Le diverse riforme hanno prodotto lavoro precario e salari bassi. I dati della Fondazione Giuseppe Di Vittorio.
Su un sito dove si autocelebrano i successi dei governi Berlusconi c’è un richiamo alla legge Biagi del 2003: “Queste innovazioni - si legge - non accrescono la precarietà, ma incrementano le opportunità”. Inizia da qui una storia lunga vent’anni. In mezzo c’è la riproposizione della promessa del Cavaliere fatta da tutti i governi (la stragrande maggioranza di sinistra) che sono venuti dopo. Tutti hanno garantito che avrebbero fatto meglio dei precedenti, tutti hanno sostenuto che le loro riforme non avrebbero creato nuovi precari, semmai il contrario. Il saldo di questa promessa lo danno i numeri del mercato del lavoro. Raccontano una promessa tradita. Quelli della Fondazione Giuseppe Di Vittorio dicono che nel 2020 i precari sono stati 2,7 milioni. La pandemia, come tutte le crisi, li ha ridimensionati (sono già in risalita nei primi mesi di quest’anno), ma nonostante questo sono il 17,8% in più rispetto al 2008. E vent’anni fa arrivavano appena a 2 milioni.
Quei 4,7 milioni di lavoratori tra contratti a termine e part-time obbligatoMa la storia non finisce qui. Gli stessi dati rivelano che sono in tutto 4,7 milioni gli occupati che vivono una situazione drammatica tra precarietà e involontarietà. Non ci sono solamente i 2,7 milioni di precari. La cosiddetta area dell’involontarietà, composta dagli occupati con part-time involontario, ha toccato quota 2,7 milioni di occupati (+106% rispetto al 2008). Sono lavoratori che vorrebbero lavorare di più, ma che non riescono a trovare un impiego a tempo pieno e quindi devono accontentarsi del part-time. Anche se il contratto è a tempo indeterminato. Ma torniamo alla grande area che ha a che fare con la discontinuità lavorativa e con salari bassi. I 4,7 milioni di occupati che vivono questa condizione sono suddivisi così: 2,7 milioni di precari (di cui 660mila con part-time involontario), 1,7 milioni di occupati a tempo indeterminato con part-time involontario e 381 mila occupati indipendenti con part-time involontario.
Poi ci sono tutti quelli che un lavoro non ce l’hanno, come i disoccupati e gli scoraggiati disponibili a lavorare, ancora la gran parte degli occupati in cassa integrazione. La platea si allarga, ma la storia che va avanti da vent’anni va ristretta ai precari. Un altro aspetto che mette in evidenza quanto il precariato è risultato imponente anche in un anno di crisi, quando i contratti a termine saltano per primi, è il saldo tra assunzioni e cessazioni (-116 mila): è il risultato di una crescita per i contratti precari (+161 mila) e di un calo per quelli stabili (-277 mila). E, ancora, questa tendenza si evince dalla quota di tutti i rapporti di lavoro cessati con una data massima di un anno: oltre l′80 per cento.
E con salari molto bassi
Il lavoro è sempre più precario, ma anche sempre più povero. “L’area del disagio salariale - spiega il rapporto della Fondazione Di Vittorio - è ancora più vasta” di quella occupata dai 4,7 milioni di lavoratori che si destreggiano tra il tempo determinato e il part-time involontario. La caratteristica principale di questa area è la discontinuità (periodi di lavoro inferiori a un anno) più che la tipologia del contratto. Nel settore privato, al di sotto del salario medio lordo annuale, pari a circa 22mila euro, ci sono in tutto 9,4 milioni di lavoratori dipendenti. Tra questi, circa 5,2 milioni, guadagnano meno di 10mila euro lordi all’anno.
Così la politica ha fallito la scommessa della lotta al precariato
Il primo elemento che va tenuto in conto quando si analizza l’andamento del precariato è il ruolo della crisi. Meglio delle crisi, dato che negli ultimi vent’anni non c’è stata solo quella provocata dal Covid, ma anche quella del 2008. In entrambi i casi ci sono state delle flessioni perché molte imprese, tra fatturati a picco e chiusure, non hanno rinnovato i contratti in scadenza. Ma poi il mercato del lavoro ha registrato dinamiche opposte. Dopo la crisi del 2008 il trend del precariato è risultato in crescita, portando il totale dei precari da circa 2,2 milioni a 3 milioni alla fine del 2019. Poi con la pandemia sono scesi a circa 2,7 milioni, ma nei primi mesi del 2021 sono risaliti a quota 2,9 milioni.
Questi numeri mettono in evidenza l’incapacità della politica - soprattutto dei governi guidati dalla sinistra e poi dai 5 stelle - di trovare soluzioni adeguate. In mezzo ci sono state le riforme: nessuna è riuscita a invertire il trend. E qui subentra la prima falla: un cambio di regole così repentino che il mercato non ha avuto neppure il tempo di recepirle. L’ha spiegato l’ex ministro del Lavoro Elsa Fornero in un’intervista a Huffpost, riconoscendo che anche la sua riforma, datata 2012, non è riuscita ad attecchire. Chi è venuto dopo ha smontato quello che è stato deciso prima, ma intanto il precariato ha continuato a viaggiare e ad aumentare. Quando toccò a Berlusconi con la legge Biagi fu la sinistra a insorgere. La stessa sinistra che qualche anno prima, nel 1997, aveva inaugurato con il pacchetto Treu la prima grande rottura nel mondo del lavoro attraverso l’introduzione di una flessibilità che non si è riusciti poi a regolare. E che si è trasformata in precariato selvaggio, deregulation, salari bassi. Esploso, negli ultimi giorni, nel settore della logistica. Intanto il lavoro ha cambiato pelle, il precariato si è adattato persino al nuovo mondo, mentre la politica ha arrancato.
Ma ripercorrendo nuovamente all’indietro gli ultimi vent’anni, dopo Berlusconi toccò ai tecnici. All’articolo 1 della legge Fornero, datata 2012, si legge che l’obiettivo della riforma è un mercato più dinamico e inclusivo da perseguire “favorendo l’instaurazione di rapporti di lavoro più stabili e ribadendo il rilievo prioritario del lavoro subordinato a tempo indeterminato, cosiddetto «contratto dominante», quale forma comune di rapporto di lavoro”.
La spinta non è arrivata. Con eccezione del Pdl, che alzò un muro fatto di contrari, astenuti e assenti, quella riforma la votarono tutti in Parlamento, ma divenne presto il capro espiatorio sia della destra che soprattutto della sinistra di Matteo Renzi. Arrivò così il Jobs Act, il baricentro della discussione si spostò definitivamente sul tema dell’articolo 18 e dei licenziamenti, già spolpato tra l’altro durante il governo Monti. Anche qui nessuno si è preoccupato di guardare dentro a quel pezzo del mercato del lavoro che stava progressivamente perdendo competitività, salari e diritti.
Solo un biennio (il 2015-2016) ha registrato
un’inversione di marcia: era la stagione della grande decontribuzione,
le imprese ricevano incentivi per assumere a tempo indeterminato e
quella formula funzionò. Poi si è esaurita. E i contratti a termine,
così come i voucher, sono esplosi nuovamente. Infine il decreto Dignità
dei 5 stelle, la barriera contro il lavoro a termine. Ci sono stati
anche contratti che da precari sono diventati stabili, ma nel 2018,
quando fu dato il via libera alla riforma, i precari erano più di tre
milioni. E tali sono rimasti fino alla fine del 2019. Solo la crisi ha
“fermato” il precariato, ma anche le crisi hanno una fine. E quando si
torna alla normalità emerge tutta la debolezza di un fenomeno che è
diventato strutturale. E che va ben oltre la scommessa del Recovery.
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