Un attimo finire in Caoslandia, il campionato dei Paesi instabili che va dall’Africa al Medio Oriente fino al Latinoamerica.
infosannio.com (Riccardo Staglianò – il Venerdì-la Repubblica)
D’altronde già confiniamo con i Balcani e, di fatto, con Libia e Tunisia. «Se il mare attorno a noi s’ incendiasse e la circolazione da e verso gli oceani ne fosse pregiudicata, il nostro Paese si troverebbe a lottare per la sopravvivenza» scrive Lucio Caracciolo in La pace è finita (Feltrinelli), un sapienziale trattato che mette in guardia gli Stati, a partire dal nostro, dalla confortevole quanto perniciosa illusione che ci si possa disinteressare di geopolitica. La disciplina di cui questo sessantottenne romano, dopo i primi passi nella rivista della Fgci e la militanza a Repubblica dalla fondazione (prima cronista parlamentare poi capo del politico), è diventato sinonimo vivente.
Da quando, su suggerimento dell’amico francese che aveva fondato l’analoga rivista Hérodote, convinse l’editore Carlo Caracciolo («Nessuna parentela, ma una bella amicizia») a fondare Limes nel 1993. «La guerra in Jugoslavia ci aiutò. Ristampammo subito il primo numero e da allora non ho mai smesso di divertirmi», dice nella sala riunioni del mensile che ha da poco festeggiato anche il terzo anno di una scuola «non accademica» in cui insegnano ai giovani perché, nel mondo, succede quel che succede. Nella fase storica in cui gli esperti di politica internazionale hanno preso il posto dei virologi come guide per decrittare un presente minaccioso, ha conosciuto un’esposizione mediatica senza pari: «Non era nel mio carattere, ma mi piace discutere e anche confliggere, se serve.
E senz’ altro ha fatto bene alla rivista i cui numeri sono triplicati». Il libro – coltissimo, densissimo, che non disdegna giochi di parole e il conio di un certo numero di neologismi come quello che apre questo articolo – tiene insieme le radici profonde con gli epifenomeni, non temendo di rimarcare verità fattuali che il derby politico e il wrestling social spesso arruolano nella blasfemia giustificazionista (tipo l’avvicinamento del confine Nato da 1.500 a 400 chilometri dal confine russo).
E si chiude con l’invito a trarre spunto dal realismo del trattato di Versailles «prima che la guerra in Ucraina dilaghi fuori controllo o che scoppi il conflitto per Taiwan» non necessariamente per arrivare a una «vera pace – orizzonte coperto da troppe nubi – ma verso una successione di tregue e intese limitate, sulla base della garanzia reciproca non scritta ma effettiva della rinuncia a sovvertire il regime avverso, fosse solo per non doversi caricare i costi della gestione di un popolo umiliato e offeso». Con l’auspicio che l’Italia possa promuovere un tale percorso. A lui, che ci ricorda pagina dopo pagina come siamo immersi nella Storia fino al collo, abbiamo chiesto di ripercorrere questo anno vissuto pericolosamente.
A memoria sua quanto bisogna tornare indietro per ritrovare un anno così?
«Al 1989 quando, in meno di un anno, passammo dal Muro di Berlino al suo abbattimento e all’unificazione tedesca, mettendo le premesse per la disintegrazione del patto di Varsavia e dell’Unione sovietica. Un cambio di paradigma analogo a quello che stiamo vivendo i cui assestamenti potremo capire forse tra un paio di anni».
Si pensò allora che la Storia fosse finita, come da titolo di un fortunato saggio di Francis Fukuyama che lei fa a pezzi nel suo libro
«Finita era la pace, non la Storia. Perché la Guerra fredda non era affatto un paradigma negativo ma l’unico equilibrio possibile per evitare la guerra calda che avrebbe distrutto l’Europa, sterminato noi europei e dilagato nel pianeta. Mentre oggi la competizione è ormai al grado bellico (Russia contro Usa in Ucraina) o vi è vicina (Cina contro Usa per Taiwan). A rischio di degenerare in guerra mondiale in cui potremmo essere fatti fuori tutti. Quella sì incontestabile fine della Storia».
Ecco, affrontiamo i fronti più caldi a partire dall’Ucraina: a che punto siamo?
«Assodato che nessuno dei due contendenti può davvero vincere, c’è da determinare rispettivamente in che misura perderanno entrambi. Il che significa che la guerra è destinata a durare, sperabilmente con qualche intervallo, ma la vera pace è lontana. D’altronde anche le radici del conflitto affondano a un secolo fa quando una nazione in formazione, l’Ucraina, decise di emanciparsi dall’impero russo. Spero solo che la soluzione non richieda lo stesso tempo».
All’inizio, tranne i servizi Usa, si sono sbagliati quasi tutti nel prevedere l’invasione, lei compreso. Cosa abbiamo imparato?
«Mi sembrava che Putin sarebbe dovuto impazzire per ficcarsi in una situazione da cui difficilmente poteva uscire bene e ritenevo più probabile che facesse leva sugli ucraini russofili per condizionare il futuro di quel Paese. Però questa razionalità esterna non teneva conto della ratio di Putin di tentare il colpo di Stato. Ma qui entriamo in una logica diversa, quella di considerare reale ciò che, a detta del capo, dovrebbe esserlo. Se c’è una cosa che insegna la geopolitica è proprio di considerare, e anche empatizzare con, i punti di vista molto lontani dal proprio».
Per lunghi mesi anche da noi c’è stata un’inedita polarizzazione e sembrava bastasse amare Dostoevskij per venir considerato putiniano: perché?
«C’è stata una fase eccitata, tipo scontro di civiltà, con Putin paragonato a Hitler e i russi ai nazisti. Paragoni paradossali spiegabili con l’emozione e un certo grado di disinformazione.
Ora viviamo una fase opposta, col disincanto accentuato in buona parte dell’opinione pubblica e di molti governi per cui la guerra dovrebbe finire alla svelta, anche male, perché – anche se in maniera incommensurabilmente inferiore – ne paghiamo anche noi le conseguenze».
Sta parlando dei contraccolpi economici delle sanzioni
«Non solo economici. Chi le ha immaginate, America e alleati europei, voleva dimostrare innanzitutto l’unità del blocco occidentale. Tranne poi scoprire il contrario, ovvero che la Nato è un’alleanza che comprende i polacchi, molto antirussi, i turchi a metà strada, i tedeschi refrattari a rompere con Mosca e i baltici che vorrebbero sparisse dalla faccia della terra. E l’Italia con una posizione simile a quella tedesca, anche se molto meno esplicita».
A un certo punto si è cominciato a parlare di atomica come uno degli esiti possibili: com’ è possibile uno sdoganamento del genere?
«Cambiamo prospettiva. Com’ è possibile che le maggiori potenze producano migliaia di armi nucleari senza poi vagheggiarne l’uso? Durante la Guerra fredda esisteva la dottrina Mad, “deterrenza mutua assicurata”. Americani e sovietici erano diversi su tutto tranne che sulla grammatica: si capivano e fingevano addirittura che l’una potenza valesse come l’altra per scongiurare il conflitto atomico.
Ora non si capiscono più, anche perché il lavoro di analisi e spionaggio americano è tutto concentrato sulla Cina, e quindi si parla di armi atomiche tattiche di “potenza minore” che, a scanso di equivoci, sarebbero comunque venti volte Hiroshima».
Nel libro liquida l’ingenuità di Reagan di sconfiggere l’impero del male e il suicidio imperiale di Gorbaciov. Non ha dubbi che si stesse meglio nella Guerra fredda, vero?
«(Caracciolo mi guarda costernato per l’ingenuità della domanda) Noi certamente sì. Ovviamente a spese degli europei che stavano sotto i sovietici. Secondo la sintesi di Kennedy per cui “much better a wall than a war”. Era un mondo ordinato in cui l’Italia contava e la pace sembrava addirittura un orizzonte eterno. Oggi i confini, il limes, sono tutti in discussione».
All’inizio dell’invasione russa altro argomento tabù era parlare del coinvolgimento Nato e Usa. È così?
«Ci voleva molta fantasia per sostenere che la pur straordinariamente coraggiosa resistenza fosse alimentata solo dall’eroismo ucraino. Quando è stata resa possibile da almeno otto anni di aiuti americani, britannici e occidentali che le hanno permesso di avere l’esercito più potente d’Europa.
Una confusione iniziale in cui anche i media hanno responsabilità, avendo fornito una rappresentazione astorica del conflitto, che prescinde dal contesto e racconta la guerra come la cronaca nera, con una successione di orrori presentati come fossero assurde eccezioni».
Abbiamo sfiorato davvero la Terza guerra mondiale?
«Sì, fino a quando Stati Uniti e Cina, ma anche Russia, hanno stabilito che non si poteva entrarci per il Donbass. Il momento decisivo è stato il 15 novembre, il giorno del missile russo prontamente travestito da ucraino caduto in territorio polacco. In quel frangente le potenze hanno dimostrato tutta la loro saggezza.
Mentre in Italia già si diceva “prepariamoci a difendere la Polonia” Biden e Xi dichiaravano che 1) il missile non era russo 2) comunque era finito oltre confine per errore 3) era addirittura ucraino. Specificazione, quest’ ultima, che serviva anche come segnale a Kiev di darsi una regolata».
A proposito di Usa e Cina, a che temperatura è la loro sfida?
«Il punto più basso si è toccato al momento della visita della speaker del Congresso Nancy Pelosi a Taiwan. La guerra ha portato un riavvicinamento. Per i russi la partita ucraina sembra questione di vita o di morte, per i cinesi no. Anzi per Pechino Kiev era un partner cruciale sia come fornitore di cereali che come passaggio fondamentale per la Via della seta.
All’inizio Pechino aveva creduto a Mosca quando diceva che il conflitto si sarebbe risolto in tre giorni e aveva avvisato i propri connazionali in Ucraina di esporre la bandiera cinese alla finestra per evitare che russi sparassero loro. Poi, al vertice di Samarcanda, l'”amicizia senza limiti” era diventata più tesa».
Rischiamo davvero un altro conflitto globale per Taiwan?
«Voglio sperare di no. Ma Taiwan è importante perché i cinesi la considerano propria e gli americani han deciso che non dovrà esserlo mai perché si trova tra Mar cinese meridionale e orientale, tra Cina, Giappone e Filippine, l’area asiatica dove gli americani hanno più soldati proprio per bloccare la proiezione cinese verso gli oceani. Se Pechino controllasse gli stretti dove passano rotte commerciali diverrebbe egemone».
A proposito di talassocrazia, di recente ha scritto dell’importanza del canale di Sicilia: perché il ponte non è necessariamente “di destra”?
«La geopolitica va oltre gli schieramenti. Un Paese legittima la propria influenza nel mondo anche con grandi opere che contribuiscono a far apprezzare il suo marchio. L’olimpiade di Roma del 1960 fu un formidabile trampolino di lancio per noi, così come il tunnel sotto la Manica. Unire la Sicilia alla terraferma sarebbe un moltiplicatore per il nostro Meridione dal momento che, in una crisi demografica generalizzata, perdiamo proprio più persone nel Sud e nell’Italia appenninica. Possiamo perdere, oggi demograficamente, domani geopoliticamente, metà del Paese?».
Tantopiù che il post-Ucraina non significherà per noi confini terrestri più sicuri, o sbaglio?
«La nostra sponda adriatico-balcanica uscirà ulteriormente destabillizzata dalla guerra in Ucraina, il cui confine è più vicino a Trieste di quanto la città giuliana lo sia da Napoli. Cosa ne sarà di quella wasteland dopo la fine della guerra? E chi si accollerà la ricostruzione? Non l’America».
E sul fronte marittimo?
«Ci troveremo, nei fatti, confinanti con Turchia (già presente in Cirenaica) e Russia (impegnata in Tripolitania). Il tutto come effetto del conflitto che abbiamo perso con la Francia sul futuro della Libia. La trascuratezza verso le nostre frontiere è molto pericolosa».
Mentre ragioniamo di possibili conflitti futuri ce ne sono altri presenti.
L’Iran è infiammato da proteste con pochi precedenti: come le valuta?
«È una crisi profonda con radici antiche. Il problema, come insegnava Mao, è che il potere nasce dalla canna del fucile e quello ce l’hanno i pasdaran, che non hanno intenzione di cederlo.
Dall’altra parte ci sono donne coraggiose, una popolazione giovane, contro un potere soffocante e stupido che confidano di poter portare al suicidio».
Si riaccende anche lo scontro tra Kosovo e Serbia…
«La verità è che le guerre jugoslave non sono mai davvero finite. Furono sedate grazie all’intervento americano ma il Kosovo reso indipendente con l’omonima guerra in realtà controlla solo l’85 per cento del territorio che Pristina ritiene suo. E il rischio di guerra guerreggiata c’è».
Il ritiro dall’Afghanistan che Paese ha lasciato? Nel libro scrive che è stato «il prologo del 24 febbraio»: in che senso?
«Nel senso che quella ritirata precipitosa dà l’idea di un’America ripiegata su se stessa, sui suoi problemi interni. Il risultato più importante è aver rafforzato i talebani lasciando loro un arsenale simile a quello oggi fornito agli ucraini»..
Altre guerre che ignoriamo a nostro rischio e pericolo?
«Non dove si spara ma bisogna allargare la definizione. La dimensione cibernetica sta diventando primaria e può fare danni anche peggiori dell’atomica dal momento che, facendo saltare le infrastrutture, può mettere in ginocchio un Paese, come si vede anche in Ucraina. Per non dire delle infowars in cui i media classici contano meno di prima rispetto a singoli con un cellulare dal fronte».
Descrive un’Europa fuori gioco, ininfluente: nessuna speranza?
«Come disse Kissinger “ne parliamo come se avesse numero telefono” ma l’Europa, al di là dell’idea, non esiste tant’ è che, a segnalarne la genericità, scrivo Leuropa senza apostrofo. Vi sembra che Von der Leyen, per dire, rappresenti Macron? È nata per iniziativa americana, dal piano Marshall alla Nato, ed è stata tenuta insieme da una loro attiva presenza. Tant’ è che ora che questa presenza è in declino vengono fuori i singoli interessi, particolari e inconciliabili. Si vede soprattutto con i Paesi dell’Est, che stanno vivendo la loro fase risorgimentale: avremmo preteso da Mazzini e Cavour, non appena conquistata la sovranità, di scioglierla in un modello pensato da altri? Ecco non possiamo farlo neppure con polacchi e ungheresi, sebbene io preferisca di gran lunga il nostro modello al loro. Ma vogliamo far finta che sia possibile».
Racconta gli Stati Uniti come un “Antimpero in crisi” e paventa addirittura la possibilità di una seconda guerra di secessione: tra chi e chi?
«Tra l’America rossa e quella blu, intesi come stati repubblicani e democratici. Ormai la polarizzazione è tale che ci si sposa più tra bianchi e neri che tra democratici e repubblicani. Sono gruppi che differiscono in tutto: concezione della vita (vedi aborto), canone storico (una nazione fondata da schiavisti o da liberatori di colonialisti?), con più armi che abitanti. Perciò l’America è occupata più a pensare a se stessa che al resto del mondo. È un problema nuovo per tutti».
America che non soffre le sanzioni a Mosca di cui noi «paghiamo prezzi altrettanto alti di quelli che imponiamo ai russi». Si chiede: «sanzionare, cioè autosanzionarsi all’infinito?».
Ma che alternative ci sono?
«In ogni guerra la priorità è non spararsi sui piedi. Quindi, ammesso che abbiano senso, ragioniamo. Certamente hanno causato più problemi per noi e non hanno fermato i russi. Quindi magari avremmo dovuto valutare di mandare più armi e più soldi all’Ucraina a patto di decidere cosa vogliamo in cambio, tipo dire – come fanno gli americani – che con quegli aiuti possono fare alcune cose e non altre e pretendere di avere un peso al tavolo negoziale. Una volta messe le sanzioni è difficile toglierle.
Ma possiamo convincerci in modo più intelligente. Dicendo: vogliamo che voi resistiate, esistiate innanzitutto, ma stabilite dove volete/potete arrivare. Se alla fine avremo milioni di ucraini in giro per il mondo e un Paese alla fame, i primi a pagare saranno gli ucraini».
Per il nuovo anno cosa dobbiamo aspettarci?
«Intanto una tensione molto forte tra noi, Germania e Paesi nordici quando ci sarà da ridiscutere il Patto di stabilità. Per questo la crisi franco-italiana va sanata rapidamente altrimenti finiremo male tutti e due. Non dimentichiamo che la nostra crescita post Covid è dovuta alla sospensione del patto di stabilità che per noi è più un Patto di instabilità e decrescita, basta vedere gli ultimi vent’ anni. E poi spero che sia l’anno della sospensione, non della fine, della guerra in Ucraina. Kiev deve respirare ma anche Mosca, che ha già perso 100 mila uomini. Comunque finisca ci sarà sempre un confine comune».
Che fine faranno Donbass e Crimea?
«Se parliamo di territori non si va da nessuna parte. Intanto smettere di sparare. Poi col tempo si discuterà. L’Ucraina non può rinunciare ai confini del ’91 così come la Russia non può tornare dov’ era prima del 24 febbraio. Dovremo convivere con questa situazione».
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