domenica 16 agosto 2020

Ilva. Compra, ruba e scappa.

La crisi del 2008 aveva riportato alla ribalta un attore costretto negli anni a stare in disparte, relegato come certe attricette di scarso talento, all’eterno ruolo di sostituto.  E con  la pandemia (in pieno lockdown il presidente Conte mentre scavalcava il Parlamento e perfino l’Esecutivo delegando la strategia della rinascita a task force di manager venuti su a profitti e marketing,  lanciava la nazionalizzazione dell’Alitalia) è sembrato che i finanziatori e il gestore del teatro volessero dargli una parte consona al suo spessore.

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ilsimplicissimus Anna Lombroso

Ma come accade nel mondo dello spettacolo si è capito subito (è bastato a convincerci la contraffazione in successo della resa ai Benetton sul Ponte di Genova, mentre nulla si dice del caso Adriatica, la A14  con code che si prolungano fino ad otto ore consecutive) che erano gli impresari a recitare fuori dalla scena.

Lo Stato, di questo si parla, che in caso di crisi viene tirato dentro dal mercato a risolvere  i problemi creati dal mercato, non conta nulla se non per  accontentare le “pretesa” dei padroni dell’economia e della finanza  di socializzare le loro perdite,  come è successo con il succedersi di crack ai tavoli del casinò, quando grandi banche di investimento e altre istituzioni finanziarie fallite o agonizzanti per via di gestioni criminali hanno ottenuto che gli Stati,  negli USA attraverso la Federal Reserve, in Europa attraverso la BCE , comprassero la loro spazzatura e coprissero le loro falle, scaricando il loro dissipato malaffarismo privato sulle casse e le tasche pubbliche.

Così il Governo mentre scrive nei decreti della sua pandeconomia, quello che  i grandi suggeriscono,  segna definitivamente la condanna a morte del decantato piccolo è bello, delle Pmi che hanno costituito l’impalcatura del sistema produttivo italiano, continuando nel frattempo a rafforzare quel capitale fittizio che occorre per investire delle opere, nei cantieri, attraverso il sistema “diversamente” privato della Cassa Depositi e Prestiti, i cui investimenti replicano pedissequamente il modello speculativo e le logiche di mercato, o Invitalia, ‘Agenzia nazionale per l’attrazione degli investimenti e lo sviluppo d’impresa, di proprietà del Ministero dell’Economia. La cui mission (confermata dalla rivelazione  che i finanziamenti l’agenzia versava per lo stabilimento FCA di Termini Imerese, da riconvertire all’auto elettrica, erano in realtà distratti per fare speculazioni finanziarie), sembra essere quella di fornire assistenza a grandi imprese e multinazionali parassitarie.

E non è casuale dunque che il dossier Ilva sia stato consegnato per accertamenti a Invitalia e che la potenziale uscita di Arcelor Mittal sia condizionata all’intervento della Cassa Depositi e prestiti, per decidere poi se un eventuale intervento pubblico dovrà essere solo finanziario o anche industriale.

Quante volte di fronte ai crimini commessi contro il lavoro, l’ambiente la salute a Piombino, a Taranto, a Terni, quando i governi si sono prestati a farsi prendere per i fondelli dalle proprietà feroci e sanguinarie prendendo per i fondelli a loro volta cittadini, operai, si è detto che l’unica soluzione era la nazionalizzazione, il passaggio allo Stato come unico garante della messa in sicurezza, del risanamento e della sanità, dell’occupazione e del risarcimento di città martiri.

Quante volte a chi lo sosteneva si è sentito rispondere che ci sono casi nei quali non si deve sottoporre un Paese a quella aberrante alternanza tra nazionalizzazioni e privatizzazioni che ha come unico effetto quello di scaricare sul sistema pubblico i costi economici,  sociali e politici delle ristrutturazioni. Che non è ragionevole ed equo subire la pressione iniqua esercitata dla capitale  che ci costringe a subirei danni e a risarcire le vittime e tutta la società  dei suoi fallimenti economici, sociali, ecologici, così mentre noi paghiamo lui fa cassa.

È che viene un momento nel quale bisognerebbe fare i conti con le responsabilità collettive, perfino quelle minime, che sembrano personali,  che comporta dare il voto e quindi il consenso a partiti, governi e amministrazioni. Il 9 agosto Conte  a Ceglie Messapica in provincia di Brindisi partecipando all’evento ‘La Piazza… la politica dopo le ferie‘ (sic) durante il quale ha benignamente  “ricevuto” associazioni di cittadini di Taranto, ha rivendicato di aver detto pubblicamente che “è assolutamente inaccettabile che alla comunità tarantina sia prospettata una scelta tra diritto alla salute e diritto al lavoro. Sono due diritti che devono essere entrambi realizzati e perseguiti”, anche se, coerentemente con i pilastri dello stato di eccezione che ha incarnato in questi mesi, ha aggiunto: “la salute è l’unico diritto che dalla Costituzione viene dichiarato fondamentale”.

Dovremmo avvertirlo che in realtà ai cittadini che vivono all’ombra delle fiamme avvelenate dell’Ilva quell’alternativa non è stata data, che hanno negli anni perso il diritto al lavoro retrocesso a diritto alla fatica, e quello alla salute, negata dentro e fuori dalla fabbrica.

E che se è vero che ha ereditato un “dossier”, come ha ritenuto di definirlo, che si trascina da anni,  è altrettanto vero che le ipotesi di intervento dello Stato adesso, sono quantomeno sospette, che fanno immaginare come è avvenuto in altri casi, che così la Nazione entri in gioco in veste di becchino incaricato di mettere una pietra sepolcrale su una fabbrica che non è più redditizia, sui veleni e sui delitti senza pena, a pensare che si è elargita immunità e impunità agli assassini, affondandoli sotto l’acquario promesso come opportunità di sviluppo e occupazione.

Intanto: “E’ prematuro dire quale sarà l’esito del negoziato con ArcelorMittal, ma potete stare tranquilli”, Conte ha “rassicurato” così i rappresentanti dei 5000 cittadini che gli hanno scritto per motivare la richiesta di chiudere l’azienda anche in presenza dei dati sul raddoppio dell’inquinamento da benzene nei primi sei mesi dell’anno. “Il governo, ha dichiarato,  sta facendo di tutto per garantire le massime condizioni di salute e sicurezza dell’intera comunità tarantina, e per garantire la piena transizione energetica dello stabilimento. Stiamo ancora lavorando sul piano industriale e continueremo ad aggiornarvi”.

C’è da dubitare che sia riuscito nell’impresa di tranquillizzare i tarantini, che in 50 anni, hanno visto l’acciaieria prima occupare il corpo cittadino, poi produrre acciaio e lavoro  ma pure devastazione ambientale e morte e poi ridursi a accozzaglia di rottami arrugginiti fin dall’acquisizione  nel 1995, da parte della dinastia Riva che l’ha pagata quattro soldi, la fa lavorare al massimo quanto sfrutta i dipendenti e non investe nella sostenibilità e nella sicurezza dirottando i molti utili in conti offshore che nessuna forza politica dell’arco parlamentare si è mai arrischiata  di andare a cercare.

E oggi il concessionario che vorrebbe comprare ma non compra, che esige l’impunità ma non risana e non bonifica, che col pretesto del Covid esige aiuti per quasi 2 miliardi, ma intanto specula perfino sui reflui, che non si mette d’accordo sul “compromesso” ma  intanto per la seconda volta non versa il fitto “pattuito”, che propone un piano industriale ma  proroga a tempo indefinito la realizzazione del nuovo altoforno,  ha la sfrontatezza di presentare un piano industriale che “sacrifica” 5000 “esuberi”.

Adesso vedremo come reagirà Landini che in nome della tutela dell’occupazione aveva accusato il Governo di non mostrare la doverosa cedevolezza nei confronti delle richieste della multinazionale. Adesso che i sindacati e il Consiglio di Fabbrica ha avvertito che in mancanza di risposte certe, disporranno l’autoconvocazione dei lavoratori nelle sedi istituzionali.  Adesso che appare chiaro che il colosso indo… non  aspirava al rilancio della produzione di acciaio a Taranto, ma a cannibalizzarla grazie ai servigi della più feroce tagliatrice di teste in azione, al Morselli una carriera di migliaia di vittime dei suoi repulisti ,in modo che potesse cadere  preda della concorrenza, per poi chiuderla,   eliminando da un mercato saturo una quota produttiva ancora rilevante, perlomeno in Europa.

Ma allora il vecchio baraccone avvelenato potrebbe essere ancora competitivo, allora una volta risanato come in ogni caso di deve fare, allora una volta “ristrutturato”, una volta sottratto agli artigli della feroce tagliatrice di teste, la collezionista di guadagni conseguiti sul ceppo del boia, quella Morselli che prima fu incaricata da Calenda poi da Di Maio di condurre trattative, diventando infine Ad di Arcelor Mittal Italia, è lecito pensare e agire per ridarle il ruolo di produzione strategica per il Paese.

Certo non è facile, perché si tratta di rovesciare il pensiero dominante che si sorregge sulla accondiscendenza ai format di redditività e produttività basati sul profitto avido delle proprietà e degli azionariati, proprio come succede per la stesa pubblica, intesa come un bacino messo a disposizione del parassitismo, cui è doveroso essere ostili, liberisti o progressisti, austeri o frugali,  quando riguarda i servizi pubblici e l’Welfare da offrire e favorevoli, proprio come di questi tempi quando invece concerne le agevolazioni alle imprese privare.

Si tratta di cominciare a calcolare non solo col pallottoliere delle rendite e dei tornaconto per gli azionisti, il “profitto” sociale dell’occupazione di migliaia di dipendenti, dei volumi di denaro e effetti economici a cascata che vengono messi in circolazione, della possibilità non remota che un’azienda organizzata, dove sono rispettai requisiti di efficienza, sicurezza, innovazione diventi concorrenziale con altre che traggono vantaggi dallo sfruttamento dei lavoratori, dalle retribuzioni disonorevoli, dalla violazione di standard ambientali.

Perché non si tratti solo di utopia e di illusioni visionarie, bisogna cominciare, i cittadini italiani e i tarantini in primo luogo, a ragionare diversamente dai padroni, non sottostare alle loro regole, per non essere talmente schiavi da pensare come loro.

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