Nel 1991 il critico letterario Guido Almansi raccolse in Perché odio i politici (Mondadori) l’esasperazione di 96 “campioni scelti degli italiani” (scrittori, filosofi, attori, docenti universitari) non tanto per le ruberie e il peculato, “inevitabile risvolto tecnico della politica”, quanto per il “basso livello umano raggiunto dai nostri politici, personaggi perlopiù intellettualmente modesti, spiritualmente vuoti, moralmente viscidi”.
(DANIELA RANIERI – Il Fatto Quotidiano)
Era il IV governo Andreotti; sarebbero seguiti Amato, Ciampi, Berlusconi. Tra le risposte di Mario Luzi, Raffaele La Capria, Vincenzo Consolo, Vittorio Gassman, Antonio Cederna etc., brillava questa dello scrittore siciliano Gesualdo Bufalino (1920-1996), funambolo della parola sopraffina e alata, profeta, alla luce del “crac” attuale, di straordinaria lungimiranza politica.
Odio? No. L’odio è una passione a suo modo eroica, non la sciuperei su bersagli di così povera specie. E se non odio, che altro sentimento? Direi una sorta di rancore quieto, che si stempera volentieri nel disincanto, senza osare esplodere – per sfiducia, per pigrizia senile – in un gesto o in un grido. Il prezzo che pago è di apparire, controvoglia, un disertore dell’arengo civile. Peggio: un succube, un connivente… In verità da anni non voto. Me ne vergogno, ma non so che farci. Delle scalmane ideologiche sono guarito prestissimo, una trista chiaroveggenza m’insospettisce d’ogni utopia… Mi chiedo spesso perché, se è fatale tanta degradazione. Riapro Il matrimonio di Figaro: “Fingere d’ignorare ciò che si sa e di sapere ciò che s’ignora; di capire ciò che non si capisce, di udire ciò che non si sente, di potere più che non si possa; esser solito nascondere questo gran segreto: che non c’è nulla da nascondere; apparire profondi quando si è soltanto vuoti… La politica è tutta qui”. Male antico, dunque?
Sarei tentato di crederlo, io che fin dal principio mi son visto dai politici assassinare la giovinezza e sconvolgere il corso naturale del mio crescere in uomo. Tempi difficili, di stivali e di trombe, in cui tuttavia l’assuefazione all’aria del carcere e l’ignoranza della luce rendevano meno dolorose le tenebre. Quando ne uscii, so io con che animo lieto mi apersi alle novità della storia; come respirai, con quel poco di polmoni che la guerra m’aveva lasciato, l’aria salmastra della libertà! Durò poco, e ogni anno fu peggio. Oggi dai politici mi sento rinchiuso fra le stesse quattro mura di un tempo. Mi ripeto la frase illustre: “Io sono solo, loro sono tutti”. E dire che fino a poco fa una parvenza di programmi e contegni contrapposti ancora li distingueva, fuori e dentro il Palazzo. Oggi nel Palazzo ci sono tutti, le divise si scambiano a piacere, quanto più le risse sono fragorose, tanto più sono finte. Un unico gigantesco partito li arruola tutti, dal Montecitorio più grande agli altri, innumerevoli, sparsi per la penisola. E quanto parlano, poi… Quale quotidiano inesauribile vilipendio della parola… È questa l’offesa che duole di più: ci taglieggiano, ci sgovernano, ci malversano… Ma almeno stessero zitti; smettessero questo balletto di maschere, questo carnevale del nulla, al riparo del quale mani avide intascano, leggi inique o vane si scrivono, ogni proposito onesto si sfarina in sillabe senza senso… Esagero? Esagero, ma ditemi: quanti sono oggi coloro che intendono veramente la politica come servizio? E non sono costretti a nascondersi come lebbrosi? E per uno che opera con coscienza e fatica, quanti altri sono solo vesciche pompose, busti di cartone, pastori di nuvole, puri e semplici ladri? Il risultato è sotto gli occhi di tutti: uno Stato tirchio e scialacquatore, frenetico e inerte, feroce e longanime, occhiuto e cieco… Meno male che sono vecchio. Mi dice un facile calcolo che il crac prossimo venturo mi sarà risparmiato. “E ora sbrigatevela voi”, dirò l’ultimo giorno, fregandomi le mani sotto il lenzuolo.
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