giovedì 29 giugno 2023

Il depotenziamento dello Stato ha alimentato la precarietà

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La recente sentenza della Corte Costituzionale invita il Governo e il Parlamento a trovare una soluzione per porre fine, con gradualità, al differimento del Trattamento di fine servizio per il personale della Pubblica Amministrazione per sopraggiunti limiti di età o di servizio. Viene tirato in ballo l’art 36 della Costituzione, che merita di essere citato integralmente:
“Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa.
La durata massima della giornata lavorativa è stabilita dalla legge.
Il lavoratore ha diritto al riposo settimanale e a ferie annuali retribuite, e non può rinunziarvi”.
Questo articolo fu molto dibattuto dai Costituenti, che concordarono tuttavia sulla necessità di porre fine al principio della austerità salariale assunto come dogma nel ventennio fascista anche se, nel corso degli anni, abbiamo appurato come alcuni principi guida possano essere disattesi e aggirati da contratti nazionali e da regole sindacali imposte dalla rappresentatività, regole che hanno portato a CCNL con paghe orarie da fame e quell’intricato sistema di deroghe alla contrattazione di primo livello che hanno indebolito il potere sindacale rafforzando le istanze datoriali.


Dopo la pronuncia della Corte i tempi non saranno rapidi per porre fine alla disparità di trattamento tra lavoratori del pubblico e del privato, si si muoverà nel rispetto dei dettami di Bruxelles e dei piani economici del Governo che hanno come faro guida il contenimento della spesa pubblica. E stando ai dati Inps il prossimo anno andranno in pensione circa 150 mila dipendenti pubblici (parliamo dei nati durante il boom economico che sarebbero usciti dal lavoro già da anni se non fosse arrivata la Fornero a posticipare l’età pensionabile), la spesa ipotizzata è superiore a 10 miliardi di euro, da qui la possibilità che il Governo lavori a una soluzione insoddisfacente e parziale dilatando i tempi per equiparare il trattamento riservato alla forza lavoro del privato.
Manca allora, davanti alla sentenza della Corte, una adeguata risposta sindacale, se ci fosse saremmo davanti a una mobilitazione reale nei luoghi di lavoro per imporre tempi rapidi nella erogazione del TFS equiparando velocemente il trattamento riservato ai settori pubblici e privati e magari restituendo gli interessi a quanti hanno percepito con anni di ritardo la liquidazione.
Un tema importante, quello del TFS, che attira gli appetiti voraci della previdenza integrativa e delle pensioni integrative in generale, un colossale business che mette d’accordo sindacati rappresentativi e istituzioni finanziarie.
Altro tema dibattuto, si fa per dire, ma assai attuale è quello della precarietà, la cui nozione andrebbe profondamente rivista dacché parliamo di circa 7 milioni di uomini e donne tra forza lavoro a termine, disoccupati e inattivi alla ricerca di una occupazione.
Qui entrano in gioco anche le politiche attive in materia di lavoro e la incapacità dello Stato e degli Enti locali di avere voce in capitolo nei processi di formazione e di avviamento al lavoro, risultato di scelte controverse e fallimentari come lo smantellamento delle Province e dei vecchi centri di collocamento messi in ginocchio dalla Legge Del Rio e dal ricorso sistematico agli appalti al ribasso attraverso il variegato mondo delle cooperative.
Una soluzione, pur parziale, potrebbe essere quella di rendere più onerosi i contratti a tempo determinato ma l’attacco sferrato dal Governo Meloni al decreto Dignità evidenzia prospettive antitetiche.
Se guardiamo ai dati, due anni fa su oltre 8 milioni e cento mila nuove assunzioni, solo il 17 per cento erano quelle a tempo indeterminato, la precarietà ormai riguarda anche la forza lavoro che pur avendo un contratto stabile presenta paghe irrisorie tra contratti part time e la perdita di potere di acquisto sancita dai rinnovi a ribasso dei ccnl sottoscritti anche dai sindacati rappresentativi.
Gran parte della forza lavoro con contratti a termine dovrebbe essere stabilizzata e sono decine di migliaia i tirocini travestiti da contratti a tempo che il passaggio al tempo indeterminato non vedranno mai.
Il peso dei contratti atipici è decisamente cresciuto negli ultimi dieci anni e ogni tentativo di arginarli è stato soffocato nel tempo da continui e perversi interventi legislativi dettati dalle associazioni datoriali.
I 7 milioni prima menzionati sono la sommatoria dei lavoratori atipici, dei disoccupati (oltre 2 milioni) e degli inattivi disponibili al lavoro ma senza reali possibilità di assunzione, quando poi si parla di inattivi dovremmo anche sviluppare un ragionamento serio e costruttivo sulla inadeguatezza del welfare che non offre soluzioni per la cura dei minori e degli anziani.
Molti sono gli uomini e le donne che rinunciano, soprattutto a una certa età, a cercare lavoro non avendo le competenze richieste, e senza possibilità di accedervi con percorsi formativi inclusivi, o per offerte occupazionali vergognose che poco o nulla hanno a che spartire con un’offerta occupazionale degna di questo nome.

In tempi di cambiamenti produttivi e di processi di ristrutturazione capitalistica il ruolo di uno Stato democratico dovrebbe essere quello di guidare i processi di transizione con atti di indirizzo e controlli che con gli anni si sono persi per strada a cominciare dal progressivo abbandono del lavoro proprio da parte del pubblico.
Se resta carente la qualità e la quantità dei lavori offerti è indubbio che l’indebolimento progressivo del ruolo dello Stato sia tra le cause della precarietà (oltre ai rapporti di forza che oggi vedono soccombere la forza lavoro davanti alla forza del capitale e dei capitalisti)
Il mercato del lavoro italiano è frutto della arretratezza del capitalismo nazionale tanto che siamo il solo paese dove i salari hanno perso progressivamente potere di acquisto e l’occupazione offerta si basa su paghe da fame, orari impossibili e bassi qualifiche. Sempre l’Italia vede le imprese poco propense, eccetto rare eccezioni, a investire nei processi formativi preferendo invece appoggiarsi sugli aiuti statali per licenziamenti anticipati o ammortizzatori sociali.
A conferma di quanto abbiamo appena scritto il fallimento dei navigators che registrano poche offerte di lavoro dalle imprese private e in prevalenza con contratti precari.
La debolezza dello Stato davanti al capitale privato, prodotta dalle privatizzazioni e dalle norme che hanno rafforzato il precariato, è tra le cause di questa preoccupante situazione.
E la precarietà diffusa diventa anche un ostacolo al buon andamento della economia capitalista se pensiamo che in assenza di un contratto stabile viene preclusa la possibilità di accedere a mutui e prestiti.
Ha poco senso, a nostro avviso, prendersela con la scarsa propensione al principio di responsabilità sociale,  la impresa capitalistica per sua natura è predatoria e quando si muove in prospettiva non speculativa lo fa perché costretta dallo Stato e dalle proteste sociali.

Siamo il paese nel quale invece di porre fine allo sfruttamento degli studenti nei percorsi di alternanza scuola – lavoro si sceglie di finanziare, con spiccioli, un fondo specifico dedicato alle vittime nell’alternanza dimenticando che i fondi alla istruzione non rappresentano una spesa ma un investimento per il futuro.
La precarietà è oggi assai diffusa e riguarda tanto i lavoratori atipici o a tempo determinato quanto gli indeterminati, qui entrano in gioco i bassi salari, i contratti nazionali con paghe orarie indecorose e un welfare del tutto insufficiente per potenziare il quale non servono tasse piatte o detassazioni.

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