martedì 29 giugno 2021

Il nuovo feudalesimo del capitalismo.

I dati sulla distribuzione della ricchezza e sul sistema impermeabile in cui vivono i miliardari dimostrano che la narrazione del capitalismo come ordine meritocratico che premia il duro lavoro, il valore sociale e l'innovazione è solo un mito.


jacobinitalia.it Luke Savage

«Madre perdonami. Dio perdonami». In una delle scene finali del brillante (anche se drammaticamente tagliato) film del 1942 di Orson Welles L’orgoglio degli Amberson, il rampollo aristocratico decaduto George Amberson Minafer siede da solo in un abbandono disperato il giorno prima di lasciare la tenuta di famiglia per l’ultima volta. «Domani – dice il regista nelle vesti di voce narrante fuori campo – si sarebbero trasferiti. Domani sarebbe sparito tutto». La potente storia del declino dinastico di Welles racconta anche di come il capitalismo industriale divora sé stesso, la fortuna di Amberson e la forma tipicamente ottocentesca della ricchezza del Midwest viene messa in scena nel momento in cui viene soppiantata da quella della famiglia rivale Morgan, che investe nel settore dell’automobile.

La narrazione è potente, non ultimo perché George, inesorabilmente viziato, alla fine ottiene la sua punizione e l’impero di Amberson si sbriciola (sebbene il taglio originale di Welles sia stato fatalmente compromesso dai pezzi grossi della Rko Pictures, che hanno aggiunto un lieto fine imperdonabile). Non è un fatto senza precedenti anche per le famose fortune della prima Età dell’oro, alcune delle quali, anche se in modo meno drammatico, si sono ridotte ai margini della storia.

Per questo motivo, c’è un argomento convincente a suffragio del fatto che la nuova Età dell’oro statunitense sia ancora meno meritocratica della prima, come sostiene con nettezza una ricerca pubblicata di recente dall’Institute for Policy Studies (Ips). Silver Spoon Oligarchs: How America’s 50 Largest Inherited-Wealth Dynasties Accelerate Inequality descrive in dettaglio la scala sorprendentemente pericolosa della ricchezza dinastica nel ventunesimo secolo. Ma chiarisce anche che fortune del genere dagli anni Ottanta abbiano potuto crescere esponenzialmente grazie all’azione congiunta di politiche fiscali distorte, potere politico maturato e influenza sociale e avidità sfrenata, consacrando un sistema economico di caste essenzialmente impermeabile ai tipi di forze che rivendicavano gli Amberson immaginari e alcuni dei loro equivalenti nel mondo reale.

A partire dallo scorso anno, le cinquanta dinastie familiari più ricche degli Stati uniti detenevano un totale di 1,2 trilioni di dollari (per fare un confronto, la metà inferiore, circa 65 milioni di famiglie, ne detiene appena il doppio). Dal 1983, questa ricchezza è cresciuta a un ritmo dieci volte superiore a quello della famiglia media: le ventisette dinastie di miliardari elencate nella classifica dei ricchi di Forbes quell’anno hanno visto crescere i loro patrimoni di oltre il 1.000% negli ultimi trentasette anni (da 80,2 miliardi a 903,2 miliardi di dollari, al netto dell’inflazione).

«I ranghi delle fortune dinastiche statunitensi – scrivono Chuck Collins dell’Ips e i suoi coautori – sono rimasti sostanzialmente invariati per decenni e stanno diventando sempre più persistenti nel tempo». Delle cinquanta dinastie elencate nell’elenco Forbes Billion-Dollar Dynasties lo scorso anno, infatti, più della metà era già presente nella classifica di Forbes del 1983. Oggi è raro se non del tutto impossibile che ricchezze di questo tipo subiscano un declino. Nonostante abbiano pagato miliardi in transazioni e abbiano visto la loro azienda presentare istanza di fallimento, ad esempio, la famiglia Sackler, spacciatrice di oppiacei, vale ancora 10,8 miliardi di dollari (in calo dell’indice Forbes dal 16° al 30° posto).

La spiegazione più semplice e più ovvia di questo nuovo feudalesimo ereditario sta la politica fiscale, che negli ultimi decenni si è fatta sempre più permissiva nei confronti degli ultraricchi: le aliquote del reddito, delle proprietà e delle imposte sulle plusvalenze sono state tutte costantemente ridotte. Sfruttando varie vie legali e scappatoie, come dimostra la ricerca dell’Ips, le dinastie dei ricchi spesso hanno la possibilità di evitare del tutto di pagare le tasse, un fatto che si riflette nella constatazione fatta nel 2017 da Gary Cohn, il direttore del National Economic Council di Donald Trump: «Solo gli idioti pagano la tassa di successione».

Questo sistema, ovviamente, non è stato costruito sul nulla. Il rapporto documenta che i super-ricchi delle famiglie dinastiche hanno ricoperto un ruolo molto attivo nell’inclinare il campo di gioco a loro favore: versando somme incalcolabili in attività di lobby, campagne politiche, imprese filantropiche e gruppi di studio vicini ai miliardari per aiutare a consolidare le loro posizioni in cima alla classe dirigente dorata del paese.

È un altra prova del fatto che la narrazione fondamentale del capitalismo statunitense – quella di un ordine libero e meritocratico che premia il duro lavoro, il valore sociale e l’innovazione – è essenzialmente un mito. La ricchezza è potere e, in una società diseguale, la minoranza benestante ha molto più potere di tutti noi per truccare le regole a suo favore e perpetuarsi attraverso le generazioni.

*Luke Savage è redattore di Jacobin. Questo articolo è uscito su JacobinMag. La traduzione è a cura della redazione.

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