In ricordo di Alberto Asor Rosa, scomparso il 21 dicembre 2022, pubblichiamo l'intervista a lui dedicata, contentuta nel libro L'operaismo degli anni Sessanta. Da «Quaderni rossi» a «classe operaia», a cura di Giuseppe Trotta e Fabio Milana (DeriveApprodi, 2008).
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Vorrei chiederti di cominciare dai tuoi anni universitari, tra il ‘52 e il ‘56 credo, quando inizia la tua militanza politica, con l’adesione alla sezione Partito comunista. Vorrei capire se questa scelta aveva radici remote, o se è riferibile a circostanze, persone, relazioni specificamente intervenute in quel periodo.
Le radici erano nella tradizione antifascista della famiglia: padre socialista, partecipazione alla Resistenza qui a Roma con la ricostruzione del Sindacato Ferrovieri e del Partito socialista tra il personale ferroviario. Il passaggio forse è rappresentato dalla crescita di un interesse per il comunismo e il Partito comunista rispetto a una matrice che in realtà non lo era. In questo senso fondamentali sono stati i rapporti con questo gruppo della sezione universitaria Partito comunista, giovani che invece erano già comunisti da tempo, sia per tradizioni familiari che per scelte individuali. Mi riferisco a quella componente con cui io ho avuto rapporti, sia studenteschi sia politici, rappresentata dagli studenti di Lettere e Filosofia di quegli anni, in modo particolare Mario Tronti, Umberto Coldagelli e Gaspare De Caro. Quando io mi sono iscritto alla cellula di Lettere di questa sezione, il segretario era… Enzo Siciliano (!); dopo un po’ di tempo segretario della sezione è diventato Mario Tronti, che era un segretario straordinario, di gran lunga superiore intellettualmente e culturalmente a qualsiasi altro di noi.
Con Mario Tronti e con Umberto Coldagelli in modo particolare, ho cominciato a leggere Marx e a interessarmi di questioni politico-ideologiche – sempre, come caratterizzazione originaria, abbastanza fuori dalla matrice storicistico-gramsciana che allora era dominante, perché i soggetti di cui sto parlando sin da allora si ispiravano ad altri maestri, nel caso specifico Galvano Della Volpe e Lucio Colletti. Soprattutto c’era questa idea della rilettura diretta dei testi marxiani, al di sopra della mediazione che ne era stata già effettuata in Italia, da Labriola a Gramsci, a Togliatti.
Questi ragazzi che hai citato, come li ricordi?
Eh, «come li ricordo»… La cosa è molto buffa, perché ieri sera abbiamo cenato qui insieme con degli amici tra cui Umberto Coldagelli, e parlando appunto della cosa che mi chiedi, è saltato fuori che io lo ricordavo con i riccioli biondi in testa…! Mah, diciamo ragazzi molto normali da altri punti di vista, molto vitali, e molto impegnati soprattutto dal punto di vista intellettuale più che politico, con questo tratto di interesse per la ricerca e lo studio che, in una Facoltà allora ancora abbastanza elitaria, tuttavia si distingueva per la particolare caratteristica di un’intelligenza che a me appariva superiore. In ogni caso io, rispetto a loro, mi sentivo in una veste di apprendista, perché pensavo che fossero molto più avanti di me.
All’Università di Roma, in quegli anni, era già attivo Mauro Gobbini, quale portavoce di Danilo Dolci.
Credo che la prima manifestazione pubblica di pensiero da parte mia sia consistita nello stendere un testo per un ciclostilato che Mauro, di ritorno dalla Sicilia, aveva tentato di preparare a Roma come sostegno alle lotte, all’azione di Danilo Dolci. Mi comparve davanti questo coetaneo, con un’aria più angelica che umana, per propormi di dargli una mano a stendere e far circolare questa piccola testimonianza a sostegno dell’opera di Dolci. Poi Mauro è entrato nel nostro gruppo più o meno stabilmente e ha seguito le vicende successive staccandosi parecchio, mi pare, dall’originaria matrice dolciana e diventando in ogni senso uno di noi.
Nel ‘53 c’è la morte di Stalin, nel ‘56 il rapporto Kruscev. Voi come avete vissuto questi passaggi?
Se si può prestare credito ai ricordi di cinquanta anni fa – ma penso che si possa e si debba – io non ho mai avuto una simpatia istintiva e trascinante come quella della enorme maggioranza dei militanti comunisti nei confronti della figura di Stalin. Adesso mi pare che questa filologia dei primi anni sia forse esagerata, comunque: nelle discussioni che io avevo con questi soggetti di cui ho parlato, potrei dire che io avanzavo delle riserve rispetto al comunismo, allora, in merito al problema della libertà. E su questo con Mario, con Umberto e con Gaspare abbiamo avuto delle grandi discussioni, perché loro, retrospettivamente, potrei definirli da questo punto di vista più ortodossi. La morte di Stalin probabilmente ha colpito me meno di questi altri. Poi, prima di arrivare al ‘56, secondo me il passaggio più importante per la nostra formazione – non so se altri di noi te lo hanno ricordato – è stata la sconfitta sindacale alla Fiat, su cui Mario e anche noialtri ci siamo impegnati a riflettere fortemente, portando la discussione anche all’interno della sezione universitaria, perché questa cosa, la sconfitta della Fiom nella roccaforte della classe operaia italiana, ci sembrava che rompesse alcuni degli schemi classici.
Quindi al ‘56 io personalmente sono arrivato – ma penso che si potrebbe usare il plurale – con un’ottica un po’ diversa da quella della lotta degli ungheresi per la riconquista delle libertà borghesi. La cosa che ci colpì di più e che in qualche modo era coerente con la riflessione dell’anno precedente, era il fatto che tra i soggetti più rilevanti della ribellione ungherese ci fosse la classe operaia e che, di conseguenza, tra gli avvenimenti torinesi e quelli di Budapest emergesse una coerenza di comportamenti degna di essere osservata con attenzione. Quindi la lettura dei fatti di Ungheria non è stata democraticistica, ma imperniata su questo fatto reale, cioè che tra il socialismo e la classe operaia si manifestava una contraddizione lampante. Insomma il passaggio del ‘56 significò per noi la rottura del paradigma materialismo storico-socialismo realizzato, e quindi l’idea che fosse necessario cercare una strada diversa rispetto a quella dell’ortodossia marxista-leninista. Con, al tempo stesso, una grande perplessità e una profonda diffidenza verso le fuoriuscite di stampo riformistico che avevano fatto persone appena più grandi di noi, e con le quali avevamo avuto rapporti negli anni precedenti: ad esempio Luciano Cafagna, il quale immediatamente scelse il riformismo, e poi Giolitti e, insomma, il gruppo di «Passato e presente». Noi la pensavamo diversamente.
Poi il rapporto Kruscev, il XX congresso e così via, hanno liberato queste energie che si erano depositate negli anni precedenti con questi fulcri di attenzione, e lì Mario ha guidato tutta la discussione attraverso una serie di assemblee entusiasmanti, veramente molto entusiasmanti, cercando di focalizzare la tensione piuttosto su questi punti di fondo, cioè sulla natura del socialismo, che non solo in Ungheria come nei mesi precedenti, ma anche in Unione Sovietica a quanto si evinceva dal rapporto Kruscev, era stato costruito su fondamenti burocratico-militaristi.
La cosa singolare è che a fronteggiare questo orientamento critico fu mandato in numerose occasioni Pietro Ingrao, che allora era direttore de «L’Unità», e dal quale ci eravamo recati io e altri di questa sezione universitaria a chiedere che il giornale desse conto delle proteste che circolavano anche all’interno della base del partito, ricevendone il più netto diniego. In due, se non ricordo male, in due assemblee della sezione universitaria, Pietro rappresentò il punto di vista del Partito, e cioè che Budapest e tutto il resto costituivano una specie di complotto conto il socialismo reale. Dopo di che le strade provvisoriamente si dividono, perché io rinnovo la tessera mi pare solo nel ‘57 e poi non la rinnovo più, e dopo due-tre anni mi iscrivo al Psi sotto l’influenza e in accordo con l’opposizione di Raniero Panzieri, che incontriamo nel ‘57-‘58 – anzi, lo incontro io più che gli altri. Poi, dopo le vicende socialiste determinate dalla maggioranza nenniana, non rinnovo neanche la tessera socialista fino a dopo il ‘68, quando entro nel Psiup in base a un ragionamento fatto in comune con questi altri compagni.
Nel ‘57 già tu sei collaboratore di «Mondo Operaio»
Non mi ricordo, ‘57 o ‘58?
L’articolo su Moravia, il più antico tuo che ho trovato, è del luglio ‘57…[1]
Ah sì?
Sì, quindi l’incontro con Panzieri è già avvenuto. Lui all’inizio di quell’anno è diventato condirettore di «Mondo Operaio», nel febbraio ha pubblicato le Tesi sul controllo operaio. Volevo capire meglio in che senso, in quella fase, Panzieri era per te, per voi, un riferimento politico e culturale credibile.
Io ho conosciuto Panzieri attraverso una nostra cara amica e collega universitaria, che è Ester Fano: una ragazza non Partito comunista, ebrea, che aveva avuto anche un periodo americano [2]. L’ho conosciuto e sono entrato in grande confidenza con lui: Panzieri era anche umanamente molto affascinante e disponibile. Lui diventa direttore di «Mondo Operaio» sulla base di un accordo interno, credo con lo stesso Pietro Nenni, che lo amava abbastanza, personalmente; e volle fare questo «Supplemento scientifico-letterario» di «Mondo Operaio» che oggi può apparire una cosa abbastanza ingenua, ma che ebbe qualche importanza nella storia di questi movimenti non conformisti.
Panzieri era un uomo di molto prestigio intellettuale, leggeva Marx anche lui molto originalmente (non a caso era stato allievo e perfino assistente, credo, di Galvano della Volpe a Messina) [3], e quindi il ritorno all’autenticità del testo marxiano, che io considero importantissimo in questa storia intellettuale, trovava in lui una rispondenza molto forte. Attraverso di me, credo, questi altri compagni entrano in contatto con lui. Contemporaneamente si sviluppano le travagliate vicende di Raniero con il Partito socialista, che lo emargina progressivamente – perché lui viene contestualmente emarginato anche dalla corrente di sinistra del Psi, e persino dal suo amico Lucio Libertini, che lo abbandona clamorosamente nel momento in cui Raniero avrebbe avuto più bisogno di essere sostenuto in questo suo conflitto con gli orientamenti dominanti dell’intero Partito. Raniero lascia «Mondo Operaio» e va a Torino per lavorare presso Einaudi, con esito anche lì poco felice, e così a cavallo tra gli anni ‘50 e gli anni ‘60 nasce l’idea di questa rivista comune, di cui c’è traccia in una corrispondenza epistolare – perché allora fortunatamente si scrivevano lettere – piuttosto fitta fra lui, me, Mario, eccetera.
Nel ‘58, a venticinque anni, sei segretario di redazione del «Supplemento», su cui firmi diversi interventi di critica letteraria. Mi colpisce molto l’autorevolezza con cui ti esprimi in questi testi, nei confronti di personalità già allora abbastanza codificate, ad esempio Calvino [4]. Mi chiedo da dove derivi questa sicurezza: forse dalla sede, in qualche modo dispensatrice di «dottrina», oppure da un tuo stile involontariamente perentorio, o magari dalle persuasioni già maturate in sede estetico-filosofica…
Se tu, molto a posteriori, fai questo rilievo, la mia risposta è che all’interno di questo gruppetto – darei una risposta in questo caso più collettiva che individuale – nel corso di questi anni di maturazione era molto forte, fino ai limiti dell’arroganza intellettuale, la persuasione di rappresentare un punto di vista altamente conflittuale e altamente eterodosso, con la… vanagloria di considerare quello che noi pensavamo, o qualche volta dicevamo, una cosa di grande peso intellettuale e politico. Cioè, c’era una specie di presunzione, potrei dire di «mini-superego» che ci riguardava un po’ tutti. Non è diverso lo spirito con cui Gaspare De Caro e Umberto Coldagelli scrivono le tesi sulla storia nei «Quaderni Rossi» [5], o il modo con cui Mario affronta e mette in mora con una sicurezza straordinaria una certa interpretazione canonica del marxismo e dei suoi interpreti. Insomma c’era del superomismo allo stato embrionale. Perché ci fosse… non lo so!
C’era insomma questa idea che noi stavamo smontando qualcosa di molto grosso, e che di conseguenza bisognava usare la spada se non era sufficiente il fioretto.
Forse non era solo vanagloria…
Non lo so, comunque l’atteggiamento era questo. Infatti si può dire che quando esce Scrittori e popolo, nel ‘65, anche se in realtà è uscito alla fine del '64 [6] – erano già passati alcuni anni, ma insomma non moltissimi –, Carlo Salinari che era l’interprete più autorevole del punto di vista Partito comunista sui fatti della letteratura e della cultura scrisse un articolo su «L’Unità» di violentissima condanna (tra l’altro io lo conoscevo, perché ne ero stato studente, quindi il rapporto era molto ravvicinato), accusandomi oltre che di errori vistosissimi nell’interpretazione, di arroganza intellettuale per aver detto cose che, giuste o sbagliate che fossero, tuttavia andavano declinate con maggior prudenza, perché la ricerca scientifica, e anche la politica, sono governate da mediazioni più vistose di quelle che noi fossimo disposti ad accettare. Eravamo un po’ fuori di testa… con effetti anche catastrofici [risate]. Io ho scritto su Mondo nuovo un articolo – un articolo sbagliatissimo, di cui non posso vantarmi, perché è un articolo in cui il settarismo produce l’errore – su Lessico famigliare della Ginzburg, in cui metto alla berlina l’antifascismo borghese, i vizi intellettuale di questo ambiente torinese chiuso, insomma una vera stroncatura, nei confronti di un personaggio affermatissimo. Per cui tutti andavano in giro dicendo: Alberto è pazzo, non ha il senso dei limiti… [7]
Voi avete avuto dei maestri importanti: Spirito, Chabod, Sapegno nel tuo caso specifico. La tua evoluzione rispetto a quel magistero come si è verificata, e come ha influito sui rapporti tra maestro e discepolo?
No, dunque. Spirito per me è stato un maestro importante della mia Facoltà, ma visto parecchio di lontano, mentre per Mario, ovviamente, la cosa è diversa. Uno che io ammiravo moltissimo era Chabod, forse quello che mi colpiva di più, una personalità di enorme fascino. Sapegno era un personaggio singolare, nel senso che era passato in gioventù attraverso un nodo cruciale della storia culturale italiana del Novecento, perché si era trovato sui 18-20 anni, quindi giovanissimo, a frequentare gli ambienti gobettiani e quelli gramsciani di Torino, a conoscere personalmente i due personaggi, a scrivere – a scrivere, veramente, solo sulla rivista gobettiana, ma insomma. Per noi aveva questo fascino originario, a cui si era sovrapposta una sorta di compostezza piemontese molto poco comunicativa, ma con il vantaggio di non avere nessuno dei tratti negativi caratteristici del baronato tradizionale. Nel senso che lui non dava molto, ma non pretendeva nulla. È stato lui che mi ha fatto da assistente, nello stesso anno in cui è uscito Scrittori e popolo, che lesse – questa è una curiosità aneddotica – con grandissimo appassionamento.
Dunque c’è continuità di rapporti…
Insomma, diciamo che questo filone piemontese-romano che lui incarnava, queste origini nella Torino degli anni ‘20, l’apertura mentale e la cultura europea abbastanza rare negli ambienti letterari, sono cose che io ricordo con piacere, non avrei nessun motivo per considerarmene estraneo. Anche se poi le nostre storie sono state molto diverse, e lui era molto consapevole di questa diversità.
Nel ‘59 sbarca a Roma Rita di Leo, e comincia con lei anche un lavoro politico di base, a contatto con gli ambienti operai…
Questo, però, solo dopo la comparsa di «classe operaia».
Ma già nel ‘60 appare, nella corrispondenza con Panzieri, il riferimento alla ricerca sugli edili di Roma. Lei ricorda che tu guidavi una Fiat 500…
No, appunto, con questo riferimento si arriva agli anni di «Co». Perché la proprietà di un’auto e la capacità di guidarla, che erano due cose allora abbastanza rare, facevano di me il mezzo pratico per raggiungere Terni, e a Terni fare propaganda operaia sia con i chimici sia con i metallurgici. E quando lei parla di queste spedizioni a cui partecipava Umberto, più raramente Mario – perché Mario il lavoro di intervento lo lasciava diciamo ai peones –, qualche volta un altro personaggio che ha circolato in questo ambiente che si chiama Enzo Grillo, amico molto stretto di Gaspare de Caro e con lui scomparso dal gruppo negli anni di «Co», o successivi a «Co» [8] – quando accade tutto questo è perché in «Co» viene lanciata la parola d’ordine dell’intervento operaio, che all’inizio non c’era. Cioè, all’inizio si faceva un giornale di agitazione politica rivolto ai quadri. A un certo punto, che adesso non riesco a focalizzare cronologicamente, soprattutto per la pressione del gruppo settentrionale, cioè Alquati, Gobbi, Gasparotto e così via, si decide di fare di«Co» un giornale di intervento, con una serie di servizi e anche di materiali di propaganda, per esempio volantoni da distribuire con o senza il giornale. Questo apre una stagione che dura poco, durerà un paio d’anni… in cui si va in giro per fare questo tipo di lavoro. A Roma, essendoci un’apparente scarsità di classe operaia, si decide di concentrare questa attività soprattutto a Terni, e soprattutto, se non ricordo male, in occasione di una grande agitazione sindacale dei chimici. Per cui si prendeva questa macchina e si andava a distribuire questi materiali, a parlare con gli operai, raccogliendo anche una serie di manifestazioni di consenso e di appoggio. Nella fase precedente il lavoro sugli edili io non me lo ricordo, e di sicuro io non l’ho fatto: l’avrà fatto Rita e... non so chi.
In questa prima fase del vostro lavoro, risultano aggregati al vostro gruppo personaggi come Mario Miegge e Paolo Santi. Te ne chiedo una memoria.
Sì. Bisogna dire che quando arriva Rita a Roma – io non mi ricordo come lei sia entrata nel nostro ambito, credo che la mediazione ancora una volta fosse rappresentata da Panzieri. Allora lei era una meridionale, venuta a Roma credo con il fratello, e aveva una casa vicino a piazza Istria che è diventata una specie di punto di ritrovo del gruppo. A questo gruppo, in questa fase, che precede e prepara i «Quaderni rossi», partecipano altri personaggi – per esempio io ricorderei anche Massimo Paci, che poi è stato professore universitario, presidente dell’Inps… Paolo Santi forse era un nostro più giovane collega di Università, però più socialista che Partito comunista; Miegge, come tutti sanno, era il figlio di un pastore valdese che lavorava qui a Roma, e rappresentava a Roma, non ufficialmente com’è ovvio, quella componente valdese che nei «Qr» ha avuto il suo peso, quasi organico. Paolo Santi era un uomo molto intelligente – erano tutti e tre uomini molto intelligenti, molto disponibili, di formazione e di orientamento non Partito comunista, interessati tutti e tre ai problemi dell’organizzazione del lavoro e, Miegge in modo particolare, anche a problemi di carattere ideologico-culturale. Perché il valdismo portava dentro a questo movimento anche un fermento di carattere religioso che a noi sembrava strano, ma che comunque c’è stato: l’idea dello spirito che si muove nella storia, che sta dalla parte della classe operaia, degli oppressi non dei padroni eccetera, ha fatto parte di questo ragionamento. A Torino poi questi erano parecchi... Paola Vinay, Giovanni Mottura, forse Rieser, qualcun altro anche di sesso femminile, adesso non ricordo. Erano un filone ben presente. Mentre invece, se vogliamo approfondire la faccenda, nella divisione intervenuta tra i «Qr» e «Co», con «Co» di valdesi non ne è venuto neanche uno.
Ti chiedo anche una memoria circa il ruolo di tua moglie Bianca, un personaggio che non appare mai, ma di cui molti testimoniano la rilevanza in questo gruppo romano.
Intanto Bianca è stata importante per il mio passaggio alla militanza Partito comunista, nel senso che lei ne faceva parte da prima. Figlia di un borghese torinese, trapiantato a Roma, di origini fasciste, era diventata Partito comunista nel territorio, non all’Università, in una delle sezioni storiche più famose di Roma, la sezione «Italia». Quindi lei certamente ha favorito questo mio passaggio all’iscrizione, e poi è stata costantemente presente in tutte le scadenze di cui ho parlato, forse non in maniera particolarmente leaderistica, ma con una grande intelligenza personale e con una forte capacità anche di contribuire a tenere insieme questo gruppo. Penso che sia giusto ricordarla.
Questo vale anche per gli anni di «Co».
Questo vale per qualsiasi episodio. Io sono stato con mia moglie fino agli anni ’80. No, lei è stata sempre molto presente, a me carissima e amicissima, come del resto è tuttora, di Umberto, di Mario, di Rita…
Insieme avete firmato un libro.
Il libro era sullo sciopero: abbiamo firmato un saggio sullo sciopero nella letteratura [9].
Nel ‘59 quando, con il congresso di Napoli, Panzieri abbandona la direzione di «Mondo operaio», e si trasferisce a Torino interrompendo l’impegno diretto nel Psi sembra finire una fase di preparazione, che peraltro ha coinciso con un momento di ricerca e ridefinizione, nella cultura italiana (sono gli anni di Officina, ma anche del Gattopardo, delle “Liale”…). A partire dal ’60, con le prime riunioni dei «Qr» si entra nella nuova fase. Con quali prospettive?
Una prima riunione specificamente non me la ricordo. Mi ricordo che, passato a Torino, Raniero fa questo lavoro di cucitura fra le varie componenti che avrebbero poi preso parte ai «Qr», e che secondo me sostanzialmente sono tre. Cioè noi, studenti comunisti o ex-comunisti con quelle esperienze che ho detto alle spalle, il gruppo che noi definivamo dei sociologi torinesi (Rieser, Mottura, De Palma), e la componente diciamo «movimentista spinta», rappresentata da Romano Alquati, Gasparotto, Gobbi ecc., quelli che arrivavano da una esperienza diretta di lavoro operaio. Io credo che queste erano le tre componenti fondamentali – e c’è poi Raniero a metterle in comunicazione e a fonderle. Quindi la fase preparatoria consiste nel mettere insieme questi tre gruppi giovanili – fortemente giovanili, perché nel ‘60 eravamo sotto i trent’anni un po’ tutti –, intorno a due o tre punti di riferimento fondamentali, che sono innanzitutto il rifiuto della prospettiva teorico-politica dei partiti – per motivi diversi, ma insomma in quel momento si consuma il distacco sia dal Pci sia dal Psi a seconda delle provenienze; in secondo luogo, un richiamo diretto alla lettura delle esperienze operaie, la persuasione che il motore della «rivoluzione» poteva essere solo la classe operaia; infine, l’idea che gli intellettuali che nutrivano questa persuasione dovessero fare un lavoro di conoscenza e di orientamento volto a favorire il consolidarsi di una coscienza di classe che fosse o alternativa ai partiti e al sindacato, oppure tale da spingere partiti e sindacati in una direzione diversa da quella in cui fino allora si erano mossi – e già in questa dicotomia ci sono le premesse della dicotomia successiva: ma questa cosa all’inizio non era molto chiara. Io non ricordo se S. Severa viene prima o dopo l’uscita dei «Qr» – però è in questa serie di incontri che l’impresa prende forma. Mario e io andavamo a Torino in estenuanti viaggi notturni in seconda classe, senza riuscire a dormire né io né lui, perché non ci riusciva di dormire seduti in treno; e poi facevamo queste riunioni spesso, anzi il più delle volte, a casa di Panzieri, il quale abitava in una bella casa in collina, nella prima collina, prestatagli da Giovanni Pirelli, di cui lui era grandissimo amico.
In una lettera a Panzieri dell’aprile ‘60 scrivi, con riferimento a «un corso di cose fatale e inevitabile»: «credo infatti che questa sia un’età profondamente tragica […] se non altro per la sua incapacità a esprimersi» [10]. Mi è sembrata strana, questa «tonalità emotiva» proprio al cominciamento dell’impresa. Mi chiedo se questo pessimismo ha un termine di riferimento circoscritto, o è un atteggiamento più generale.
Non me lo ricordo. Diciamo che di questo modo di essere faceva parte un atteggiamento di critica e di rifiuto dell’ottimismo dominante. Forse oggi uno non riesce a rendersene conto abbastanza, perché non esiste più il soggetto in grado di interpretare un messaggio di quel genere, ma il movimento oepraio degli anni 50, per esempio, era un movimento proteso ad indicare la inevitabilità delle «magnifiche sorti e progressive». L’ottimismo della volontà prevaleva, proprio come comportamenti, costumi e mentalità dominanti. Per cui faceva parte di un atteggiamento critico come il nostro tentare di rovesciare questo ottimismo dominante. E questo si poteva manifestare anche nella preferenza di certi autori piuttosto che certi altri nella storia della cultura europea otto-novecentesca. Per esempio il fatto singolare che si leggessero contemporaneamente Marx e Nietzsche come le due facce della stesa medaglia, è un po’ al tempo stesso la fonte e la testimonianza di un atteggiamento di questo genere, cioè l’idea che la lotta operaia non fosse necessariamente una lotta illuminata dal sole dell’avvenire, ma potesse contenere in sé anche una componente tragica, come era stato in passato e come si vedeva anche sotto i nostri occhi.
In quella primavera del ‘60, però, c’è anche il primo tentativo (fallito) di varare il centrosinistra, quindi il governo Tambroni, la rivolta del luglio, che tra l’altro Panzieri legge come «uso operaio del sindacato» [11]. Voi?
Noi… noi eravamo in piazza! Non mi pare che abbiamo riflettuto molto su quell’episodio in quanto tale, pur avendovi partecipato nei limiti del possibile. Io stavo dalle parti di piazza San Paolo quando ci sono stati gli scontri con gli squadroni a cavallo del capitano d’Inzeo, che era il nostro olimpionico, ma era anche un carabiniere che caricava la folla con la spada sguainata.
Del vostro interlocutore torinese, velocemente abbiamo detto. Mi interessa quel secondo gruppo settentrionale, che si presenta già legato all’intervento conoscitivo diretto a livello di fabbrica. Abbiamo già ricordato Dolci; c’è poi nei paraggi di Panzieri l’esperienza di Montaldi e quella di Bosio, interessati a dar voce diretta alla classe e alla sua «cultura». L’idea della conricerca, ad esempio, è in parte di matrice montaldiana. Mi chiedo quanto abbia contato, questa radice, nella vostra vicenda di gruppo.
Io di Montaldi ho sentito parlare per la prima volta da questi compagni lombardi, prima non sapevo chi fosse. Quindi nel mio caso non si può dire che ci sia stata un’influenza diretta – semmai attraverso di loro, in un certo senso. Mi pare interessante per definire il reciproco interesse. Per capire la reciproca influenza, forse, si può sottolineare il fatto che nella storia dei «Qr» e nella conclusione dell’esperienza comune questo gruppo lombardo si è sempre trovato, oppure noi ci siamo trovati sempre reciprocamente convergenti, e in qualche modo conflittuali con quelli che venivano definiti, un po’ sprezzantemente, «sociologi del lavoro». Credo per un motivo di fondo, e cioè che nei «sociologi del lavoro» il riferimento alla classe operaia come motore di tutto il processo era molto più moderato, meno estremistico, mentre questo gruppo romano e questo gruppo lombardo si incontravano proprio – con due strumenti straordinariamente diversi, due strumenti analitici e due mentalità completamente diverse – si incontravano però sull’idea che il fulcro del problema sarebbe stato ed era la classe operaia, i comportamenti operai, la dinamica del rapporto classe operaia-fabbrica, classe operaia-società e così via. E che ci fosse qualcuno che l’analisi operaia fosse in grado di farla e la facesse in maniera diretta, cioè andando in fabbrica o girando continuamente intorno alle fabbriche nel senso anche letterale del termine, evidentemente era un aiuto straordinario.
Mario viene da una sezione popolare come quella del Testaccio; tu hai descritto il mondo contadino artenese della tua infanzia [12]: per entrambi il rifiuto della matrice genericamente “popolare” e la scelta polemica del riferimento operaio sembra aver avuto bisogno di un moto di astrazione violenta. Come è stato possibile e quanto vi è “costato” accedere a una simile astrazione?
Evidentemente dietro questi ragazzotti romani c’era una realtà più contadina che operaia, e questo vale un po’ per tutti: anche Rita ha cominciato descrivendo il contadiname meridionale. Tu hai usato la parola “astrazione”: certamente in tutto questo processo l’elemento astrattivo è stato molto forte, e il più audace di tutti da questo punto di vista, oltre che da altri, è stato certamente Mario. La capacità di arrivare con la forza del pensiero – per usare un’espressione un po’ enfatica – a cogliere processi di cui noi non avevamo esperienza diretta è stata credo soprattutto cosa sua; poi ognuno di noi l’ha riportata nel proprio ambito. Per esempio Scrittori e popolo è un libro scritto in un certo senso forzando le condizioni del percorso storico della letteratura italiana tra 800 e 900, forzandole nel senso di rifiutarsi di prenderle in considerazione come la giustificazione di ciò che era accaduto e delle conseguenze che ne erano derivate. Dire che una larga fetta di questa storia letteraria era insufficiente, sbagliata e provinciale, si poteva fare destoricizzando il problema e le sue componenti, cioè rifiutandosi di accettare che una cosa, in quanto era accaduta, fosse non solo spiegabile ma giustificabile – che era e forse resta tuttora, anche se in maniera meno consapevole e meno visibile, la grande giustificazione dello storicismo. In questo senso, questi passaggi mentali che hanno riguardato la filosofia, la politica, la letteratura, la storia e così via, hanno fatto appello a un processo di astrazione che semplificava le cose liberandole dal vincolo costrittivo delle condizioni storiche in cui erano capitate. Ma perché questo sia accaduto, beh… come si fa a dirlo?! Non lo so, non lo so perché sia accaduto… È successo perché, intanto, dietro a questo gruppo c’era uno scambio continuo, quotidiano, di ore e ore di discussione: letture, autori, perfino preferenze musicali, se vogliamo, che effettivamente ruotavano anch’esse intorno alle scoperte teoriche di Mario Tronti. Credo che la spiegazione sia questa.
Infine la rivista [«Quaderni rossi»] esce, ha un successo formidabile.
Beh, formidabile mi pare un po’ esagerato. Non so nemmeno quante copie ne avessero tirate…
Nell’agosto del '61 si era tenuto il seminario di Agape…
Non vi partecipai.
… e nella primavera successiva si sarebbe svolto quello di Santa Severa.
L’incontro di Santa Severa è il momento in cui le diverse anime della rivista si evidenziano con maggiore forza, con maggiore capacità anche di resa, accompagnata però da spaccature nette e visibili; ad esempio di ciò, basti ricordare come la relazione su Marx tenuta da Mario venne immediatamente criticata, tacciata di hegelismo, accusa che molto spesso veniva indirizzata al gruppo dei neocomunisti romani. Mentre le riunioni di redazione dei «Qr» erano normalmente aperte e concluse dalle relazioni di Raniero, al seminario di S. Severa si optò per un dibattito basato su relazioni multiple: ci fu quella di Mario, ed anche una di Vittorio Rieser sul lavoro in fabbrica.
Ricordo un episodio: Raniero e io stavamo sostando di fronte all’ostello che ci ospitava, affittato a poco prezzo attraverso canali di tipo religioso da Mario Miegge, e d’improvviso si frantumò accanto a noi con grande fracasso un enorme vaso di gerani, lasciato cadere dall’altezza del secondo piano dalla coppia Gobbi-Alquati. La cosa provocò in Raniero uno scoppio d’ira inaspettato, dovuto alla pericolosità del gesto.
Nel luglio '62, la riunione di redazione coincide con le note vicende di piazza Statuto, di cui racconta la tua memoria sulle «Cronache dei Quaderni Rossi» [13]. Nella tua lettura dei fatti, viene sottolineata una contraddizione tra la mobilitazione operaia da un lato e i moti di piazza dall’altro. Ho capito bene?
Fra parentesi, da un punto di vista strettamente aneddotico, quella cronaca era stata scritta per «Mondo nuovo», che si rifiutò di pubblicarla, perché il suo direttore, cioè Lucio Libertini, la giudicò non pubblicabile. Anzi, per giunta ci incontrammo Libertini, Colletti e io, perché Libertini si era agganciato in quella fase a Lucio Colletti, che naturalmente considerava, nella sua superbia intellettuale, Raniero come un povero demente. Dunque questa cronaca era stata preparata per «Mondo nuovo», di cui ero collaboratore letterario, di costume ecc., ma Libertini non la volle pubblicare. Io adesso non la ricordo bene, ma temo che, nella rappresentazione dei fatti, questa contrapposizione tra la grande «forza tranquilla» degli operai in lotta e le manifestazioni di piazza fosse una contrapposizione enfatizzata a fini di ragionamento politico. Come a dire che bisognava proteggersi dall’accusa, che ci era stata mossa pubblicamente da «L'Unità», di essere i fomentatori e gli autori di questa sommossa popolare operaia, in un famoso articoletto che portava il titolo già di per sé significativo di Chi li paga?, opera probabilmente – ma questo non saprei dirlo con sicurezza – dell’allora segretario di federazione Adalberto Minucci, ma forse mi sbaglio [14]. Quindi c’era l’esigenza di recuperare la componente positiva della grande mobilitazione operaia cercando, come siamo soliti fare tutti, di distinguerci dagli eccessi di piazza, perché eravamo sotto tiro. Io direi che questa contrapposizione era enfatizzata per motivi tattici. A piazza Statuto c’erano migliaia e migliaia di operai, chiaramente anche organizzati dalla sinistra, che andavano a rifarsi alle spese della locale Uil di quel periodo di trauma profondo che era seguito alla sconfitta del '55. Insomma, direi oggi, erano più o meno l’espressione del medesimo movimento, naturalmente con la differenza rappresentata dal fatto che di fronte ai cancelli della Fiat c’erano 50-60mila operai, mentre lì ce n’erano due-tremila: quindi questa avanguardia violenta estrapolava dalla grande massa un gruppo più agitato e probabilmente più politicizzato.
Piuttosto io penso che quello sciopero, la manifestazione di piazza ecc. abbia contribuito ad aprire un solco dentro ai «Qr», perché Raniero rimase molto colpito dalle accuse di essere praticamente responsabile di questa cosa; quelle personalità sindacali, nazionali e locali, che avevano collaborato con i «Qr», per esempio nel primo numero, tra cui Vittorio Foa, si sganciarono a rapidità supersonica, e quindi lui provò il senso di un isolamento anche più grande di quello che era disposto ad accettare dopo le vicende dell’espulsione dal gruppo dirigente socialista. E quindi io penso che lì lui abbia cominciato a nutrire, come dire?, un atteggiamento di maggiore prudenza, e anche di distacco nei confronti di quell’ala del gruppo, composta anche in questo caso dai romani e dai lombardi, che invece era felice che tutto ciò fosse accaduto, perché sembrava che fosse la controprova vivente di quello che nei due-tre anni precedenti avevamo pensato e teorizzato.
Forse a questo punto vale la pena di parlare della quarta componente, che è la componente negriana. A un certo punto, nel manipolo di aderenti e componenti dei «Qr», arriva anche Toni Negri – che allora, se non ricordo male, era segretario della Federazione Socialista di Padova – e porta subito un’ulteriore accentuazione in questa sottolineatura dell’importanza della lotta operaia nel discorso di rinnovamento politico-intellettuale del tempo. Entra nei «Qr», ma per schierarsi insieme con noi.
Quando Mario, nei primi giorni del '63, gli annuncia «il nuovo corso» deciso da voi romani, Panzieri replica: «alla tua lettera con le proposte romane non si risponde, si esegue» [15]. Sembrerebbe che ci fosse tra voi un accordo, in prima istanza, che poi nel corso dei mesi successivi si rompe. Alla fine Panzieri sceglie la componente torinese. Come ricostruiresti queste vicende, e come le spiegheresti dal punto di vista di lui?
La lettera di Raniero a Mario l’ho letta stampata, nello svolgimento di quel periodo non me la rammento. Quindi non posso dire se lui abbia avuto un cambiamento di opinioni oppure se, come ritengo più probabile, abbia dato una risposta interlocutoria, anche se perentoria come tu la richiami, tanto per prendere tempo. Io do questa spiegazione, e non credo che sia una spiegazione ingenerosa nei confronti di Raniero. Io penso che lui non solo non avesse il coraggio, ma pensasse sbagliato il creare un polo di aggregazione intellettuale e politica, in prospettiva anche organizzativa, fuori delle organizzazioni tradizionali. Il progetto panzieriano è tipicamente un progetto orientato a creare le condizioni per muovere le grandi organizzazioni in una direzione piuttosto che in un’altra. Quindi arriva fino a ipotizzare l’uso operaio del sindacato, ma non arriva a ipotizzare che ci sia una linea che a un certo punto fa a meno sia del sindacato che del partito. Nei «classeoperaisti» certamente l’idea che si andasse alla creazione di una alternativa, non solo intellettuale ma politica e organizzativa, agli organismi tradizionali, non è mai stata secondo me chiara fino in fondo. Secondo me, l’ipotesi di partenza iniziale non conteneva chiaramente un «vogliamo fare un nuovo partito o un nuovo sindacato», ma il modo di procedere certamente poneva le basi di questo processo; e infatti, secondo me, nei due decenni successivi altri hanno sviluppato, magari catastroficamente, esattamente l’ipotesi realizzata fino a un certo punto da «Co», cioè l’idea che bisognava avere un organismo intellettuale e politico direttamente operaio. A un certo punto, come dicevo prima, non ci si è accontentati più di fare la campagna intellettuale e politica in senso astratto, ma si è teorizzato l’intervento; un minimo di organizzazione ramificata sul territorio nazionale, per quei tempi anche abbastanza visibile, fu creata; e Raniero a questo non era disposto, insomma. Io credo che la divisione fosse determinata da questo rifiuto. Poi ha avuto qualche aspetto poco simpatico, ma nella sostanza mi pare che si sia trattato di questa cosa qui.
Si interrompe così il tuo rapporto con Panzieri, che tuttavia è stato molto importante.
Ah, io lo amavo, l’ho amato moltissimo. Quando c’è stata la divisione, che poi è avvenuta appunto in questo modo poco simpatico di cui parlavo, cioè facendo uscire il terzo o quarto numero della rivista senza l’articolo che Mario aveva inviato…
ossia, posponendolo…
ecco, posponendolo, esattamente, ci rimasi malissimo, nel senso che la considerai una cosa molto grave anche sul piano personale. Ma questo non toglie che lui fosse un uomo straordinario. All’epoca doveva avere poco più di quarant’anni, eppure sembrava un uomo molto adulto, con una straordinaria cultura ed esperienza. Per definirlo non trovo modo più appropriato dell’uso di una parola classica: maieuta. Lui si trovava di fronte a un tavolo composto fondamentalmente da ragazzotti e ne cavava fuori, faceva in modo che questi cavassero fuori il meglio di sé. La sua intelligenza, la sua cultura, anche filosofica, piuttosto vasta... Ricordo in quali ristrettezze economiche, a volte drammatiche, riuscisse a portare avanti i suoi studi e le sue iniziative, a badare ad una famiglia numerosa, cui era legatissimo, e il tutto con una dignità estrema, con un portamento da gran signore. Gli anni a Roma furono davvero duri per lui; a Torino poté stare un po' meglio. Che sia sparito così presto è stata una perdita dolorosa e incancellabile, per me almeno.
Il primo numero di «Co» esce nel gennaio '64. In quello stesso mese nasce il Psiup [16] e, soprattutto, viene varato il primo governo di centro-sinistra «organico» [17]. C’è una logica, in questa concomitanza? Si può leggere la vostra storia per rapporto a una precisa strategia economico-politica capitalistica?
Io credo che più che di «risposta», si possa e si debba parlare di sfalsatura. Nel senso che «Co» nasce nella fase declinante delle lotte operaie e mentre il capitale si riorganizza, per dirla schematicamente, rispetto alla fase precedente di lotte, inventando non casualmente, io credo, la formula del centro-sinistra. Quindi io di «Co» – non so cosa ne pensi Mario, ma forse concorderà – penso che nasca controtempo. Questa cosa è capitata anche un’altra volta, cioè con «Contropiano». Si chiude «Co», ci sono un paio d’anni di intervallo, decidiamo di fare uno strumento di riflessione di lungo periodo, una rivista che esce tre volte l’anno, molto ponderosa, per un futuro imprevedibile. L’anno in cui esce «Contropiano» è il '68, l’anno che viene dopo naturalmente è il '69, il progetto della riflessione di lungo periodo salta, tutti si precipitano a fare qualche cosa di buono o di cattivo… Secondo me, anche «Co» nasce in controtendenza, perché nasce come effetto della stagione di lotte operaie che prepara e culmina nel '62, ma quando queste lotte operaie stanno declinando, e con un fatto politico nuovo molto rilevante, che noi volevamo e abbiamo cercato di demistificare, ma insomma era un fatto…
…di grande politica, visto retrospettivamente.
di grande politica. Questi, di fronte all’urgenza degli avvenimenti, alla pressione dei fatti, aprono ai socialisti, insomma. Allora era un fatto tutt’altro che irrilevante. Quindi secondo me «Co» urta contro questo duplice ostacolo e forse questo ne spiega anche la conclusione. No? Non è chiaro?
Intendi dire che il soggetto operaio non è all’appuntamento…
Diciamo che dopo tre anni… quanto dura?
'64, '65, alla metà del '65 si nota un rallentamento.
Beh, ecco, dopo due anni l’aggancio con il soggetto, ma questo lo dico retrospettivamente, l’aggancio con il soggetto non si verifica. Io interpreto anche la fase dell’intervento come una specie di tentativo di forzare la situazione che si era creata, in certo senso rilanciare. Ma insomma, da nessuna parte il seme gettato fruttifica. E di conseguenza, a un certo punto, c’è un ripensamento da parte soprattutto dell’attore principale, cioè Tronti, che rivede il giudizio sulle organizzazioni storiche, propone di abbandonare il minoritarismo dell’esperienza di «Co» e rilancia quel discorso, che per tanti anni abbiamo cercato di praticare, del lavoro all’interno.
Il convegno di Piombino, maggio '64, è il momento d’avvio della linea di intervento.
Beh, al convegno di Piombino sembrava di essere in un romanzo russo dell’Ottocento. Sì, un momento bellissimo, molto disagiato perché io, nonostante le mie origini contadine, quando vado a dormire vorrei avere un letto come si deve, invece eravamo accampati in certi alberghetti pieni di pulci… Certamente lì c’è il massimo della concentrazione raggiunta da questo movimento, oltre ai protagonisti che sono stati evocati finora c’era un sacco di altre persone, più o meno marginali, da Milano, Torino, Genova, da Padova che allora stava diventando una realtà molto ben identificata, dalla Toscana… Era insomma presente a Piombino il tessuto che il giornale aveva messo in luce con un minimo di autorganizzazione. Ed è il convegno in cui viene lanciato l’intervento, in cui hanno la rilevanza massima Romano, Toni, ecc.
Però già nell’agosto '64, con la morte di Togliatti, l’apertura di una dialettica interna al Pci…
Beh sì, la cosa si consuma in pochi mesi…
Infatti 1905 in Italia compare già nel numero di settembre di quell’anno.
Perché Mario era rimasto impressionato dal numero di partecipanti al funerale di Togliatti! Quindi Piombino è a maggio, naturalmente ad agosto è il funerale di Togliatti, poi a poco a poco si va spegnendo la cosa.
Come erano strutturate le riunioni di redazione di «Co»?
«Co» aveva una redazione, che è quella che risulta nella rivista. Questa redazione si riuniva in vari posti, spesso a Padova, poi a Torino, a Firenze, dove ci fosse un luogo in cui poterci riunire. Si iniziava con una relazione di Tronti, a cui seguivano i vari interventi che verificavano la linea. Ricordo Romano Alquati e Toni Negri, che non andavano mai d'accordo e si dicevano delle brutte parole a ripetizione.
I tuoi scritti su «Co» sembrano segnare un passaggio rispetto ai precedenti, anche quello comparso sui «Qr» [18]. Scompare la prospettiva di collaborazione a un’ipotesi di «cultura socialista», e il tuo primo titolo, Fine della battaglia culturale, lo esprime chiaramente. C’è come un irrigidimento teorico, il cui apice mi pare l’ Elogio della negazione [19].
Tutta l’esperienza di «Co» è connotata da un tratto estremistico. Credo non soltanto per quello che mi riguarda, ma un po’ come tonalità e mentalità generale del giornale. Questa è sicuramente, per quanto mi riguarda, la fase in cui la negazione della possibilità di un uso alternativo degli strumenti culturali è più radicale, è più totale. E la spiegazione sta probabilmente nel privilegiamento forsennato della politica e della prassi su tutto il resto. Non è un periodo molto fecondo da questo punto di vista, però per altri versi, anche tenendo conto degli anni in cui le due cose si svolgono… Questo è un po’ lo spirito di «Co»: l’idea che io non avessi intenzione di elaborare una diversa linea di critica della letteratura, bensì una sorta di negazione di quell’uso improprio della letteratura che era stata fatta dagli scrittori populisti o dai critici progressisti, per andare alla sostanza, credo sia presente anche nella prefazione di allora di Scrittori e popolo. Se valesse la pena rammentarlo, in «Contropiano» secondo me ritorna un’attenzione più specifica su questo tipo di cose. Per esempio c’è un interventino su Majakovskij che spiega secondo me come «ricominciare» [20].
Comunque Intellettuali e classe operaia, la tua raccolta del '73, parte dagli scritti di «Co», cassando quasi tutti i precedenti [21]. Vuol dire che in essi si esprimeva una prospettiva cui in seguito hai riconosciuto un valore «inaugurale».
Beh sì, un punto di partenza.
Questo tuo contributo teorico al giornale appare di primo piano…
Ma non credo invece che interessasse molto… Interessa i lettori successivi, ma nel complesso del gruppo di «Co» questi erano ragionamenti piuttosto marginali, non potevo pretendere che uno come Romano Alquati se ne interessasse.
Il '64 è anche l’anno in cui viene pubblicato il convegno di Palermo del Gruppo 63 [22]. Anche l’ipotesi neoavanguardista intende corrispondere al bisogno di aggiornare gli strumenti culturali di fronte alla realtà del neocapitalismo. Tu ne scrivi abbastanza prudentemente, mi sembra, sui «Quaderni piacentini» [23].
Guarda in quel momento noi ne avevamo – non vorrei usare una parola troppo forte – un sovrano disprezzo, perché ci sembravano dei perdigiorno, dei perditempo a pagamento. In termini generali, se uno dovesse rifare la storia della cultura italiana di quegli anni, potrebbe affiancare le due cose come sintomi dello sgretolamento del vecchio grande blocco unitario che, sotto il medesimo codice, teneva la politica, la cultura, la letteratura, metteva insieme Gramsci, Moravia, Pasolini e così via.
Io della neoavanguardia do un giudizio molto limitativo, mi pare già in quel saggio del '64, cioè che fossero degli avanguardisti un po’ da burla, come loro stessi si confessavano, degli avanguardisti da salotto; e il fatto che le condizioni storiche dell’avanguardia non si ponevano più ne limita molto il significato. Allora, se uno deve fare la fenomenologia degli elementi di crisi seri nella compagine culturale e letteraria del tempo, io ricorrerei ai soliti nomi di Fortini, Calvino, anche Pasolini per certi versi. Ma perché dovrei attribuire una funzione sperimental-critica veramente seria e profonda a Balestrini o a Sanguineti, insomma…!
A Fortini dedichi un intervento su «Angelus novus», una rivista che emerge nella fase del trapasso a «Contropiano». Vi è attiva una figura come quella di Massimo Cacciari.
Io ho sentito parlare di «Angelus novus» per la prima volta da Massimo Cacciari (che forse avevo conosciuto fuggevolmente a Venezia presentatomi da Toni Negri), e da Cesare de Michelis, che ne erano i direttori e sono venuti a Roma a trovarmi a casa mia – io abitavo molto in periferia in quel periodo – chiedendomi una collaborazione. Questo è ancora un altro fenomeno, perché, come il titolo della rivista in qualche modo allude, questi due giovanissimi direttori pensavano ad un organo che si dedicasse soprattutto a studiare e illustrare i fondamenti della grande cultura borghese contemporanea, da Benjamin a Nietzsche – questa mi pare che fosse l’intenzione dei due. E in questo senso io gli ho dato qualche cosa, anche altri giovani che collaboravano con me hanno scritto qualcosa. Salvo che poi il Cacciari è stato attirato nella nostra orbita, e uscendo da «Angelus novus» ha accettato di fare «Contropiano», quindi in un certo senso ha cambiato lui il suo orientamento di ricerca, avvicinandosi a questo filone operaista che noi avevamo messo in piedi e che «Contropiano» ha in qualche modo continuato [24].
Lì c’era appunto questo tuo lavoro su Fortini…
Che lo addolorò profondamente. Dolore di cui io mi rammarico molto, perché Fortini secondo me è uno dei personaggi più limpidi e più seri di questa fase storica, anche se credo che nella sostanza non avrei nessun motivo, in questo caso, di cambiare nulla di quel giudizio e di quella valutazione. Beh, gli rimproveravo, in un certo senso proseguendo questa stagione fortemente estremistica, di aver pensato che la poesia potesse avere una funzione utile – perché in sostanza la critica era questa, cioè che lui non solo pensava di fare una poesia diversa da quella dei suoi maestri (e questo non è neanche tanto vero, perché tra Fortini e i grandi maestri ermetici c’è una continuità clamorosa), ma al tempo stesso, riprendendo alcune intuizioni surrealiste, pensava che la parola poetica potesse essere uno degli strumenti per cambiare il mondo, ciò che era allora e mi pare tuttora una di quelle illusioni cui ci si può ancorare solo perché non ce ne sono altre più sostanziose [13].
Quando Mario propone la chiusura, tu ti contrapponi a questa prospettiva, alleandoti con Negri sull’ipotesi di una continuazione.
No, dunque. Prima, quando ho elencato alcuni dei motivi per cui, proprio sul piano oggettivo, della storicità effettuale, la rivista nacque dopo che si era consumato il momento magico per il quale invece era stata promossa, non intendevo dare un giudizio politico nel senso stretto del termine. Comunque, senza dubbio c’è stata questa contrapposizione. Il luogo in cui è successo questo, uno dei luoghi, certamente io credo quello conclusivo, in cui si è svolta questa discussione è stato il circolo Rosselli a Firenze…
Non il Francovich?
Storicamente era il circolo Rosselli, intitolato poi da noi al nome di Giovanni Francovich, un nostro compagno morto in un incidente d’auto e ricordato in questo modo; ma il luogo, l’archivio era quello storico dell’azionismo fiorentino, gestito in quella fase da compagni come Claudio Greppi e altri. A questa riunione fiorentina io credo che Mario non fosse neanche presente, perché aveva formulato questa ipotesi in svariate riunioni precedenti. Beh, io pensavo che l’esperienza andasse continuata. Lo pensavo per due motivi – adesso è passato molto tempo e non c’è traccia scritta di questo –, prima di tutto perché credevo che il lavoro di aratura fosse stato incredibilmente corto, quindi troppo poco per consentire di ricavare un risultato ragionevole dall’esperienza. Non avevamo lavorato abbastanza, le esperienze fatte erano limitate nel corso dei due anni, ritenevo che la chiusura fosse troppo frettolosa. In secondo luogo perché in quel momento esprimevo un giudizio pesantemente negativo sul comportamento dei partiti, Partito comunista e anche sindacato; mi sembrava che in quello snodo tra fine delle lotte operaie e centrosinistra, i comportamenti di questi organismi fossero stati peggiori addirittura che in passato. Quindi l’idea che si rinunciasse a creare un polo alternativo mi sembrava sbagliata. Così, per la prima volta nella mia vita di allora, mi opposi alla opinione espressa da Mario – il quale d’altra parte aveva in certo senso già concluso la discussione tirandosene fuori, nel senso che, quale che fosse stata la decisione collegiale comune, lui non avrebbe continuato a dirigere «Co». Una condizione non sostenibile.
Nel '66, in un intervento per «Nuovo impegno», metti in discussione la dimensione del «gruppo» [14] Si può dire che anche per te, in quell’anno, l’esperienza di «Co» è chiusa.
Questo è un po’ un allineamento alle tesi di Mario, nel senso che, se non ricordo male, ma me lo ricordi tu perché io non ne avevo più memoria, da quel momento comincia la nostra polemica contro le organizzazioni gruppuscolari. In nome appunto del lavoro da svolgere nelle grandi organizzazioni. E in quell’intervista, se non ricordo male, appunto si sostiene che il gruppo in quanto tale, cioè indipendentemente dai contenuti della sua posizione, della sua politica e così via, è un organismo politico insufficiente, quindi rifiutabile. Si verifica insomma questo, e cioè che dopo aver messo in movimento tutta questa serie di forze noi – credo che questo sia un paradosso storico – noi le critichiamo perché loro decidono di andare avanti per una strada che avevamo aperta noi, e le critichiamo in nome delle considerazioni per cui noi avevamo chiuso la nostra esperienza come raccomandando agli altri di non fare quello che noi avevamo cercato di fare. Che è poi la cosa con cui abbiamo attraversato il '68, in maniera più o meno disagiata, e con qualche inconveniente personale.
Quale credi che sia il lascito, oggi, di riviste come «Qr» e «Co»?
Penso che quelli che hanno fatto «Co» abbiano dichiarato di non accontentarsi del rapporto costituito tra istituzione politica e realtà sociale; «Qr» invece sta ancora dentro questo rapporto. La differenza e il conflitto nacquero su questo punto: noi non pensavamo che le istituzioni politiche fossero l’unico canale della rappresentanza dei diversi modi di essere della società. «Co» ha voluto mettere in discussione questo, ha voluto spezzare un rapporto costituito; il fatto che non ci sia riuscita può anche significare che il tentativo non sia più perseguibile... In fondo, il non averlo più messo in discussione, secondo me, ha ottenuto effetti più negativi che positivi. Ma quel che è accaduto negli ultimi quattro-cinque anni (crisi o «tramonto della politica», per usare anche in conclusione una formula trontiana, movimenti no global, ecc.) forse potrebbe essere riallacciato a quelle lontane intuizioni. Non in maniera diretta, s’intende.
Penso in conclusione che il lascito di queste esperienze non possa essere solo culturale, ma sia anche e soprattutto politico. Se fosse solo culturale e accademico, se avessimo lottato per creare tre o quattro scuole universitarie di sociologia, ci dovremmo dare una revolverata.
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