Nei prossimi giorni l’Associazione Nazionale dei Sociologi terrà il suo convegno annuale e, a differenza delle edizioni precedenti, si troverà di fronte alla possibilità di riaffermare il ruolo dei sociologi, finora eclissato dalla presenza ingombrante degli economisti.
ilfattoquotidiano.it DOMENICO DE MASI
Il mondo è cambiato e questa volta lo ha fatto in favore della sociologia. Sarebbe paradossale se proprio i sociologi non se ne accorgessero.
Nel secondo dopoguerra la politica economica keynesiana, l’avanzata delle sinistre, le lotte sindacali e lo Statuto dei Lavoratori, la grande stagione delle riforme, da quella agraria a quella sanitaria e a quella del diritto di famiglia, le lotte per l’uguaglianza di genere, l’introduzione del divorzio e la legalizzazione dell’aborto, portarono in primo piano la sociologia come disciplina irrinunziabile, analista esperta di ordine e disordine, di movimenti e organizzazioni sociali, di conflitti di classe e di lotte urbane. È in quegli anni che la sociologia mise piede nell’università, prima con singole cattedre, poi con corsi di laurea e, in fine, con intere facoltà.
Nel 1962, quando fu aperta a Trento la prima Facoltà italiana di Sociologia, le matricole furono appena 226. Nel 1967 vi furono i primi 18 laureati. Nel 1970 furono aperte le facoltà di Roma, Urbino; nel 1971 quelle di Napoli e Salerno. Seguiranno poi altre 16 facoltà o dipartimenti in tutta Italia.
Ma già ben prima di Trento, fin dagli inizi del Novecento, erano sorte a Torino, Perugia e Genova singole cattedre affidate a sociologi illustri come Robert Michels, Enrico Morselli e Vilfredo Pareto. Poi, dopo la Seconda guerra mondiale, l’Olivetti di Ivrea era diventata un vivaio di sociologi da cui man mano sarebbero usciti Ferrarotti, Gallino, Butera.
Negli anni in cui sorse la facoltà di Trento, segnati da forti conflitti sociali e, insieme, dai movimenti hippy e new age, stuoli di giovani, nutriti di testi come L’uomo a una dimensione di Marcuse o Piccolo è bello di Schumacher, affollarono le aule di sociologia, ma anche di psicologia e antropologia. Poi lo strapotere del neoliberismo, iniziato con la crisi petrolifera del 1973 e imposto in Italia con le privatizzazioni degli anni Novanta e con i governi Berlusconi, ha consentito alle discipline economiche di eclissare tutte le altre scienze sociali a cominciare dalla sociologia. Intanto anche l’Unione europea, regolamentata dai neoliberisti, subordinava la dimensione sociale a quella economica e assicurava il primato alla libera circolazione delle merci, delle persone, dei servizi e dei capitali. Benché questa subordinazione contraddicesse la Costituzione italiana, tuttavia divenne un dogma e, di conseguenza, il ruolo dei sociologi diventò ancillare rispetto a quello degli economisti che occuparono rapacemente tutti gli spazi accademici e professionali.
Però, a partire dal 2008, la ruota della storia è girata nuovamente e, questa volta, in favore della sociologia. Prima la grande crisi economica, poi la pandemia e la guerra hanno svelato gli effetti perversi del neoliberismo in termini di bolle finanziarie, precarizzazione del lavoro, aumento delle disuguaglianze, declino delle classi medie, esorbitanti spese militari e rischio di un suicidio nucleare. Ma i sociologi, ormai privi di autostima, hanno tardato ad accorgersi che l’economia stava perdendo il controllo del sistema socio-politico e che era arrivato il momento di far valere le loro insostituibili competenze, preziose per orientare lo sviluppo del Paese.
Agli effetti devastanti del neoliberismo occorre aggiungere quelli della pandemia e quelli della guerra in Ucraina che hanno reso ulteriormente evidenti le ragioni per cui la nostra società non può prescindere dalla valorizzazione dei sociologi come sismografi delle dinamiche sociali e come analisti scientifici dell’ordine e del disordine.
Oggi il Miur stima che dal 1967 al 2021 si sono laureati in Sociologia 82.805 studenti, per il 72% donne. Privi di un albo professionale, respinti da un mercato del lavoro asfittico e disinformato, troppi di questi sociologi si sono ridotti nella condizione di “proletari della conoscenza”, parcheggiati in mansioni disallineate rispetto al titolo di studio.
L’ascesa al governo di tre partiti di destra, per cui almeno uno è costretto a essere estremista, destina le sinistre a un’opposizione dura restituendo forza al conflitto sociale e, quindi, alla politica e, in fin dei conti, alla sociologia. È dunque il momento prezioso, da afferrare a volo, per compattare le file, darsi una strategia creativa, un programma unitario e un’organizzazione efficiente, contrapporre al motto della Thatcher “non esiste la società ma solo gli individui” la convinzione sociologica che “esiste la società, composta da individui”.
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