martedì 29 giugno 2021

Le leggi della fisica e la crescita impossibile

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Due fisici (il primo è senior professor presso la facoltà di ingegneria del Politecnico di Torino, il secondo ha insegnato Fisica Tecnica Ambientale al Politecnico di Milano) si rivolgono, uno, ai decisori politici (Angelo Tartaglia, Clima, lettera di un fisico alla politica, Edizioni Gruppo Abele, 2021), l’altro agli insegnati (Federico M. Butera, Affrontare la complessità. Per governare la transizione ecologica, Edizioni Ambiente, 2021), ma potrebbero invertirsi i compiti e gli argomenti non cambierebbero di molto. Come dire: il problema va affrontato sia dal basso che dall’alto, alla base della formazione culturale e scientifica delle persone, come ai vertici del potere. La sfida sarà vinta, probabilmente, quando avremo un ecologo al ministero dell’ecologia e l’ecologia in cattedra nelle scuole. Il tema è il rapporto tra attività antropiche e mondo fisico, a partire dai cambiamenti climatici, ma non solo.

Il lavoro di Tartaglia è un agile, ironico e tagliente pamphlet, quello di Butera è un ponderoso compendio di storia della natura pensato per gli educatori che devono introdurre l’insegnamento obbligatorio dell’educazione ambientale fin dalla scuola primaria, voluto dall’ex ministro Lorenzo Fioramonti (vedi: www.minambiente.it/sites/default/files/archivio/allegati/LINEE_GUIDA.pdf).

Tralasciamo qui le parti analitiche dei due volumi, utilissime, ma oramai note ai più. Il problema non sono più i “negazionisti” ‒ che si sono sciolti con il surriscaldamento climatico ‒, ma i numerosi camuffamenti del greenwashing, gli ambientalisti dei consigli di amministrazione, i teorici della Green Growth, gli idolatori delle soluzioni tecnocratiche della geo e bio ingegneria. Più deperisce il mondo vitale, più cresce una vera e propria religione fondata su due assiomi: la tecnoscienza troverà sempre, stupefacendoci, le soluzioni più idonee a tutti i nostri problemi; la “mano invisibile” del libero mercato economico (con “pilota automatico”, prima evocato poi materializzatosi in Italia con Draghi) canalizzerà il denaro necessario a finanziare le innovazioni necessarie. Il cerchio denaro-tecnologia si chiude così in modo tautologico e autoreferenziale.

I nostri autori si sforzano a dimostrare la fallacia e la pericolosità di tale visione magica della scienza e del mercato. Butera richiama la necessità di figurare la giusta rappresentazione dell’economia nel mondo fisico. La biosfera come “sovra-sistema” con “limiti planetari” (stock e servizi ecosistemici) difficili da forzare dalla potenza trasformativa dell’homo sapiens industrializzato senza provocare dannosi “effetti collaterali”, senza alterare i processi biogeochimici, senza perturbare le concatenazioni (interconnessioni) che regolano il funzionamento del sistema Terra. Stiamo compromettendo cicli vitali complessi e complicatissimi, come quello del fosforo e dell’azoto, da cui dipende la fertilità dei suoli e quindi, in ultima analisi, l’assorbimento dell’anidride carbonica e la stessa fotosintesi clorofilliana. Stiamo ignorando leggi del mondo reale, della fisica e della termodinamica.

Sia Butera che Tartaglia concordano sul dover “fermare il treno del progresso”, cambiare il modello economico e culturale che ha un nome – scrive Butera –: «È il capitalismo nella forma estrema del neoliberismo» (p. 290). Per lui l’idea del “Green New Deal” può essere un primo passo per avviare una transizione che «includa il bilancio ecologico nel bilancio economico» delle aziende, degli stati, delle famiglie. L’obiettivo deve essere «la diminuzione drastica della quantità di prodotti che vengono immessi nel mercato nei paesi sviluppati e una crescita contenuta e selettiva di essi nei paesi in via di sviluppo, in un contesto culturale ed economico in cui prevalga il concetto di sobrietà» (p. 283). Dovremmo: «ridurre la produzione di nuovi beni, progettandoli e realizzandoli in modo che siano durevoli, riparabili e riusabili» (p. 271). Butera comunque non ama il concetto di “decrescita”, che ritiene una «infelice locuzione» e lascia aperta la possibilità di un “disaccoppiamento” tra la crescita dei profitti aziendali e la cura della Terra. La frase topica è questa: «(una impresa) può guadagnare tanto sia con la qualità che con la quantità» (p. 270). Tartaglia è più radicale: la «crescita [perpetua, illimitata, universale] sostenibile» è mera metafisica, un mito e un inganno. Non può esserci aumento del Pil che non trascini con sé maggiori flussi di energia e di materia, di «tonnellate e di chilowattora». A meno di non pensare di poter «mettere un prezzo a sorrisi e atti di benevolenza reciproca» (p. 58) e di volerli riservare solo a chi è solvibile sul mercato. Così come è impossibile ipotizzare una circolarità compiuta delle materie impegnate nei cicli produttivi, distributivi e di consumo: «Per crescere, cioè se l’ampiezza del ciclo deve aumentare, bisogna attingere a risorse primarie che si trovano fuori del ciclo» (p. 61). Nessun nuovo Piano Marshall, nessuna espansione basata sull’indebitamento, sull’appropriazione dei saperi e sulla competizione tra aree di influenza economiche potrà mai portarci fuori dalla crisi ecologica in atto.

Da scienziati della più “dura” delle discipline – la fisica ‒ i nostri due autori si lamentano di un paradosso irrisolto. Come è possibile conoscere l’insostenibilità e l’irragionevolezza del sistema socioeconomico in cui viviamo sia attraverso l’esperienza (fa più caldo, le specie animali si estinguono, le pandemie avanzano, le migrazioni di profughi ambientali si avvicinano…), sia in termini scientifici, ma non riuscire a cambiare rotta? Evidentemente la ragione e la razionalità non bastano a battere «ignoranza ed egoismo», «diffidenza e paura» (sempre Tartaglia). Il pessimismo rischia di avere il sopravvento se non interviene la dimensione etica e spirituale che ci deve far dire che questo mondo dominato da relazioni umane gerarchiche, discriminatorie, patriarcali, razziste, speciste… non lo vogliamo più, nemmeno se fossero ancora a nostra disposizione tutte le risorse naturali del pianeta. Dimensione ecologica, dimensione sociale e dimensione spirituale-culturale (che idea abbiamo noi del senso della nostra vita) non possono essere disgiunte nel pensare e creare un’alternativa.

L’articolo è pubblicato anche sul sito dell’Associazione per la decrescita

 

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