venerdì 30 giugno 2023

Come la Commissione Trilaterale ha modellato l’Occidente contemporaneo di Giacomo Gabellini

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Quando, nel 1973, istituirono la Commissione Trilaterale, i fondatori David Rockefeller, Zbigniew Br­zezisnki e George Franklin ambivano a creare un organismo transnazionale consolidare l’ordine internazionale a guida Usa e attenuare le tensioni emergenti tra i membri della “triade capitalistica” – formata da Stati Uniti, Europa occidentale e Giappone – dovute alla crescita economica europea e nipponica e all’intensificazione della concorrenza inter-capitalistica registratasi sulla scia della crisi petrolifera. Verso la metà degli anni 70, il think-tank pubblicò, tra i tanti, uno studio in cui si sosteneva che «un’iniziati­va congiunta Trilaterale-Opec che metta a disposizione più capitale per lo sviluppo sarebbe funzionale agli interessi dei Paesi trilatera­listi. In un periodo contrassegnato da crescita stagnante e aumento della disoccupazione, è ovviamente vantaggioso trasferire fondi dagli Stati membri dell’Opec ai Paesi in via di sviluppo affinché assorbano le esportazioni delle nazioni rappresentate in seno alla Commissione Trilaterale».

In un altro documento risalente allo stesso periodo si legge che: «l’obiettivo fondamentale è consolidare il modello fondato sulla in­terdipendenza [tra Stati] così da proteggere i benefici che esso garan­tisce a ciascun Paese del mondo dalle minacce esterne e interne che proverranno costantemente da coloro che non sono disposti a soppor­tare la perdita di autonomia nazionale che il mantenimento dell’ordine vigente comporta. Ciò potrà talvolta richiedere di rallentare il ritmo a cui portare avanti il processo di rafforzamento dell’interdipendenza [tra Stati] e modificarne gli aspetti procedurali. La maggior parte delle volte, tuttavia, occorrerà adoperarsi per limitare le intrusioni dei governi nazionali rispetto al sistema di libero scambio internazionale di beni sia economici che non economici».

Lo scopo dei trilateralisti consisteva quindi nel trasformare il pianeta in uno spazio economico unificato implicante l’instaurazione di stretti legami di interdipendenza tra Stati e, come si legge all’interno di un fondamentale studio focalizzato sull’argomento, «la ristrutturazione del rapporto che intercorre tra lavoro e management in funzione degli interessi degli azionisti e dei creditori, la riduzione del ruolo dello Stato per quanto concerne lo sviluppo economico e il welfare, la crescita delle istituzioni finanziarie, la riconfigurazione del­la relazione tra settori finanziari e non finanziari a vantaggio dei primi, l’instaurazione di un quadro normativo favorevole alle fusioni e alle acquisizioni societarie, il rafforzamento delle Banche Centrali a con­dizione che esse si occupino in primo luogo di garantire la stabilità dei prezzi e l’introduzione di un nuovo orientamento generale finalizzato a drenare le risorse dalla periferia verso il centro». Senza dimenticare l’abbassamento delle imposte sui redditi più alti, sui patrimoni e sul capitale, così da liberare risorse per gli inve­stimenti produttivi e porre fine al preoccupante declino della quota di ricchezza totale – misurata sulla base della proprietà combinata di immobili, azioni, obbligazioni, liquidità e altri beni – detenuta dal famoso 1% più abbiente della popolazione ai minimi dal 1922.

Un dato significativo, solo parzialmente imputabile allo storico ro­vesciamento dell’architettura tributaria messa in piedi nel periodo antecedente allo scoppio della crisi del 1929 dall’amministrazione Coolidge – e in particolare dal suo segretario al Tesoro Andrew Mel­lon – operato da Franklin D. Roosevelt. La contrazione dei redditi percepiti dalle fasce più abbienti era strettamente connessa al calo tendenziale dei profitti aziendali che, come intuito a suo tempo da Karl Marx, viene a determinarsi ogni qualvolta si verifica un ina­sprimento della competizione inter-capitalistica. Nella fattispecie, l’incremento astronomico di investimenti e produttività conseguito da Europa occidentale e Giappone era non soltanto risultato mag­giore rispetto a quello capitalizzato dagli Stati Uniti, ma era anche stato realizzato in un contesto caratterizzato da bassa inflazione, alta occupazione e rapido aumento del tenore di vita. Per un certo perio­do, l’abbassamento della soglia di remunerazione prodotto dall’in­tensificazione del confronto tra Usa, Europa occidentale e Giappone fu compensato dal vertiginoso incremento della massa dei profitti industriali generata dal boom economico, ma a partire dalla metà degli anni ’60 il margine aveva cominciato ad assottigliarsi gradual­mente per effetto dell’ulteriore esasperazione della competizione inter-capitalistica, combinata alla risalita generalizzata dei salari e al rafforzamento delle organizzazioni sindacali. D’altro canto, il crollo di Wall Street verificatosi a cavallo tra il 1969 e il 1970 aveva asse­stato un durissimo colpo alle tendenze speculative innescando per di più una spirale negativa destinata a protrarsi quantomeno fino alla fine del 1978, con la liquefazione del 70% circa degli asset comples­sivi detenuti dai 28 principali hedge fund Usa.

Il fenomeno non mancò di richiamare l’attenzione di Lewis Powell, giudice della Corte Suprema con alle spalle una carriera da legale delle multinazionali del tabacco che nell’agosto del 1971 aveva inviato una famosa lettera al funzionario della Camera di Commercio Usa Eugene B. Sydnor. Nel documento, intitolato elo­quentemente Attack of American free enterprise system, Powell lamentava l’assedio ideologico e valoriale portato al sistema delle imprese dalla «sinistra estrema, che è molto più numerosa, meglio finanziata e tollerata di quanto non lo sia mai stata prima nella sto­ria. Ciò che stupisce è tuttavia che le voci più critiche provengano da elementi assai rispettabili inseriti nelle università, nei media, nel mondo intellettuale, artistico ed anche politico […]. Quasi la metà degli studenti è inoltre a favore della socializzazione delle industrie americane fondamentali, in conseguenza della diffusione a macchia d’olio di una propaganda fuorviante che mina la fiducia del pubbli­co e lo confonde». Il giudice proclamò quindi che era ormai giunta «l’ora per il business americano di marciare contro coloro che intendono distruggerla […]. [Occorre che le imprese] si organizzino, pianifichino a lungo termine, si autodisciplinino per un periodo illimitato e coordi­nino gli sforzi finanziari in vista di un unico obiettivo di fondo [...]. La classe imprenditoriale è chiamata a trarre i debiti insegnamenti dalle lezioni impartite dal mondo dei lavoratori, e cioè che il potere politico rappresenta un fattore indispensabile, da coltivare con impegno e assi­duità e da sfruttare in maniera aggressiva […]. Chi rappresenta i nostri interessi economici deve affilare le armi […], esercitare forti pressioni su tutto l’establishment politico per assicurarsene il sostegno e colpire senza indugio gli oppositori facendo perno sul settore giudiziario nella stessa misura in cui lo hanno fatto in passato le sinistre, i sindacati e i gruppi a difesa dei diritti civili […] capaci di conseguire notevoli successi a spese nostre».

Il passaggio maggiormente significativo della lettera è tuttavia quello in cui Powell richiama l’attenzione sulla necessità di assu­mere il controllo della scuola e dei grandi mezzi di comunicazione, identificati come strumenti imprescindibili per “plasmare” la mente dei singoli individui e creare così i presupposti politico-culturali per la perenne riproduzione del sistema capitalistico. Evidentemen­te, a Powell non erano sfuggite le riflessioni formulate da Marx e Gramsci in merito al concetto di “egemonia”, che si esercita molto più efficacemente tramite una sapiente manipolazione degli appa­rati educativi e massmediatici che non con la coercizione. A suo avviso, occorreva infatti convincere le grandi imprese a mettere a disposizione somme di denaro sufficienti a rilanciare l’immagine del sistema attraverso un raffinato e meticoloso lavoro di “costru­zione del consenso” al quale si sarebbero dovuti applicare profes­sionisti profumatamente retribuiti. «Le nostre presenze nei media, nei convegni, nel mondo dell’editoria e della pubblicità, nelle aule dei tribunali e nelle commissioni legislative dovranno essere im­pareggiabilmente precise e di eccezionale livello».

Altro aspetto cruciale è dato dall’istituzione di un rapporto di collaborazione con le università propedeutico all’inserimento negli atenei di «docenti che credano fermamente nel modello imprenditoriale […] [e che, sulla base delle loro convinzioni] valutino i libri di testo, a partire da quelli di economia, sociologia e scienze politiche». Per quanto riguarda l’informazione, «le televisioni e le radio dovranno essere costantemente monitorate con lo stesso criterio utilizzato per la va­lutazione dei libri di testo universitari. Ciò vale in particolar modo per i programmi di approfondimento, da cui molto spesso proven­gono alcune delle critiche più insidiose al sistema del business […]. Sulla stampa dovranno continuamente apparire articoli che spon­sorizzino il nostro modello, ed anche le edicole dovranno essere coinvolte nel progetto».

L’altro testo di riferimento, supplementare al memorandum di Powell, da cui i trilateralisti trassero ispirazione fu The Second American Revolution di John D. Rockefeller III, un vero e proprio manifesto ideologico pubblicato dal Council on Foreign nel 1973 in cui si proponeva di limitare drasticamente il potere dei governi at­traverso un programma di liberalizzazione e privatizzazione inteso a privare le autorità statali ai alcune delle loro fondamentali funzio­ni regolatrici e revocare le politiche keynesiane in vigore ormai dai tempi del New Deal in un’ottica di ritorno al modello darwiniano e fortemente deregolamentato protrattosi fino all’avvento al potere di Franklin D. Roosevelt.

L’attuazione dei disegni trilateralisti, favorita dalla proliferazione delle fondazioni (particolarmente incisivo si sarebbe rilevato l’atti­vismo di quelle del Midwest, facenti capo alle famiglie Olin, Koch, Richardson, Mellon Scaife e Bradley) e dall’applicazione pratica di una serie di accorgimenti indicati in un impressionante rapporto sulla “crisi della democrazia” redatto dai politologi Samuel Huntin­gton, Michel Crozier e Joji Watanuki per conto della Commissione, fu implementata sotto la presidenza di Jimmy Carter. Vale a dire il candidato democratico uscito vincitore alle elezioni del 1976 grazie ad un’imponente campagna mediatica incentrata sull’attribuzione alla pubblica amministrazione della responsabilità rispetto all’e­mergere di tutta una serie di problematiche che attanagliavano gli Stati Uniti, a partire dall’inefficienza causata dall’eccessiva buro­cratizzazione e dalle “interferenze” nella vita economica lesive del­la piena valorizzazione delle potenzialità economiche del Paese. Si­gnificativamente, nell’amministrazione Carter furono reclutati ben 26 membri della Commissione Trilaterale, tra cui Walter Mondale (vicepresidente), Cyrus Vance (segretario di Stato), Harold Brown (segretario alla Difesa), Michael Blumenthal (segretario al Tesoro) e Zbigniew Brzezinski (consigliere per la Sicurezza Nazionale).

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