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Il farmaco Molnupiravir non riduce la frequenza dei ricoveri o dei decessi legati al Covid-19 tra gli adulti vaccinati più vulnerabili: è quanto emerge da uno studio che inevitabilmente ridimensiona il ruolo della costosissima pillola della società farmaceutica Merck, che negli scorsi mesi – sulla base di dati assai scarsi – era stata celebrata sui principali media e da molti dei virologi più in vista come una cura quasi miracolosa. Il lavoro, recentemente pubblicato sulla rivista The Lancet, con l’obiettivo di fare luce sugli effetti del molnupiravir nei pazienti vaccinati a rischio ha precisamente coinvolto oltre 25mila soggetti positivi al Covid e con sintomi iniziati da non più di 5 giorni, gran parte dei quali aveva ricevuto almeno tre dosi di un vaccino anti-Covid. I partecipanti, di età pari o superiore a 50 anni oppure pari o superiore a 18 anni ma con “comorbidità rilevanti”, sono stati divisi in due gruppi: ad uno sono stati somministrati 800 milligrammi di molnupiravir due volte al giorno per 5 giorni in aggiunta alle “cure abituali”, mentre all’altro sono state date solo queste ultime. Ebbene, in seguito ad un monitoraggio durato 28 giorni è emerso che i gruppi hanno sperimentato un tasso simile di ricoveri e decessi, essendo gli stessi stati registrati in “98 (1%) dei 12.525 individui del gruppo delle cure abituali” ed in “105 (1%) dei 12.529 partecipanti” appartenenti al gruppo a cui è stato somministrato anche il molnupiravir.
Certo, gli individui che hanno ricevuto il molnupiravir hanno avuto tempi di recupero più rapidi rispetto a quelli trattati solo con le cure abituali, ma con risultati assai più modesti di quelli sbandierati dai comunicati aziendali. Nell’ottobre 2021, infatti, Merck aveva diffuso un comunicato contenente promettenti risultati: dimezzamento di ricoveri e decessi assumendo 4 pillole al giorno per 5 giorni, con trattamento da effettuare nei primi giorni dall’infezione. Così, le manifestazioni di entusiasmo dei virologi più in vista non erano tardate ad arrivare, con il factotum della gestione pandemica americana Anthony Fauci che – ad esempio – aveva parlato di «dati impressionanti». Eppure tali dati erano tutt’altro che solidi come facemmo notare, dopo averli analizzati, su L’Indipendente in un articolo pubblicato ad ottobre 2021 – tra l’altro la sperimentazione era stata sospesa prima di essere completata, basandosi sulla metà dei volontari inizialmente previsti.
Puntualmente stanno emergendo dati che mettono in dubbio l’efficacia del molnupiravir, i cui benefici sembrerebbero essere stati gonfiati da una sperimentazione poco rigorosa. Certo, si potrebbe obiettare che lo studio recentemente pubblicato sul The Lancet abbia ad oggetto quasi esclusivamente soggetti vaccinati con tre dosi mentre nel comunicato della società non viene menzionato lo stato vaccinale degli individui sottoposti alla sperimentazione, ma si tratterebbe di una critica futile. Pur volendo escludere i risultati emersi dallo studio attuale, l’entusiasmo generale creatosi in seguito alla diffusione dei dati aziendali non può infatti essere giustificato visto che i proclami inizialmente fatti sull’efficacia del molnupiravir erano stati smentiti già nel dicembre 2021, quando i dati completi degli studi presentati alla FDA (Food and Drug Administration) per l’approvazione del farmaco avevano suggerito che lo stesso fosse “meno efficace di quanto inizialmente pensato”. A riportarlo era stato un articolo pubblicato sulla rivista Nature, in cui veniva specificato che i risultati mostravano come il farmaco avesse “ridotto il rischio di ricovero da Covid-19 del 30%”, e non del 50% come osservato inizialmente da Merck.
Lo studio attuale è quindi una conferma dei dati molto meno esaltanti del previsto. Come detto, però, nonostante già in passato fosse facile comprendere che i dati dell’azienda dovessero essere presi con le pinze, la reazione di diversi virologi non era stata certo misurata. Eppure, le zone d’ombra legate ai dati sbandierati erano diverse, con questi ultimi che avrebbero dovuto essere analizzati criticamente da esperti e media non solo a causa dell’elevato costo della pillola (700 dollari a trattamento) ma anche in virtù dell’atteggiamento ben differente adottato nei confronti di altre cure. Basterà citare la terapia basata sul plasma convalescente, a più riprese affiancata dalla stampa nazionale al concetto di “teoria cospirazionista” ma rivelatasi poi efficace nel ridurre il “rischio di progressione della malattia che porta al ricovero in ospedale”. A sottolinearlo uno studio pubblicato sul New England Journal of Medicine (Nejm), il quale precisava anche che il plasma convalescente non avesse “limiti di brevetto” e fosse “relativamente poco costoso da produrre”: un dettaglio che, alla luce di quanto detto, non può passare inosservato.
[di Raffaele De Luca]
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