Si può pensare che
si tratti solo di quattro mascalzoni, di cui dimenticheremo presto i
nomi, dato che in fondo hanno solo preso un po’ di soldi da uno sceicco.
(DI DONATELLA DI CESARE – Il Fatto Quotidiano)
E, bando all’ipocrisia, da che mondo è mondo, le bustarelle, più o meno cospicue, non sono mai mancate, soprattutto dove vengono assegnate le sedi dei grandi avvenimenti sportivi. Gli altri Paesi, dove i panni sporchi si lavano in casa, non sono poi migliori del nostro. D’altronde la natura umana – si sa – è già sempre corruttibile. Oppure si può credere alla favola raccontata da Roberta Metsola, presidente del Parlamento europeo, all’indomani dello scandalo, cioè che “attori maligni” non ben identificati tentano di insinuarsi nell’edificio dell’Unione per minarlo. Da un canto la versione cinica e acquiescente del “così fan tutti”, dall’altro la versione complottistica e vittimistica per cui nessuno è responsabile e la colpa andrebbe imputata a fantomatici agenti esterni. In mezzo, tra questi due poli opposti, c’è un dibattito che langue e un silenzio delle forze politiche coinvolte, interrotto solo da qualche uscita esitante e impacciata che finisce per creare ancor più imbarazzo e confusione.
Il cosiddetto Qatargate non è solo un problema morale, né solo un caso consueto di corruzione, che possa essere risolto con la parola magica “pulizia”. Come se si trattasse di un paio di mele marce da allontanare. Dire “faremo pulizia”, come dichiara qualche esponente del Pd, significa non solo ridimensionare la questione, ma anche travisarla. Può andare bene per ora, seguendo la solita tattica opportunistica del momento. Non è consigliabile, però, se si vuole davvero capire che ne sarà della cesta intera. Dovrebbe essere questo l’interesse del Pd, se ha aperto un dibattito al suo interno, un dibattito non limitato al totonomi – Schlein o Cuperlo, Bonaccini o De Micheli – ma in grado di affrontare i nodi cruciali che si sono andati sommando.
Il Qatargate appare così inquietante non solo perché è la punta di un iceberg, l’indizio di un sistema corruttivo ben impiantato nel Parlamento europeo, ma anche e soprattutto perché mette allo scoperto un modo di concepire ed esercitare la politica. Quello che alcuni inascoltati outsider del pensiero sostenevano già tempo fa viene oggi alla luce. La politica ridotta a governance amministrativa, senza visione, senza la speranza di un’alternativa, non poteva portare ad altro. Il politico che amministra, che sbriga pratiche, senza l’afflato di un ideale, senza la convinzione di operare per la giustizia della propria comunità, è già nell’ingranaggio dell’affarismo privatistico. Il passo verso i propri affari privati è breve. Perché in fondo è un elemento isolato, i cui legami con il resto del partito e con gli elettori sono – come emerge con chiarezza – flebili o inesistenti. D’altronde lo vediamo continuamente intorno a noi: dirigenti politici che non credono più in niente se non in se stessi.
Ci si può aspettare dalla destra che amministri il dettato dell’economia a tutto vantaggio di interessi di parte. Lo vediamo oggi con il governo Meloni. Non ci si può invece aspettare dalla sinistra che sia il partito della governance e traffichi nei bassifondi affaristici. Qui sta il punto. Non si tratta di superiorità morale, qualsiasi cosa questa formula significhi. D’altronde, si può separare l’etica dalla politica? In base a quali discutibili criteri?
Il Qatargate arriva dopo l’affare Soumahoro, a cui va necessariamente collegato. Mentre disappunto e indignazione aumentano, le risposte giunte fin qui da Verdi-SI, Articolo 1 e Pd sono talmente banali e insulse da essere quasi un affronto per il popolo della sinistra. La triste parabola dell’onorevole Soumahoro (che ancora non si è dimesso!), l’icona acchiappavoti, il santino decorativo offerto come candidato premier di una linea inesistente, è l’ennesima prova di un vuoto politico e di una politica vuota. Sostenere di non aver conosciuto Soumahoro, non aver conosciuto bene Panzeri – come fanno ora alcuni dirigenti – significa non solo ammettere la disgregazione del proprio partito, ma anche alla fin fine confessare di non aver più un cammino politico condiviso. Altrimenti basterebbero alcune parole, alcuni comportamenti ad allarmare.
Servono leggi che regolino in modo trasparente l’attività di lobbying? Leggi sul conflitto di interessi che ostacolino il meccanismo delle porte girevoli a chi ha rivestito ruoli istituzionali? Certo questo potrebbe essere un mezzo utile, sebbene molti cittadini fossero all’oscuro dell’entità di questi affari lobbistici al Parlamento europeo. Ma lo scandalo deve essere affrontato nella sua gravità e profondità politica. Non può essere ridotto a una sorta di crimine amministrativo-burocratico da risolvere sul piano giudiziario.
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