciuto negli ultimi dieci
anni e ogni tentativo di arginarli è stato soffocato nel tempo da
continui e perversi interventi legislativi dettati dalle associazioni
datoriali.
I 7 milioni prima menzionati sono la sommatoria dei lavoratori atipici,
dei disoccupati (oltre 2 milioni) e degli inattivi disponibili al lavoro
ma senza reali possibilità di assunzione, quando poi si parla di
inattivi dovremmo anche sviluppare un ragionamento serio e costruttivo
sulla inadeguatezza del welfare che non offre soluzioni per la cura dei
minori e degli anziani.
Molti sono gli uomini e le donne che rinunciano, soprattutto a una certa
età, a cercare lavoro non avendo le competenze richieste, e senza
possibilità di accedervi con percorsi formativi inclusivi, o per offerte
occupazionali vergognose che poco o nulla hanno a che spartire con
un’offerta occupazionale degna di questo nome.
In tempi di cambiamenti produttivi e di processi di ristrutturazione
capitalistica il ruolo di uno Stato democratico dovrebbe essere quello
di guidare i processi di transizione con atti di indirizzo e controlli
che con gli anni si sono persi per strada a cominciare dal progressivo
abbandono del lavoro proprio da parte del pubblico.
Se resta carente la qualità e la quantità dei lavori offerti è indubbio
che l’indebolimento progressivo del ruolo dello Stato sia tra le cause
della precarietà (oltre ai rapporti di forza che oggi vedono soccombere
la forza lavoro davanti alla forza del capitale e dei capitalisti)
Il mercato del lavoro italiano è frutto della arretratezza del
capitalismo nazionale tanto che siamo il solo paese dove i salari hanno
perso progressivamente potere di acquisto e l’occupazione offerta si
basa su paghe da fame, orari impossibili e bassi qualifiche. Sempre
l’Italia vede le imprese poco propense, eccetto rare eccezioni, a
investire nei processi formativi preferendo invece appoggiarsi sugli
aiuti statali per licenziamenti anticipati o ammortizzatori sociali.
A conferma di quanto abbiamo appena scritto il fallimento dei navigators
che registrano poche offerte di lavoro dalle imprese private e in
prevalenza con contratti precari.
La debolezza dello Stato davanti al capitale privato, prodotta dalle
privatizzazioni e dalle norme che hanno rafforzato il precariato, è tra
le cause di questa preoccupante situazione.
E la precarietà diffusa diventa anche un ostacolo al buon andamento
della economia capitalista se pensiamo che in assenza di un contratto
stabile viene preclusa la possibilità di accedere a mutui e prestiti.
Ha poco senso, a nostro avviso, prendersela con la scarsa propensione al
principio di responsabilità sociale, la impresa capitalistica per sua
natura è predatoria e quando si muove in prospettiva non speculativa lo
fa perché costretta dallo Stato e dalle proteste sociali.
Siamo il paese nel quale invece di porre fine allo sfruttamento degli
studenti nei percorsi di alternanza scuola – lavoro si sceglie di
finanziare, con spiccioli, un fondo specifico dedicato alle vittime
nell’alternanza dimenticando che i fondi alla istruzione non
rappresentano una spesa ma un investimento per il futuro.
La precarietà è oggi assai diffusa e riguarda tanto i lavoratori atipici
o a tempo determinato quanto gli indeterminati, qui entrano in gioco i
bassi salari, i contratti nazionali con paghe orarie indecorose e un
welfare del tutto insufficiente per potenziare il quale non servono
tasse piatte o detassazioni.
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