domenica 25 giugno 2023

Libro. Introversi o estroversi? Dipende!

Siamo forse introversi quando incliniamo per ore lo sguardo sullo schermo di uno smartphone? 

 

doppiozero.com Lelio Demichelis

Se fosse un libro invece di uno smartphone (il paragone non è nuovo, ma è sempre utile), potremmo dire che sì, siamo introversi, o meglio: capaci di introversione, di riflessione, di dialogo con noi stessi e con le molte differenziazioni che incorporiamo come premessa per il dialogo con gli altri e con il riconoscimento delle loro diversità come della nostra comune somiglianza); introversi sì, perché mentre stiamo leggendo, viviamo, ricreiamo e ci confrontiamo con la vita dei personaggi o con le riflessioni filosofiche politiche o sociologiche di un Autore; sì, siamo introversi se ci fermiamo ogni tanto e alziamo gli occhi dal libro e, pur senza guardare nulla di particolare, guardiamo concentrati su noi stessi, dentro noi stessi. Uno smartphone invece no: come dispositivo tecnico e come dispositivo comportamentale ci porta fuori da noi stessi – è una macchina di estroversione e insieme di alienazione psichica: ci distrae incessantemente e insieme ci cattura creando una sorta di dipendenza, feticistica e molto eccitante, di noi con l’oggetto/dispositivo.

Il risultato, come ha scritto Sarantis Thanopulos, Presidente della Società psicoanalitica italiana è “un assetto paranoico-depressivo della società, di cui la digitalizzazione dell’esperienza è una potente forza promotrice che, fondato su meccanismi di eccitazione antidepressiva e di scarica delle tensioni persecutorie, trova nella violenza e nell’omologazione compattante del pensiero regnanti nei social il suo principale sostegno e la più efficace fonte di riproduzione. L’inerzia in cui un mondo che ha smarrito il suo futuro ci spinge con costanza, trova nella vita in rete un alleato formidabile per espandersi nella sua forma più mistificante e insidiosa: l’immobilità performante”. Quindi il digitale può tutto, meno che favorire l’introversione e la riflessione e la meditazione; perché anche per il capitalismo digitale importante è che l’individuo sia sempre in movimento, cioè sempre più produttivo e consumativo, ma immobile esistenzialmente e quindi più performante e meglio formattabile in termini di valorizzazione capitalistica (anche facendosi profilare h24 e producendo dati…).

E quindi non siamo estroversi – ma nel senso di aperti al mondo e agli altri – quando interveniamo sui social commentando e criticando (anche con violenza verbale), tutto e tutti, dalle ricette delle torte ai vestiti indossati da qualcuno, rincorrendo fake news e complottismi vari, affollando (specie i giovani) siti sovranisti, machisti, misogini, sessuali, capaci solo di distruggere senza costruire, in una sorta appunto di pedagogia nichilistica di massa e sistemica (e veicolata oggi dalle nuove tecnologie) per allontanare sempre di più ciascuno da sé e dalla propria interiorità e dal dia-logo con gli altri. E neppure siamo veramente estroversi (sempre nel senso di aperti al mondo), quando seguiamo le mode o mettiamo noi stessi in vetrina/rete per farci ammirare/invidiare dagli altri; piuttosto siamo estrovertiti ad esserlo per la riproducibilità del sistema, portando l’individuo nella massa individualizzata ma sempre standardizzata dei consumi e oggi della rete, dei social e del digitale – tutte fabbriche a ciclo continuo di estroversione (che così diventa alienazione) da sé.

E se poi è lo stesso sistema che produce alienazione e falsa estroversione a offrirci anche il farmaco/veleno dei social e delle community e poi il populismo, il sovranismo, il nazionalismo, il comunitarismo per farci sentire meno soli e soprattutto meno isolati dagli altri, per farci chiudere nell’autoreferenzialità e nel rapporto identitario e falsamente introverso dell’amico/nemico – come può prodursi una ricerca di vera introversione? E ancora: isolarci dagli altri ma illudendoci solo così di poter essere veramente noi stessi, isolarci dal noi pur essendo connessi con tutti e credere di socializzare grazie a un social, non è forse la realizzazione perfetta della pianificazione neoliberale e capitalistica affinché tutto sia mercato e competizione, realizzando l’obiettivo di Margaret Thatcher per cui la società (il noi, senza il quale in verità anche l’io muore) non esiste, esistono solo gli individui, atomizzati, egotistici, ma vuoti? Un processo non di oggi – la produzione eterodiretta della nostra estroversione funzionale al mondo degli oggetti, cioè delle merci – se negli anni ’50 Vance Packard scriveva I persuasori occulti, spiegandoci come il marketing pro-ducesse, complici psicoanalisi e psichiatria, i comportamenti consumistici di cui necessitava l’economia, concentrando l’attenzione di tutti sugli oggetti/merci e facendo sì che la nostra realizzazione personale e spirituale venisse ricercata nella ritualizzazione del consumo.

E allora andiamo dallo psichiatra e psicoanalista Carl G. Jung (1875-1961) e alla sua distinzione tra introversione ed estroversione. Il soggetto estroverso – scriveva Jung – orienta il suo atteggiamento verso i fatti esterni, verso gli oggetti in particolare e tutto ciò che può attirare appunto la sua attenzione (tradotto: merci, oggi tecnologia e social); l’introversione rovescia invece il rapporto e l’interesse non si muove verso l’oggetto ma verso il soggetto, mentre all’oggetto attribuisce un valore semmai solo secondario. Altri hanno poi identificato l’estroverso con il collerico e l’introverso con il malinconico, ma sono tutte definizioni che poco tengono contro della molteplicità del soggetto umano e soprattutto delle tecniche con cui il sistema ingegnerizza i comportamenti – soprattutto estroversi, ma alla bisogna (per profitto) anche introversi.

Questa lunga (ma speriamo utile) premessa serve a portarci a Il bisogno di introversione di Paulo Barone, psichiatra e psicoanalista junghiano (e Jung è molto presente nelle sue pagine), da poco pubblicato da Cortina Editore (pag. 163). Un libro strano, non facile da leggere ma anche altamente poetico in certe sue parti e decisamente interessante e importante per la tesi che propone, per cui oggi avremmo appunto un bisogno crescente di introversione. Certo, su questo bisogno “aleggia il sospetto che si tratti di una tendenza all’isolamento, di un ritiro dalla vita sociale, di narcisismo. Con un conseguente giudizio di condanna. […] Se tuttavia la crisi del nostro modo di vivere fosse irreversibile, il rientro in se stessi potrebbe far parte di un più profondo bisogno di introversione: quasi il preludio a una nuova, più equilibrata visione delle cose” – un primo passo “con cui il mondo contemporaneo starebbe seguendo il filo della sua più segreta vocazione”. Soprattutto necessario se questo mondo presenta “una realtà esteriore in costante disfacimento, in preda al disordine e alla più radicale evanescenza, sempre più teatro di rivalità e competizione estreme in cui è arduo prevalere e molto facile soccombere; e di fronte al senso di insicurezza e di pericolo che ne deriva, l’interesse vitale delle persone arretra […] e si rivolge verso il recinto delle abitazioni private, verso gli affetti familiari d’origine, verso l’intimo della propria sfera mentale, alla ricerca […] di un rifugio sicuro, di una via di fuga, di un più attendibile luogo di interrogazione sul senso delle cose”. Tendenza che porterebbe gli uomini “a distogliersi dal mondo esterno, dirigendosi verso il cosiddetto mondo interno”.

Ma è davvero una vocazione segreta, ci chiediamo sviluppando le riflessioni di Barone, se tutto sembra negare invece ogni possibile conosci te stesso (e conosci il sistema in cui vivi, per provare poi a rovesciarlo o almeno a migliorarlo); se tutto sembra produrre piuttosto il disconosci te stesso anche quando devi apparentemente valorizzare le tue diversità (ma solo se utili al sistema) e dai prova di positivistica virtù e ti rassegni e quindi ti adegui al mondo così com’è, per cui nelle scuole si fanno apprendere prevalentemente competenze a fare e non conoscenza per pensare riflessivamente e criticamente? Certo, oggi “lo spazio sociale è attraversato da una corrente buia di passi sordi”, nonostante “la continua eccitazione a cui sono sottoposti gli individui”. Da qui però nascerebbe anche l’esigenza, per l’individuo, scrive Barone e condividiamo in pieno, “di decidere alla svelta in quale direzione proseguire il proprio cammino di fuga (o di ricerca vitale)”. Decisione che tuttavia ricava il suo senso solo “se posto all’interno di un interrogativo più ampio: in che modo lo stile dell’epoca che si fonda in prevalenza sugli oggetti, genera, quasi senza volerlo un orientamento inverso, qualcosa che si potrebbe appunto definire un bisogno d’introversione”.

In realtà e diversamente da Barone, questo bisogno di introversione è per noi ancora altamente improbabile che venga prodotto, quasi senza volerlo, da un’epoca che fa degli oggetti (merci, uomini, dati, biosfera, vita) il suo fondamento e che deve quindi generare incessantemente la nostra attrazione verso questi oggetti e verso la riduzione di ogni cosa a oggetto, uomo compreso, perché sia sfruttabile, altrimenti il sistema non funziona. Di più: questo bisogno di introversione – ammesso che sia reale, che non sia una fuga, una chiusura nel piccolo è bello (che per noi, e diversamente da Barone e da Jung, nega l’individualità delle persone e quindi è senza possibilità di vera introversione) – non può cercare un nuovo equilibrio perché il sistema non tollera l’equilibrio e lo considera una stasi, un tempo morto e cerca quindi di portare gli uomini a preferire, come oggi con l’IA – dove si sta generando una forma nuova di estroversione verso l’oggetto-matematica/IA – che sia una macchina a pensare per gli uomini, amministrandoli e governandoli sulla base di meri calcoli statistici o probabilistici, evitando loro di porsi domande, quindi escludendo ex ante ogni possibilità e capacità di introversione.

“Guai a coloro che vivono seguendo dei modelli” – scriveva ancora Jung – “perché la vita non è con loro. Se voi vivete seguendo un modello, allora, vivrete la vita del modello, ma chi dovrebbe vivere la vostra vita se non voi stessi?” Riflessione assolutamente condivisibile – ma che vorremmo intendere à la Kant, per un uomo che cioè ricerca l’autonomia/introversione individuale e che rifiuta i modelli (l’eteronomia) imposti da altri. È di questo che abbiamo oggi una disperata urgenza, ancora maggiore davanti al nuovo modello matematizzato/algoritmico che si sta imponendo e che dobbiamo seguire, il sistema attivando la nostra estroversione eterodiretta verso l’oggetto IA (il nuovo che non si può e non si deve fermare). Che poi è sempre capitalismo, ma all’ennesima potenza e che della nostra autonomia/introversione/libero pensiero non sa che farsene; e infatti li sta rottamando (come la democrazia) sotto i nostri occhi distratti – o indifferenti.

Lelio Demichelis è docente di Sociologia economica all'Università degli Studi dell'Insubria e alla Supsi di Lugano. 

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