Chi
dice che le pietre non hanno un cuore non conosce la piccola baita NO
TAV della Clarea, né sa l’invincibile amore di quanti l’hanno pensata,
costruita, protetta. La sua storia è parte importante di una lotta nata
trent’anni fa e che caparbiamente continua.
La
lobby del TAV, dopo averla tenuta per più di otto anni prigioniera, ha
decretato che lunedì 3 agosto dovrà morire. Per tale data ne hanno
previsto l’esproprio definitivo e probabilmente la demolizione. Ma i
ricordi sono troppi perché quel giorno possa passare nella rassegnazione
.
E
nata dai nostri progetti e dalle nostre mani, in quel 2010 in cui il
movimento NO TAV si rimise in cammino senza deleghe, dopo le illusioni
istituzionali del fine decennio. Le prime trivellazioni a San Giuliano e
all’autoporto di Susa, la militarizzazione della Valle, con decine di
denunce e vere e proprie cacce all’uomo che causarono ferimenti e lunghi
ricoveri in ospedale.
Il
sondaggio geologico legato al progetto del tunnel di base spostato da
Venaus a Chiomonte, nella valletta della Clarea, chiusa tra le montagne,
per questo più facilmente trasformabile in fortino.
Un
luogo che fu importante nell’antichità, come testimoniano i resti di
antiche civiltà neolitiche ed i racconti leggendari che vi collocano la
favolosa città di Rama.
La
prima a violare quei luoghi di boschi, castagneti e vigne fu
l’autostrada del Frejus, con un viadotto che li percorre in diagonale,
da galleria a galleria, contendendo il terreno al torrente.
Volemmo
la baita come presidio permanente in vista del futuro. Fu individuato
un piccolo spiazzo lungo la via delle Gallie, la strada sterrata che
dall’antichità collega Giaglione a Chiomonte, la vallata del Moncenisio
alla Valle del Monginevro.
Acquistammo
il terreno collettivamente e a fine estate i lavori ebbero inizio. La
costruimmo in pietra, in armonia con la natura circostante, sullo stile
dei mulini che, sia pur in disuso, ancora esistono, poco lontano.
All’interno
un’unica stanza, un piccolo bagno, scaffali per le provviste, in modo
da resistere il più a lungo possibile a quello che immaginavamo sarebbe
stato un vero e proprio assedio.
Ricordo
l’allegria di quell’autunno di lavori: ognuno contribuiva a suo modo,
dando il meglio di sé, perché anche quella era lotta. Le domeniche erano
scampagnate e merende intorno alla baita, scambi di notizie e
assemblee, tra gli alberi che, a poco a poco si tingevano di rosso,
giallo e ocra e il lento cadere delle foglie.
Si
stava procedendo alla costruzione del tetto, quando arrivò l’ordine di
sequestro con l’apposizione dei sigilli. Era l’ultima settimana di
novembre: la copertura andava completata prima della neve. Decidemmo di
rompere i sigilli e la costruzione andò avanti. Tra ingiunzioni e
rifiuti arrivarono anche le prime denunce a cui si rispose
intensificando i lavori.
Brindammo
all’anno nuovo nella baita ancora spoglia, allo scoccare della
mezzanotte, dopo una faticosa marcia nella neve alta, sotto un cielo
sfolgorante di stelle che camminavano con noi, così vicine da poterle
sfiorare.
In
tal modo ebbe inizio quel 2011 tanto denso di eventi che, a ricordarli,
sembrano dilatarsi nel tempo e far di pochi mesi una vita intera.
La
primavera in Clarea sfodera tutti i colori del verde. In quell’armonia,
il corpo estraneo era il viadotto autostradale, coi suoi piloni
minacciosi, ma già intaccati dalla natura che tenacemente si riprende
quello che è suo.
Anche
gli antichi castagni si coprirono prima di gemme e poi di foglie, tutti
tranne uno, un gigante che ancora si ergeva, ormai disseccato, come un
antico totem, nei pressi della baita. Sulla sua cima costruimmo la prima
casetta di avvistamento, un gentile nido: il capostipite di un
villaggio sparso sugli alberi dei quali uno sciagurato progetto
prevedeva l’abbattimento per far posto al cantiere del TAV.
I
mass media davano come imminente l’inizio dei lavori e si intensificò
da parte nostra il presidio del territorio. La baita divenne il punto
fisso e attrezzato di quei lunghi giorni di attesa. Si teneva d’occhio
l’autostrada su cui sapevamo che, al momento cruciale, sarebbero
spuntati in lunga fila i lampeggianti blu.
Li
vedemmo comparire all’improvviso una sera di maggio, ed attestarsi sul
viadotto sotto l’antica cascina della Maddalena. Una breccia nel
guard-rail avrebbe permesso loro di scendere sulla via delle Gallie e
occupare i terreni destinati al cantiere.
La
nostra resistenza fu pronta e per loro inaspettata: decine di persone
in corsa lungo i pendii, a fare da barriera vivente. Desistettero, ma si
prepararono a ritornare in forze. Anche noi ci attrezzammo a resistere.
Da quella resistenza nacque la libera repubblica della Maddalena. I
suoi confini partivano, ad occidente, dai cancelli della centrale
idroelettrica di Chiomonte. La baita ne costituiva l’estremo avamposto
ad oriente.
Quei
giorni cambiarono l’esistenza di molti. La vita in comune fece cadere
barriere, diffidenze e dogmi. Storie diverse si confrontarono e si
unirono non nella mediazione, ma nella radicalità. L’accesso alla libera
repubblica era interdetto ai “tutori dell’ordine costituito”, ma aperto
alle realtà che, da tante parti del paese anzi del mondo, vennero a
condividere lo spirito e la lettera di quella nostra esperienza e ne
portarono con sé il sapore e il messaggio.
Durò
un mese e mezzo, poi venne il 27 giugno, una giornata di lacrimogeni,
ruspe, manganelli e prepotenze poliziesche. Caddero le barricate alla
Maddalena, ma la baita fu difesa e, il 3 luglio, divenne il cuore della
riscossa. In una nube di lacrimogeni si distribuiva acqua e viveri, si
curavano feriti e ci si preparava a resistere ancora.
Quell’estate
la vivemmo in tanti alla baita intorno a cui si dispiegò un vasto
campeggio. Tende nel sottobosco, sacchi a pelo nelle casette sugli
alberi, pasti e chiacchiere in comune. Qualcuno preparava legna per
l’inverno. Donne, uomini, bambini; cani e pure un gattino che arrivò
affamato e con noi rimase.
Anche
i caprioli si spinsero sul sentiero, nel silenzio che precede l’alba.
In una giornata di pioggia vi trovarono accoglienza alcuni pellegrini in
cammino sul sentiero di Compostela e se ne andarono contenti, dopo aver
chiesto di apporre sul diario di viaggio l’annullo NO TAV, quale
certificazione del loro passaggio.
Non
mancarono provocazioni né lacrimogeni contro quello che ormai era
diventato il villaggio di Asterix, con tanto di palizzate, arco
d’ingresso, catapulta ornamentale (di essa i giornali parlarono come di
una pericolosa macchina da guerra). Un blocco poliziesco permanente
aveva interrotto la strada delle Gallie all’altezza dei piloni
autostradali: niente più collegamento diretto tra Giaglione e Chiomonte.
Ben
presto comparvero le prime recinzioni a delineare i contorni del
progettato cantiere e della “zona rossa”, comprendente la baita e i
castagneti sottostanti. La risposta del movimento fu il taglio delle
reti con manifestazioni di decine di migliaia di persone.. Fioccarono
denunce e arresti preventivi per gli attivisti.
Ma la baita continuava a resistere, amata e protetta, diventata casa per qualcuno e luogo del cuore per tutti.
Lo
sgombero avviene il 27 febbraio 2012, la mattina presto: un esercito di
poliziotti in assetto antisommossa contro un pugno di uomini, mentre
l’intera Valle sta salendo a dar manforte. Intorno a Luca morente ai
piedi del traliccio sul quale è salito inseguito da un automa in divisa
non si fermano i lavori di recinzione.
La
baita è dietro le sbarre, inglobata nel cantiere, come gli antichi
castagni, le casette sugli alberi, il pilone votivo costruito dai
credenti : un esproprio di fatto, prima di qualsiasi atto ufficiale.
Dov’era
il bosco arrivano le ruspe. Sradicati i castagni centenari carichi di
nidi e storia, i frassini e i carpini. Cancellato il sottobosco di
roverella e piccoli frutti. Interrotta la via all’acqua per gli animali
della selva.
Soltanto
a metà aprile i terreni saranno espropriati, con la procedura
accelerata dell’esproprio temporaneo di beni ormai devastati per sempre.
Per denunciare tutto questo Marisa Meyer, alla quale il movimento aveva
intestato la baita e la terra, si incatena alle reti.
Da
allora la nostra baita guarda desolata piazzali di cemento, cumuli di
detriti avvelenati da amianto e uranio, in un inferno di mezzi
sferraglianti, ruspe e autoblindo, prigioniera di un mondo capovolto,
dove l’anomalia è la sua figura gentile, con l’ultimo ciliegio selvatico
che si appoggia ai suoi muri, sfuggito alla mattanza.
A
guardarla a vista, nell’eterno giorno artificiale del cantiere c’è
l’esercito in assetto da guerra: una vera e propria occupazione militare
, estesa dalla Clarea a tutta la Valle, come accade ai “popoli di
troppo” finiti nel mirino dell’UE e della Nato.
Nonostante
le finestrelle coi vetri rotti e il tetto che, privo di lose, si sta
sfaldando, la sua struttura è ancora salda, costruita come fu con
maestria.
Lunedì
3 agosto arriveranno con l’esproprio definitivo ed il decreto di
demolizione per abusivismo edilizio: nell’abusivismo legalizzato del
cantiere-fortino, voluto dai lobbisti delle Grandi Opere e retto dalle
mafie che si annidano nel cuore dello stato, la nostra piccola, amata
baita è un avversario pericoloso perché porta in sé la storia concreta
di una lotta irriducibile, generosa e bella per un mondo più giusto e
vivibile per tutti.
A poche centinaia di metri, oltre il torrente, il neonato presidio dei Mulini di Clarea sorride e aspetta….
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